Pan Sonic + Martin Rev @ Locomotiv, Bologna (28/11/2009)

(foto di deSna B.)

In origine il cartellone di stasera prevedeva il solo Martin Rev, senonchè la data di ottobre dei Pan Sonic è saltata perché uno dei due (Mika Vainio, quello pazzo) era finito in coma etilico per l’ennesima volta. Dunque, recupero in extremis ora con conseguente reboot della serata da happening per squilibrati e reduci bolliti a evento mondano dell’anno per galleristi froci, intellettuali con gli occhiali, gente che ne sa di musica, esponenti della scena e in genere tipi giusti che vanno nei posti giusti. Locale pieno con fila all’ingresso, c’è chiunque deve esserci: è l’ultimo tour dei Pan Sonic (ma sarà poi vero?), mancare significherebbe scomparire dalla scala sociale. A Martin Rev di tutto questo, comunque, non frega un cazzo. Maglietta con supereroe e occhialoni da sole da cyborg scervellato, magro come un chiodo e scavato come una scultura di Giacometti, avanza caracollante portandosi dietro quasi quarant’anni di leggenda, marciume e marginalità rigorosamente newyorkese; sul palco una tastiera e un microfono, nient’altro. Solleva per un attimo gli occhiali per configurare qualcosa sulla plancia di comando rivelando occhi enormi e neri scintillanti nel vuoto, due fari di tenebra a squarciare la luce. Schiaccia un pulsante e parte una base che non riconosco, dev’essere un pezzo dal suo album nuovo, Stigmata, che non ho ancora ascoltato (è uscito il giorno prima); contemporaneamente comincia a percuotere la tastiera con pugni e gomitate, come un bambino suonerebbe il pianoforte dei nonni, premendo tutta la pianta della mano su tasti a caso e producendo soltanto caos dissennato. Poi afferra il microfono, e ci urla dentro un testo che, con buona approssimazione, fa più o meno così: HEY! HEY! HÙA! HÒE! HÈAH! HÙH! HÒAEY! per alcuni minuti, il tutto alternato ad altri pugni e gomitate sulla tastiera e occasionali coreografie da ballerino spastico strafatto di crack. La base è martellante e implacabile, i volumi sono assordanti, insensati. Il brano finisce senza che ci sia tempo di chiedersi perché, di cercare di razionalizzare quanto abbiamo appena visto, e subito parte quello successivo, che identifico immediatamente: è In your arms, il secondo pezzo di To Live (2003, probabilmente il miglior album della sua carriera solista), schitarrate anfetaminiche e drum machine assillante alla Ministry del periodo cyber-metal primi anni novanta. Tempo pochi istanti e Martin riprende ad avventarsi sulla tastiera rendendo il tutto un delirio cacofonico impressionante nella sua demenziale casualità; non prova nemmeno a fingere di ricordarsi il testo, si limita a emettere a pieni polmoni suoni a caso, grugniti scimmieschi, agghiaccianti belati, poi un balletto, alza le braccia al cielo, batte perfino le manine, poi ancora pugni e gomiti. Al quarto brano ho i timpani che implorano una tregua e dalla prima fila mi sposto verso il centro del locale. Incontro un’amica che non vedevo da molto tempo e le chiedo come sta. Mi risponde: “stavo molto meglio prima di sentire questo cialtrone“. Il concerto va avanti, la dinamica non cambia: parte la base, pugni alla tastiera, versi al microfono, con Martin via via sempre più febbrile e frenetico. Tra la fine di un brano e l’inizio del successivo descrive un semicerchio attorno al microfono a passetti veloci, poi schiaccia un tasto e tutto ricomincia di nuovo. Prima di iniziare il penultimo pezzo azzarda addirittura un “hey!“, che nel suo linguaggio significa certamente “grazie”. Conclude con una To live di oltre dieci minuti, accanendosi sui tasti stremati generando sul finale un allucinante, lunghissimo drone che è probabilmente il suono di quel che si ascolta all’Inferno. Un’ora esatta di performance in perenne bilico tra sublime e patetico, tra titanico e gratuito, a stagliarsi netto il profilo impassibile di uno dei più grandi catalizzatori di depravazione, decadimento e alterazione mentale di tutta la storia del rock.
I Pan Sonic, che pure hanno inciso due dischi con il compare di Rev – il non meno disturbato e deviante Alan Vega (che da anni pare occuparsi più di arte che di musica), hanno in serbo tutt’altra roba: a volumi minimi, decisamente fastidiosi ma stavolta al contrario (mi permettono di udire chiaramente tutte le cazzate che la gente dice intorno a me), srotolano una serie di rumorini microtonali, singultini da digestione laboriosa, pulsazioni da elettrocardiogramma di un novantenne, scariche elettrostatiche tipo la radio quando non prende, vrrrrrrrr frrrrrrrr di trapano del dentista e altri glup glip glop glap glep assortiti da far scendere la catena al più volenteroso degli ingegneri del suono; è tutto molto affascinante e i suoni indubbiamente ben curati e spesso anche belli, almeno per quanto l’incessante blaterare del pubblico – molto chic ma assai poco educato – mi permetta di distinguere, ma è anche roba che la coppia potrebbe tirare fuori agevolmente con la mano sinistra e gli occhi bendati, qualcosa di simile al concetto di b-side, di out-take o di cazzeggio domenicale spippettando sui marchingegni con gli amici fonici nerd, comunque qualcosa di decisamente non all’altezza di quello che vorrebbe essere un commiato ufficiale e definitivo. La portano avanti per cinquanta minuti, poi decidono che è abbastanza. Seguiranno dj-set adeguatamente raffinati. Simulazione di orgasmo.

(foto di deSna B.)

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