A 16 anni stavo messo male
Vent’anni dopo: messo uguale
(Kaos, Dr. K)
Contro.luce è il sesto album dei Canaan. Il primo, Blue Fire, è del 1996; io ero già entrato nel gorgo, solo che ancora non lo sapevo. L’anno precedente soprattutto due dischi mi avevano sconvolto la vita: In Absentia Christi dei MonumentuM e Oneiricon – The White Hypnotic dei Ras Algethi, entrambe micidiali declinazioni dark doom tra le più estreme, cupe e disperanti di sempre, roba pericolosissima allora come oggi, domani, dopodomani eccetera. Ero al primo anno delle superiori e odiavo il mondo (credo ricambiato), dappertutto aria gelida e aspettare, faceva freddo la mattina ed era sempre buio, con quei dischi ci ho svoltato l’inverno. Non avevo idea che i Ras Algethi si fossero sciolti di lì a poco e che il leader Mauro Berchi (voce, chitarra e tastiere) avesse poi avviato un nuovo progetto – Canaan appunto – in parallelo a un’etichetta discografica che presto sarebbe diventata un punto di riferimento, una specie di Cold Meat Industry di casa nostra ma con dischi che non contenevano soltanto fischi vento soffi e fruscii, del resto la cura maniacale nell’artwork e nel packaging (custodie in digipack con libretti di gran pregio) e l’estrema selezione nella scelta del catalogo erano le stesse. Complice un’intervista rivelatrice su Psycho! nell’inverno del 1997 ricollego finalmente nomi e intenti, e da lì è la fine, l’appuntamento con un nuovo album dei Canaan diventa qualcosa con cui fare regolarmente i conti, ogni volta scoprirsi sempre uguali, sempre a rantolare nel fango: gli altri stanno ancora ridendo… e noi qui, a guardarci dentro, come direbbe qualcuno molto più saggio ed estremamente più sintetico del sottoscritto. Sotto il profilo dei testi quei dischi erano chiodi arrugginiti piantati a forza nella carne viva; musicalmente, una versione infinitamente più oscura e presa male dei Cure di Disintegration, chitarre sanguinanti, tastiere più soffocanti di una tonnellata di bitume e tutto il resto, con in più terminali inserti dark-ambient da far scappare via piangendo Lustmord. Dal terzo Brand New Babylon in poi la cosa si evolve seguendo traiettorie sempre più personali e irraggiungibili, sempre più nere della pece più nera, fino al punto di non ritorno di A Calling to Weakness (2002), capolavoro assoluto nonché tra i dischi da evitare ad ogni costo se state anche solo vagamente considerando l’ipotesi di farla finita anzitempo. Assieme a A Calling to Weakness, Contro.luce rappresenta lo state of art dello stare male, tra i pochissimi dischi degni di sedere alla destra di pilastri conclamati del soffrire peggio dei cani tipo White Light from the Mouth of Infinity (non a caso gli Swans sono il gruppo preferito di Mauro), Live at the Old Quarter, The Pernicious Enigma o qualche pezzo a caso dall’opera omnia del buon vecchio Gigi Tenco. Quella che segue è un’intervista a Mauro; le domande sul nuovo album sono di Reje, le foto le ho prese dal sito dei Canaan, gli errori sono miei.
Innanzitutto ci tenevo a chiederti molto banalmente quali sono (se ci sono) le ragioni alla base del ritorno dei Canaan (ricordo che in una delle rare interviste in occasione del secondo NERONOIA eri stato piuttosto categorico riguardo al futuro stesso del gruppo), e perché un disco cantato interamente in italiano.
