la rubrica pop di Bastonate che spinge Gaga a prescindere.

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Born This Way esce nel maggio del 2011, anticipato dal singolo omonimo che dà già modo di schierarsi (perlopiù contro) la nuova incarnazione di Lady Gaga. Il secondo disco dell’artista newyorkese è atteso come una specie di secondo avvento. Non lo è. è un disco pop più o meno normale, un po’ matto in culo e un po’ rispettoso dei canoni del genere, tendenzialmente più vintage della roba che sfonda le classifiche nel periodo di cui parliamo. Un disco estremamente onesto, se vogliamo, senza nessuna traccia del vampirismo ossessivo di Madonna (ancor oggi considerata quella da cui Gaga ha rubata praticamente tutto). Born This Way è molto più buono di The Fame ma molto meno buono dell’EP Monster: non basta. Le critiche all’album sono tendenzialmente positive ma non abbastanza. È una fase in cui qualcuno s’aspetta qualcosa di importante e Born This Way ci scaraventa in una situazione di stallo senza precedenti nella quale per evitare di dover pensare a qualche problema reale ci ritroviamo a cercare con il lanternino la nuova Lady Gaga in giro per il pop. Questo è più o meno quello che ci siamo beccati nel frattempo. Il disco più cagato dell’anno 2011 è quello di Adele. 21 è uscito a gennaio e sta spingendo abbestia. Adele è brava ma non ti manda nell’iperspazio, è brava di quel bravo tipo Premio Bravo dei 400 Calci (“all’espressività in un ruolo inutile”). E comunque annuncia il ritiro dalle scene appena cacato fuori il brano per la colonna sonora di Skyfall. Beyoncé pubblica 4 un mese dopo Gaga. A fine agosto, per la cerimonia dei VMA, canta Love on Top facendo vedere il pancione: Gaga è vestita da uomo ma semplicemente sparisce. Il miracolo della vita. D’altra parte la Beyoncé di 4 è già adelismo di ritorno, o più verosimilmente una seria e ragionata rimasticatura whitneyhoustoniana di bassissima lega a cui prestare ascolto è da una parte irragionevole e dall’altra apertamente offensivo. Poca ciccia. Più o meno contemporaneamente Beyoncé prende parte a Watch the Throne, la joint-venture Jay-Z/Kanye West che dà alle stampe uno dei dischi più barocchi della storia del rap. Sembra roba destinata a sconquassare il mercato, ma a conti fatti sembra già più il ciao ciao mare di un’epoca della black music che se ne va per sempre. Magari per finire in mano a certi revivalisti black alla Frank Ocean, che almeno lo è in senso positivo (spirito sì musica anche no) e  si fa passare il testimone cantando la migliore canzone del disco, No Church in the Wild. Peccato per il video di quel cioccolataio di un Romain Gavras in perenne indecisione se buttarla in politica o in caciara. È anche la fine di Romain Gavras come regista di videoclip, almeno fino ad ora: magari tornerà per il disco nuovo di MIA, ma a MIA abbiamo dato l’addio da un bel pezzo. È stato in occasione di /\/\/\Y/\, ma poi è andata solo peggio. Apice del disgusto e pietra tombale la collaborazione in veste di cheerleader e coautrice nel video di Give Me All Your Luvin’ di Madonna, epoca MDNA, assieme a Nicky Minaj; è già il 2011 e le cose vanno male. Pochissime star provano ad unire grandeur barocca e white trash alla maniera di Lady Gaga. La migliore è Katy Perry, il cui ultimo disco lungo comunque è del 2010 (a ottobre uscirà il nuovo, in sfida diretta con Gaga): un’opera comunque abbastanza viva e pulsante da essere ristampata in edizione espansa due anni dopo con singoli aggiuntivi di pregio tipo Wide Awake. Il peccato per Katy Perry è che dal film Part of Me in poi, e forse anche prima, viene venduta implicitamente come una specie di Daniel Johnston del pop da classifica che crede solo a metà delle cose che dice –perlopiù la metà sbagliata- e subisce costantemente la pressione di essere sempre sotto i riflettori, con il risultato che a non cagarla ti senti che le stai facendo un favore. Il problema del white trash d’altra parte è quasi sempre che abbracciarlo in toto per qualcuno non è una buona scelta: si veda l’altra artista, che si