Seguire i Black Heart Procession fin dall’inizio significa essere testimoni di una delle più implacabili, scientifiche e inesorabili mutazioni dall’oro zecchino alla merda purissima avvenute nella storia del rock recente. Partiti come entità tra le più temibili e impietose nello scrutare nella tristezza umana più silenziosa e macerante attraverso tre album che sono altrettanti capolavori di disperazione incisa nella carne, letteralmente commoventi per ispirazione e rigore, precipitano in un micidiale guazzabuglio di ritmi spagnoleggianti, figure di plastica da karaoke di Tom Waits dei mentecatti, seghe (nel senso dell’utensile) pizzicate modello busker incapace e americana rassicurante e addomesticata da Marlboro Country nello sconvolgente Amore Del Tropico; il misfatto prosegue nel non meno sconcertante The Spell, con il recente Six che tenta maldestramente fin dal titolo di riparare tornando a battere antiche strade. Il problema è che il repertorio live del gruppo insiste nel tralasciare quasi completamente i primi tre dischi, il che – con tutto il rispetto e tutti i distinguo del caso – per noi equivale ad andare ad andare a un concerto di Neil Young sperando di sentire roba da Everybody Knows This Is Nowhere (o, al limite, da Harvest) e trovarsi Landing On Water riproposto interamente dalla prima all’ultima nota. Loro comunque se ne fregano: Pall Jenkins cerca con successo assai scarso di accendere una candela che si trova ai suoi piedi, in una serie di mossette e ragionamenti mugugnati a mezza voce che sono la ridefinizione del concetto di “autismo”. Toby Nathaniel, da par suo, sorseggia qualcosa da una tazzona gigante, di quelle che ci trovi sopra le scritte spiritose, con la verve di uno che sta facendo colazione la domenica mattina a casa della nonna in pigiama e ciabatte. C’è anche un ciccione che pare la copia subnormale di Will Oldham a suonare una lastra di metallo; la formazione è completata da due negri, il più scuro sta al basso e sembra un incrocio tra Mick Collins e Corey Glover come è adesso, il più chiaro è alla batteria e ha l’aria di uno scagnozzo strafatto di crack che sta per combinare uno scherzo terribile.
Per i primi due-tre pezzi la cosa funziona: sembra effettivamente di essere stati catapultati in qualche buco di culo di paesino rurale della provincia americana più infima, dove ubriacarsi all’unico bar della zona è l’unico sport praticato e il sesso tra consanguinei una pratica ordinaria, perfino banale. Poi però lo scenario stanca presto, dal momento che a mancare sono le canzoni (riescono perfino a massacrare Blue Tears stravolgendola fino a renderla irriconoscibile), e la band – negri esclusi – pare convinta di starci facendo un favore a stare lì a sfracellarci i coglioni inanellando un pezzo brutto dopo l’altro. Ma la maglietta del nuovo disco è molto bella e non resisto alla tentazione di comprarla, e alla fine sono soltanto più povero e più scoglionato.
Piccola nota a margine: va bene che l’arte non ha prezzo, ma sedici euro a fronte di un’ora e un quarto di concerto – bis compresi – fa abbastanza rodere il culo. Sono più di venti centesimi al minuto: a telefonare alle cartomanti (o a qualche chat-line porno) ce la si cavava con meno. E magari, ascoltando le loro baggianate, ci si divertiva pure di più.
boh..dal vivo non mi hanno mai convinto..quindi capisco
l’ultima volta che erano venuti (sempre all’estragon), mi era bastata.
a sto giro non mi hanno avuto
è andata meglio al mio coinquilino alessà, che arrivato dopo il concerto ha passato tutta sera a farsi offrire dei gran whisky da jenkins .
e gli sarebbe andata ancora meglio se si faceva dare il numero di telefono di sua cugina (ex miss-Italia) 🙂
Troppo western, poco dark! A noi non hanno fatto impazzire!
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