Dopo l’uscita di The Unsaid Words il gruppo è andato incontro ad una serie di problemi (cambi di lavori, di città, problemi di salute, mancanza di stimoli) che ne hanno messo in forse la stessa esistenza, inutile negarlo. Per quasi quattro anni (da fine 2005 fino al 2009) io stesso non ero certo della sopravvivenza del gruppo, che gruppo ormai non era più già da parecchio nel senso stretto del termine (varrebbe più la definizione di “collettivo allargato”). D’altro canto, proprio questa mancanza di coesione è stata la nostra ancora di salvezza. Non suoniamo dal vivo, non abbiamo alcun vincolo “contrattuale”, non viviamo del gruppo, non suoniamo per interesse, per cui mi sono semplicemente seduto sulla riva del fiume e ho lasciato passare del tempo. Piano piano la voglia è tornata, si è riaccesa la fiammella creativa (che a dire il vero non si era mai spenta, se consideriamo i due dischi NERONOIA) e quando nel 2009 Nico è ricomparso, ci è sembrato giusto cominciare a lavorare ad un nuovo disco. Contro.luce è in buona sostanza dovuto al riallineamenteo di alcuni elementi che prima erano fuori posto – senza queste coincidenze “fortunate/fortuite” probabilmente Canaan non esisterebbe più. Inutile dire che siamo estremamente soddisfatti del disco, che considero senza ombra di dubbio lo zenith della produzione a nome Canaan, almeno fino ad ora. Per quanto riguarda l’uso dell’italiano, in realtà è stata una non-scelta. Tutti i testi che ho scritto dopo The Unsaid Words mi sono usciti in italiano e non ho provato a tradurne neppure una riga visto che mi piacevano come erano.
In che modo l’esperienza NERONOIA ha influito sul songwriting di Contro.luce? C’è stata un’interazione con Gianni per quel che riguarda i testi (è per questo che Gianni è ricordato come “presente in spirito” nei credits)?
In modo molto marginale, per quanto strano possa sembrare. Le due entità sono sempre state slegate, pur avendo evidentemente molti punti in comune (le persone coinvolte, in primo luogo, poi gli strumenti utilizzati e gli spazi fisici e mentali condivisi). Direi che l’aspetto dei dischi NERONOIA che ha influito maggiormente sul nuovo disco Canaan è la de-costruzione dei suoni, che abbiamo sperimentato, approfondito e rifinito nelle due esperienze in studio con Alessio per Un Mondo In Me e Il Rumore delle Cose. Abbiamo scoperto alcune soluzioni che ci sono piaciute tanto da volerle utilizzare anche durante il mixaggio di Contro.luce. Nei testi di questo nuovo disco non vi è stato alcun apporto di Gianni, ma con lui nutro una vicinanza di intenti e punti di vista che trascende il concetto di amicizia per avvicinarsi a quello di “fratellanza”. Vibriamo alla stessa frequenza, vediamo molte cose in modo identico, e nulla e nessuno può questo cambiare questo semplice fatto, che ci avvicina oltre ogni dire. Purtroppo in questo caso alcuni problemi logistici hanno impedito la sua presenza su Contro.luce, ma rimane un “fratello di sangue” a dispetto della lontananza fisica.
Il tuo modo di cantare è molto diverso dal passato, quasi si stenta a riconoscere che il vocalist è lo stesso. A cosa è dovuto il cambio di registro (sempre se c’è un perché)?
Nessuna ragione particolare – è successo e basta. Quando abbiamo cominciato a registrare le voci sono uscite diverse dal solito, probabilmente anche a causa dell’uso dell’italiano, che in precedenza era limitato a sporadici momenti e che qui è invece protagonista. A riprova della “magia” della cosa, siamo riusciti a registrare tutte le tracce vocali in un tempo molto breve (contrariamente a quanto accaduto per i dischi precedenti), e sopratutto senza dover pensare/penare troppo. Per il prossimo disco, sto valutando ipotesi fuori dagli schemi, tra le quali la più probabile è far cantare tutto il disco ad una donna. Tenendo conto che in genere detesto le voci femminili ed il terrificante effetto “unghie sulla lavagna” delle “cantanti” in circolazione (virgolette obbligatorie) e che a parte tre/quattro esempi (al momento mi vengono in mente solo Meira Asher, Elizabeth Fraser, Lisa Gerrard e Diamanda Galas) spengo lo stereo quando sento l’ennesima “gatta attaccata ai coglioni”, questo nostro tentativo potrebbe essere un’ottima occasione per fare qualcosa di assai particolare. Staremo a vedere.