chiama Ke$ha e che nel primo singolo dichiarava di lavarsi i denti col Jack Daniel’s. Ke$ha è un esperimento in provetta a tema abbassare il livello, una popstar sfiatata e stonata che canta tipo Yeastie Girlz e vedi se due beat grassi sullo sfondo non rendono vendibile qualunque cantante in terra. L’ultimo disco di Ke$ha è del 2012 e si chiama Warrior. Musicalmente sembra mostrare un’artista in crescita, ma incappa in un brutto infortunio: il primo singolo si chiama Die Young e arriva al n.2 della chart di Billboard una settimana prima della sparatoria a Newtown. Il testo incita a passare la notte come se dovessimo morire giovani, il video mette insieme pentacoli e redneck come se Gaga avesse commissionato un video a Rob Zombie. Alcune radio decidono di boicottare la canzone, Ke$ha twitta ufficialmente solidarietà alle vittime e aggiunge d’impulso che il testo non è suo e di essere stata costretta a cantarlo. Non che sia una gran sorpresa sapere che gente come Ke$ha non ha il controllo artistico dei propri album, ma vale comunque la pena di fermarsi un secondo, darle del coniglio e dimenticarsi per sempre della sua esistenza. Al contempo il white trash, sempre lui, arriva a lambire nuovi orizzonti di abbrutimento con qualche estemporaneo ritorno di gente come Britney Spears, quindici anni di buttarsi via e non sentirli, che firma un nuovo standard dello stare male in Scream&Shout di Will.I.Am (nelle efficaci parole del collega Accento Svedese“il prossimo passo è un featuring di Britney Spears su un brano a caso cantato da Eugene Robinson degli Oxbow – con Britney strafatta di crack che urla “Britney bitch” ed Eugene Robinson che filma con la videocamera”). Poco altro e sparso in giro talmente a cazzo da non creare manco il vario rumore di fondo una volta uscite dalle radio le Carly Rae Jepsen e gli PSY. Ci sarebbero i vari Bieber/One Direction, ma è una scena che non ci ha dato un cazzo se non qualche fanfic che comunque ci fa fatica leggere e la versione rallentata di U Smile  a cui -ci dispiace constatare- il mondo ancora fatica a credere. Il nemico del mio nemico è mio amico, come dice Jovanotti in Tensione Evolutiva: il decollo di Lana del Rey per dire sembra una barzelletta tirata per le lunghe ed esplode in tutta la sua tristezza all’ascolto del pallosissimo Born to Die, il cui principale pregio è quello di far dimenticare i pregiudizi sull’artista e passare da un odio di forma a un odio di panza e ad un odio di sostanza. Video cotti nella grana tra le braccia di A$ap Rocky e poco altro: basta a diventare testimonial per H&M e colonne sonore per lo spot del profumo, lo spirito del tempo è più lontano di Saturno. Qui ovviamente si rimane al palo, ma è fisiologico: nel nostro paese viene celebrata come una conquista culturale la vittoria di un rapper scarso ad un reality, mentre il mondo si sgretola sotto i nostri piedi  ed Anna Tatangelo può permettersi di rientrare a bomba e gettarci in faccia grossi rotoli de sordi in Occhio per occhio (curiosamente intitolata come la prima traccia del primo disco di Max Cavalera dopo lo split coi Sepultura), una Womanizer all’amatriciana stracarica di simbologie forse massoniche e forse a cazzo, pescate più o meno in blocco, pure queste, da un certo gagaismo d’accatto –abbastanza paradossale pensando a quanto sia profondamente italo certa roba di Gaga, Dance in the Dark in primis ma pure la stessa Pokerface. Poco importa, la periferia dell’impero. Di che altro è rimasto da dire? La più grossa popstar dell’epoca in cui viviamo si chiama Rihanna: smaltita la voglia d’esser Gaga con il video di S&M, si fa carico del peso dell’assenza altrui e costruisce il suo mondo da zero: un’etica del lavoro più mostruosa di quella di Greg Ginn ed una carriera di continui rimbalzi sui network, dischi belli a getto continuo e singoli che quando va male sono ai livelli di Diamonds.

Non mi basta e ci voglio credere. Nel video nuovo Gaga è vestita come la morte nel Settimo Sigillo. ArtPop esce tra un sacco di tempo.

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