(foto presa da qui.)
È la musica brutta: roba largamente improvvisata, apparentemente suonata a cazzo di cane, con un sacco di sfrigolii gracchi e fischi fastidiosi, i volumi altissimi, tante tante manopole pulsantiere e pedaliere per tirarci fuori effetti dissonanti, dischi in tirature ultralimitate (spesso in CD-R con confezioni strane o, ancora meglio, in cassetta, che fa tanto dissociato semiautistico rimasto mentalmente nello scorso secolo) con un corredo grafico pazzerello e zuzzurellone che è un tripudio di disegni matti, schizzi e schizzetti che vorrebbero sembrare un misto tra le opere di un bambino dell’asilo particolarmente duro di comprendonio e le visioni malate di qualche serial killer psichicamente prostrato. Altre peculiarità per entrare a pieno titolo a far parte dell’elite comprendono suonare in almeno tredici gruppi diversi (tutti con moniker astruso, strambo e mattacchione), gestire (o collaborare con) una fanzine di carta piena di scarabocchi, tenere una distro di materiale urticante e aver suonato almeno una volta al No Fun fest. È roba che nella maggior parte dei casi diverte più i musicisti che gli ascoltatori, comunque impossibile da ascoltare tra le mura di casa senza sentirsi un perfetto imbecille, ma che dal vivo a volte ha un suo perché. Gli Hair Police soddisfano tutti i requisiti fondamentali per rivestire un ruolo di prim’ordine all’interno della scena: hanno un nome estroso, fanno tanto chiasso e il chitarrista è perfino entrato nei Wolf Eyes. Una ricerca a vuoto per il locale dove doveva suonare Z’EV (avevano cambiato il posto o io ero più rincoglionito del necessario) e l’XM che incredibilmente inizia la serata in orario mi fanno perdere le esibizioni dei gruppi spalla; quando entro gli Hair Police si stanno sistemando davanti agli strumenti. Il colpo d’occhio è promettente: Mike (il cantante/chitarrista nonché nuovo Wolf Eyes), uno gnomo con una notevolissima panza da birra, sta accordando lo strumento a due centimetri dall’amplificatore già settato a un volume inaudito causando una serie di sibili e stridii da esperimento nazista sul sistema nervoso, il tizio ai synth si lega al collo una pedaliera e il batterista sfoggia una camicetta attillata e un paio di Ray-Ban a goccia da fare invidia ai Nigel Pepper Cock. Iniziano con una jam piuttosto noiosa in cui ognuno sembra andare per conto proprio, molto lenta e decisamente inconcludente, con Mike che ogni tanto strilla cose al microfono con uno screaming arcigno che qualche mentecatto potrebbe definire metal (anzi, black metal che così fa più effetto, fa più weird). Poi scatta qualcosa: dopo una mini-sfuriata grind che lascia il tempo esattamente come l’ha trovato parte un monolite lentissimo con il batterista che per dieci minuti picchia sul rullante tipo POM. POM. POM. POM. POM., la pedaliera appesa al collo del tizio allampanato che lavora alla grande e Mike che spreme dalla chitarra suoni veramente malsani. Il concerto va avanti così, con l’alternanza scheggia velocissima-stillicidio straziante e bradipesco che rimane invariata, l’unica differenza è che a volte invece di fare POM. POM. POM. il ritmo è POM. PO-POM. POM., ma l’insieme funziona, è ipnotico, schiettamente marcio e genuinamente disturbante; finito il concerto mi sono effettivamente sentito sporco, indecente, sbagliato fino alle viscere. Certo i volumi da sordità immediata avranno contribuito non poco ad accrescere l’effetto di straniamento, ma per una volta la musica brutta è stata veramente brutta anche nei fatti e non soltano nelle parole del fanzinaro decerebrato americano di turno o di qualche scaltro cool hunter degli incapaci.