In precedenza gli “interludi” indugiavano molto di più su territori dark ambient, in questo caso invece sono più ‘suonati’ e alcuni hanno un alone a suo modo tribale, tipo l’interludio ‘etnico’ in A Calling to Weakness: in che modo è saltata fuori questa evoluzione?
Ancora una volta la chiave è stato il tempo dedicato a scrivere e registrare: anche i brani etnici si stanno evolvendo e raggiungono in Contro.luce picchi – a mio avviso – notevoli sia dal punto di vista della cura dei suoni che da quello delle strutture. Il dark ambient è in certo qual modo più “lineare” per sua stessa natura, mentre per comporre i brani etnici è stato necessario cambiare mentalità e avvicinarsi in modo “trasversale” a suoni per noi inconsueti. Non dico che sia più semplice comporre un buon brano dark ambient piuttosto che uno con elementi etnici, ma semplicemente che quest’ultimo richiede un approcio differente, che ci ha richiesto più tempo del normale. Un piccolo ostacolo stimolante da superare. Ritengo che in futuro i brani etnici andranno a ricoprire sempre maggiore importanza, sebbene sia difficile dirlo con certezza prima del tempo. Di certo rimane l’amore incondizionato che nutriamo per la musica popolare (non “pop”, ovviamente, ma popolare intesa come derivato della cultura di un popolo), elementi della quale saranno sempre presenti nelle nostre canzoni.
Nel booklet tra le altre sono riportate tre frasi: la prima è “OGNI SERA SIAMO PIU’ POVERI DI UN GIORNO”; la seconda è “L’INFELICITA’ E’ PER IL NOSTRO ANIMO IL CALORE CHE LO RENDE TENERO”; la terza è “IO NON HO SCRITTO PER GLI IMBECILLI. PER QUESTO IL MIO PUBBLICO E’ RISTRETTO”.
Ho trovato la terza frase piuttosto sorprendente, specialmente ripensando a alcune “dichiarazioni di intenti”, come ad esempio quella di A Calling to Weakness. Si scopre un forte orgoglio – ai limiti del livore – e una certa rabbia, emozioni – specialmente questa ultima – non frequenti nell’universo-Canaan.. A cosa è dovuta?
Più invecchio, più inacidisco. Più inacidisco, peggio sopporto. Me stesso in primis, quello che mi sta attorno in secondo luogo. Più che rabbia provo (nella vita in generale e verso le bestioline che mi girano in testa) un generico ma profondo senso di “malcontento”. Nello specifico, quella frase è una presa di coscienza – se mai ve ne fosse il bisogno – di quanto la nostra musica sia limitata e limitante. Come ho sempre detto, scrivo e compongo principalmente per me stesso e mi importa veramente poco di come gli altri si rapportano verso quello che facciamo. Mi sta bene cosi’, ma ho la presunzione di dare un valore (quantomai soggettivo e discutibile, ma comunque un valore) a quello che faccio. Detto questo, CANAAN non è sinonimo di musica di consumo e le nostre canzoni richiedono qualche sforzo per poter essere “assimilate”. Lo scarso riscontro che i nostri dischi hanno avrà quindi un qualche significato: me ne sono dato uno che reputo verosimile, ma è probabile che l’imbecille sia io. Sono comunque grato e riconoscente verso il fato quando vedo che i nostri dischi rimangono confinati in una nicchia che in qualche modo li “protegge” dall’esterno: non credo mi piacerebbe vederli sbandierati ai quattro venti nè nelle mani – sbagliate – di quegli idioti per l’appunto ai quali la frase è rivolta.
Per quanto scarso, un riscontro per i dischi dei Canaan comunque c’è stato (almeno fino a qualche anno fa, quando comprare dischi era ancora pratica diffusa). Ci sono persone che hanno seguito e seguono e apprezzano l’operato del gruppo; ti sei mai chiesto chi possano essere queste persone?
