Helmet @ Ravenna, Bronson (03/12/2010)

E niente, me ne sto in mezzo al Bronson a farmi un pentolino di affari miei durante il concerto di Owen Pallett, il martedì sera. Owen Pallett non è nemmeno male, un bel ragazzone figo con camicia e frangia molto indie-omo, un violino e una scatolina per i loop e gli effetti e quel che cazzo è. Owen Palle. A un certo punto fa una cover di Odessa. Me la ascolto davanti. Mia mamma e mio papà non mi hanno creato per stare a sentire Owen Pallett che fa una cover di Caribou, ma in un disegno divino abbastanza vasto ci puoi metter dentro tutto quanto; peraltro Owen Pallett sta suonando davvero bene. Ecco, l’ho detto. Il fonico del Bronson mi sorride e mi viene incontro, non so bene perché. Mi dice che oi, ero di fianco al palco con gli Helmet, ti ho visto in prima fila, eri bello carico. Ho 33 anni, la ciccia, i mutui e le rate dell’auto. Non posso essere identificato come bello carico a un concerto qualsiasi, non voglio che la gente mi veda bello carico.

Gli Helmet hanno suonato il venerdì prima. Di spalla c’era un gruppo irlandese PESO chiamato LaFaro. La sQuola è quella di certi gruppi che dietro al disco avevano la gigantesca scritta NOISE, Surgery piuttosto che certi Cows piuttosto che qualche inflessione motorheadiana. Un batterista strepitoso, un gran suono, un chitarrista ciccione. Possibili Piccoli Fans dell’anno. Poco dopo i roadie liberano il palco, puliscono per bene in terra, provano le chitarre e sistemano un bell’assetto asettico. Decido di spararmelo in prima fila perché l’ultima volta li ho visti da dietro. L’ultima volta era sempre qui. La volta prima era allo Slego di Rimini, la penultima data di sempre per gli Helmet con la formazione storica –si fa per dire, diciamo degli Helmet con Henry Bogdan e John Stanier. Costava più allora di quanto costi oggi, anche senza tener conto del cambio, e decisi di paccare per puro principio. Il giorno dopo fecero un concerto a Torino, di spalla dei Linea 77 ancora sostanzialmente sconosciuti. Lessi il report su Rumore, che era LA rivista che leggevo all’epoca. Dopo il concerto degli Helmet a Torino non è successa moltissima roba al genere: per prima cosa si sono sciolti gli Helmet, poi quel genere di rockettone lì è diventato un affare da miliardi di dollari e di lire e di euro. Amphetamine Reptile ha chiuso i battenti a fine ’98, i Korn hanno iniziato a fare dischi brutti, la batteria alla John Stanier s’è iniziata a sentire più o dappertutto –la batteria di John Stanier, invece, è entrata in sciopero per diversi anni. Dieci anni dopo siamo di fronte ad uno dei più clamorosi casi di rimozione collettiva di sempre: il bassista di quella band è diventato una specie di mammasantissima della steel guitar mentre il batterista ha passato quindici minuti di cooless assoluta con i Battles. Page Hamilton ha riformato gli Helmet onorando o sfruttando un contratto Interscope ancora aperto, facendo girare ad oltranza la formazione per passare dagli iniziali John Tempesta e Chris Traynor a una line up con tre turnisti sbarbi tecnicamente paurosi che sembrano messi sul palco apposta per eseguire gli ordini e non farsi guardare troppo. Ha rotto il fidanzamento con Winona Ryder e compiuto cinquant’anni. Sale sul palco ed è bellissimo, capelli bianchi quasi a zero, fisico asciutto, maglia attillata e pantaloni ultracomodi. Il batterista è zoppo, l’altro chitarrista ha un berretto da baseball calato sugli occhi come se fosse il ’95.

Lo è. Compio diciott’anni non appena Page Hamilton tocca la chitarra e intona il tanti auguri, vale a dire un’iniziale paurosissima Unsung. Peso settantadue chili, ho un pizzetto rosso acceso totalmente RIDICOLO che arriva sotto lo sterno, capelli tagliati ai lati, pantaloni da skateboard troppo larghi anche per un samurai, un paio di adidas gigantesche ai piedi, le mani in tasca, una felpa rovesciata senza cappuccio come non ne fanno più. Conosco a memoria Strap It On, Meantime e Betty. Ho comprato Born Annoying in cassetta da Francolini a trentacinquemila lire, ma ho ammortizzato il costo sfracellando le statistiche di ascolto di un singolo disco. Medito di salire sul palco al secondo o terzo pezzo ma al primo stagediving un buttafuori scende in mezzo alla pista e fa capire che non è aria. Intorno a me hanno tutti la mia età, trent’anni passati da un pezzo e diciott’anni appena compiuti. Domani vado a fare il foglio rosa, stasera medito di spezzarmi una gamba. Nel programma ci entrano tutte le epoche degli Helmet, dall’inizio alla fine della carriera. Non c’è Just Another Victim, c’è roba recente che fatico a distinguere ma che –diciamocelo- dal vivo suona tremendamente meglio di quei dischi post reunion che ancora non si è capito come abbia avuto il coraggio di far uscire. La scaletta attaccata col nastro per terra chiude la prima parte con In The Meantime (sotto al palco è pieno di ciccioni appesantiti da quindici anni di alcolismo sedentario che si stanno UCCIDENDO DI BOTTE, la sensazione è come se fossero entrati nella piscina di Cocoon). Per il bis c’è scritta roba tipo Milquetoast e FBLA II, mica cazzi, ma Page decide di consultarsi col gruppo e suonare qualcosa “che ci vada di fare”. Escono fuori un pezzo da Seeing Eye Dog e la commovente conclusione di Wilma’s Rainbow. E sì, sono bello carico. È il mio diciottesimo compleanno, me lo merito. Nel mezzo riesco a scattare qualche foto col cellulare. Nel ’95 non sarebbe successo, ma il resto è identico. Ho appoggiato il giubbotto sulla prima fila di ampli, Page è proprio sopra di me e mentre si sporge verso il pubblico a stringere qualche mano me lo calpesta un po’. Non è proprio come in Proust, è più come chi ti racconta che la sua vita è cambiata dopo avere incrociato lo sguardo di Kirk Hammett durante Fade To Black a San Siro.

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