Sinceramente no. O meglio, me lo posso anche domandare ma non avendo alcuna risposta sensata sarebbe come non domandarselo del tutto. Fino a A Calling to Weakness (uscito solo 9 anni fa, ma in pratica in un’altra era considerando il mutamento di costumi ed abitudini degli ascoltatori) riuscivamo con le vendite a coprire le spese della produzione dei dischi. Da li in poi neppure più quello. A tutti gli effetti il gruppo è tornato ad essere solo ed esclusivamente una mia valvola di sfogo, con la quale mi prendo la soddisfazione di produrre musica che “sento” mia. Tutto il resto è un contorno con il quale mi fa anche piacere confrontarmi (nei limiti del possibile cerco di seguire le recensioni e di rispondere alle interviste) ma che ha un’importanza molto relativa. Suonerei anche se fossi rimasto l’unico uomo sulla terra, e che la nostra musica finisca per essere “metabolizzata correttamente” o “cannibalizzata ferocemente” non è un mio problema. Una volta fissata su disco, comincia a vivere di vita propria, come è giusto che sia.
In che misura la musica che viene fuori nei Canaan rispecchia fedelmente quello che senti? In altre parole, quanto ritrovi delle tue energie emotive in un disco a cui hai lavorato una volta terminata la gestazione, e quanto dura in te l’effetto ‘benefico’ o catartico in seguito al processo creativo?
Non è tanto il risultato in sè ad essere importante, quanto il processo stesso, che può durare per mesi o anni. Mi rigiro nella testa le melodie provvisorie tante di quelle volte che finisco per “autoipnotizzarmi”. Una volta finito un disco però non lo riascolto praticamente mai, e provo ribrezzo e fastidio verso quanto registrato. Sento solo le imperfezioni e mai le cose buone e mi ritrovo sempre perso in un vortice di “avrei dovuto/avrei potuto/non ho fatto” che mi impedisce di ascoltare i nostri dischi in modo sereno. Il processo di registrazione è crudele ed il mixaggio ancora peggiore – di tutte le possibilità, se ne sceglie una sola e bisogna conviverci. Spesso nella mia testa i brani sono molto diversi da quelli che si possono ascoltare sui dischi, e questa diversità è per me fonte di grande fastidio. Canaan ha quindi un potere taumaturgico importante, ma solo fino a quando i brani sono “in cantiere”. Una volta che vengono incisi, entrano nel passato e vengono dimenticati. Sono solo le possibilità future ad essere stimolanti, e se malauguratamente il gruppo dovesse sciogliersi oggi, i 6 dischi fatti finora avrebbero – per me – poco senso.
Ricordi quando e perché (se c’è un perché) il “mal di vivere” ha cominciato a formarsi in te? Quanto e come è cambiata la tua visione della vita nel corso degli anni?
Ottima domanda. Non ricordo quando ho cominciato a sentirmi staccato da quello che mi circondava, ma di sicuro in tenera età. Sono sempre stato solitario e un po’ “borderline” e ricordo che anche a scuola avevo problemi a rapportarmi con gli altri in modo normale. Per quanto riguarda la visione del mondo, non saprei proprio che dire. Vivo sballottato dagli eventi, con poca voglia di analizzare le cose al di là di una generica presa di coscienza del mio essere “inadeguato”: alle situazioni, alle persone, alle cose. Ora come allora mi sento costantemente in balia di ciò che mi succede, come se non avessi alcuna possibilità di cambiare quello che non mi piace nè tantomeno di godere di quello di buono che mi accade. Sempre un passo avanti, uno indietro, uno laterale – mai centrato, mai nel posto giusto al momento giusto. Questa è in buona sostanza l’unica “visione” del mondo che posso permettermi, e il passare del tempo non migliora per nulla le cose, anzi se possibile le rende più pesanti da sopportare.
Dove trovi oggi la forza per continuare a stare al mondo? Hai mai preso in considerazione l’ipotesi di farla finita?
Ovviamente si, e piuttosto spesso anche, ma un conto è pensarlo, un conto tradurre in azioni il pensiero. Diciamo che negli anni ho imparato (a volte anche con aiuti “esterni”) a convivere con le mie paranoie, ed ora come ora sono ragionevolmente stabile nella mia fragilità psichica. Un bell’ossimoro, fedelissima rappresentazione della mia situazione mentale. Se potessi, cambierei immediatamente le cose e getterei alle ortiche tutte le bestioline che mi girano in testa. Non potendo farlo, ci convivo alla meno peggio.
Sulla Eibon Records: quando hai capito che sarebbe diventata il tuo lavoro? Quando, invece, ha smesso di esserlo?
I primi due dischi (pubblicati a dicembre 1995) furono una sorta di esperimento che pensavo sarebbe rimasto totalmente estemporaneo. Entrambi invece ottennero un notevole riscontro sia dal punto di vista della critica che da quello delle vendite, e questo mi permise di continuare a produrre altre cose. Nel 1998, nonostante gli inevitabili dubbi, decisi di fare il grande passo: mi licenziai dal mio lavoro “normale” per provare a trasformare l’etichetta in un lavoro a tempo pieno. EIBON è stato il mio lavoro dal 1998 fino al 2008 – un decennio ricco di soddisfazioni personali e ancora oggi in qualche modo fonte di sorpresa. Considerando l’osticità delle mie produzioni e la difficile inquadrabilità dell’etichetta, è praticamente un miracolo che sia riuscito a sopravvivere anche dal punto di vista biecamente economico. Dal 2008 in avanti purtroppo, e con mio grande rammarico, le vendite sono crollate in modo drammatico e l’etichetta è ritornata ad essere solo un hobby. Ho vissuto in modo traumatico questo cambiamento, e non mi rassegno all’inevitabilità di un fato “cornuto e bestia”. Mi piacerebbe tornare a ritmi produttivi più sostenuti, ma dubito che le cose possano migliorare. Troppi venti contrari, nonostante la voglia di tenere la barca in un mare dalle acque troppo agitate per i miei gusti.
Non hai mai smesso di produrre dischi, anche se i ritmi di pubblicazione sono un poco rallentati l’attività della Eibon è comunque rimasta costante, ma immagino che la situazione oggi sia profondamente diversa…
Purtroppo la situazione è tragica. La mentalità da accattoni digitali dello “scarico trecento dischi al mese ma non ho neanche un cd originale” è difficile da estirpare, e quello che è ancora peggio è che essa ha portato al completo distacco tra musica e supporto. Ormai tutti sono abituati a scaricare un merdoso mp3 dal mulo e quel che è peggio a sentirsi SODDISFATTI di questa volgare serie di “0” e “1” da ascoltare rigorosamente come sottofondo sul tram, mentre si cammina in piazza, si cucina la pasta, si viaggia sul treno, si mangia in pizzeria. Nella mia mentalità da dinosauro, non riesco a concepire come un anonimo file su un hard disk possa sostituire un oggetto, ma probabilmente sono io ad essere fuori contesto. Nonostante questo, un po’ come un moderno Don Quixote, continuo a produrre dischi, con frequenza sempre minore ma ancora con dedizione. Il fatto però che questo non basti neppure a coprire le spese di produzione, unito alla disaffezione che molti ascoltatori mostrano, stanno minando le fondamenta stesse della mia passione. Tengo duro solo per abnegazione e perché mi piace da morire farlo, ma sotto ogni altra prospettiva, il tutto assomiglia pericolosamente ad un combattimento contro i mulini a vento.
Se la memoria non mi inganna (ma potrei sbagliarmi) con la Eibon non hai mai pubblicato dischi in vinile; c’è una ragione alla base di questo? Considerato il ritorno di fiamma di cui gode il formato LP oggi, pensi di ‘buttarti nella mischia’ o continuerai a pubblicare solo in CD?
A dire il vero ho prodotto due vinili – il 7”+cdr di BAD SECTOR Toroidal Body ed il vinile REUTOFF Maska. Il vinile, pur essendo esteticamente meraviglioso, è troppo oneroso da produrre, fragile e soggetto a danni nelle spedizioni, e molto dispendioso da spedire, soprattutto in copia singola. Non avrebbe senso dover spendere 20 euro per mandare un vinile in america – il prezzo finale per l’acquirente dovrebbe essere oltraggiosamente alto. Non credo proprio che ne produrrò mai altri, anche se qualche timida richiesta ci sarebbe anche. Troppo svantaggioso il rapporto tra costi e benefici.
Da ascoltatore, quali sono le etichette che hai seguito con maggiore interesse? Ne è esistita qualcuna di cui compravi a scatola chiusa qualunque disco a prescindere da chi fosse l’autore? (io avevo la Amphetamine Reptile e, almeno fino al 1996 Earache) In tempi recenti ne hai trovata qualcuna che abbia generato in te lo stesso interesse (o qualcosa del genere)?
Sono sempre stato molto selettivo nei miei ascolti, e non ho mai comprato nulla a scatola chiusa (tranne nel caso unico e solo dei Seigmen, verso i quali per anni ho nutrito una sorta di vera venerazione). Due etichette che ammiravo/ammiro/continuerò ad ammirare maggiormente per qualità delle produzioni (non solo dal punto di vista audio) sono Malignant e LOKI. A parte queste, si trovano buoni dischi su molte altre etichette (spesso micro-etichette, visti i generi di nicchia che prediligo) ma difficilmente trovo qualcuno che azzecchi sempre le uscite giuste (per i miei gusti, chiaramente). Anche i primissimi anni della Cold Meat erano ottimi – fino al 1994 Karmanik era personaggio di notevole spessore, prima di finire impantanato in un mare di produzioni al più mediocri.
cosa pensi del ritorno degli Swans? sei andato a sentirli dal vivo quando sono passati per l’Italia lo scorso anno?
Purtroppo sì. My Father Will Guide Me up a Rope to the Sky non è malaccio, pur essendo lontano chilometri dai vertici della carriera di Gira e soci. Dal vivo mi duole ammettere che si sono rivelati prolissi oltre ogni misura, spompati e loffi. Da un gruppo che in passato ha composto dischi e canzoni di profondità abissale era ed è lecito aspettarsi molto più di quanto visto sul palco: purtroppo però il tempo sembra essere stato un giudice molto severo, e mi spiace dirlo ma personalmente credo che gli Swans non abbiano più nulla da dire. Rimarranno per sempre nella memoria White Light from the Mouth of Infinity e Love of Life, eterni ed immortali, e canzoni come Failure o Why are we alive?, compagne di innumerevoli, piacevoli momenti bui.
Prima di salutarci ho chiesto a Mauro una lista dei dischi importanti della sua vita, tipo Alta Fedeltà ma senza l’umorismo inglese. Ecco cosa ne è venuto fuori:
Una lista di dieci dischi sarebbe poco rappresentativa, visto che i gusti mutano e si evolvono, e quello che reputavo imprescindibile venti anni orsono adesso mi fa tutt’al più sorridere (a volte anche dal ribrezzo…….). Idem per i dischi “importanti”, che magari lo sono adesso e non lo saranno più tra un mese o un anno….. In ordine sparso ti dò comunque qualche disco che è sopravvissuto bene al passare del tempo e che ancora oggi ascolto con piacere
SEIGMEN “Total”
CHRISTIAN DEATH “Catastrophe ballet”
CELTIC FROST “Into the pandemonium”
FIREWATER “Psychofarmacology”
ROLAND KAYN “Tektra”
RADIO DERVISH “Centro del mundo”
SPK “Zamia lehmanni”
SWANS “White light from the mouth of infinity”
KENT “Hagnesta hill”
EINSTURZENDE NEUBAUTEN “Alles wieder offen”
LA CRUS “Dentro me”
ANAAL NATHRAKH “Domine non es dignus”
THE CHAMELEONS “Script of the bridge”
WEIMAR GESANG “Even stone pales”
CARCASS “Necroticism”
VOIVOD “Nothingface”
CAUL “Crucible”
THOMAS KONER “Permafrost”
CAZZODIO “Il tempo della locusta”