SUONARE A GRATIS [gentilmente ospitato in LA PESANTATA DEL VENERDÌ]

fugazi definitiva (1 di 1)

Se ancora non si è capito, quando un musicista si lamenta su fb di qualcosa che è andato storto in una qualche data UGUALE cagare il cazzo.
Già la parola musicista spesso fa rabbrividire, ma ne parliamo più sotto.
Per quanto uno abbia ragione, nel momento in cui si lamenta, anche coi toni più sublimi e sinceri, l’effetto che fa è quello.
Più in generale, devo ammettere che personalmente tutti quelli che si lamentano un po’ mi stanno qua. L’altra sera c’era questo programma con degli scrittori in tv, l’ho scoperto perché su Twitter tutti un po’ a sfavare, molto per il lol, ma anche per cagare il cazzo. Se una roba non puoi digerirla, non la mangi. Ma davvero non è obbligatorio che stai lì a menarla. Sarà per altri. Il target sono altre persone che non sei tu. Se anche le altre persone verranno a mancare, allora quella roba finirà.
Dall’altra parte, ci sta anche questa cosa che sfava parecchio, ovvero che se sei un musicista (sic) scatta subito l’obiezione: Vai, suona e taci.
Me lo dicevano a vendemmiare: “Vindemia e tes” (trad: Vendemmia e taci. Grazie boss)
Che ha anche una sua verità: piuttosto che, meglio tacere.

Ora però cago il cazzo per 3 righe.
Una delle ultime date con la mia banda è andata a finire che non ci volevano pagare. Tutti hanno i loro buoni motivi, sia per chiedere soldi che per non darli. Alla fine ci hanno pagato 1/3 del pattuito e pochi complimenti. La tentazione di mettersi lì la mattina dopo e fare il GRANDE SPUTTANAMENTO è forte, ma dopo un po’ te la tieni per te. Si scrive alle band che devono suonare là, ad amici del posto, glielo si dice, lo si dice alle agenzia di booking, fine. Quello che dovevamo dire a loro l’abbiamo fatto la sera stessa, tra l’1.00 e le 2.30. Alla loro domanda “ma io faccio il dog-sitter, dove li trovo i soldi?”, la nostra risposta è stata “e noi suoniamo, dove li troviamo i soldi?”. Ma i soldi, ahitutti, non c’erano. Fine.

Foto di Francesca Sara Cauli | utilizzata da R. P. Sheppard (cantante dei Sophia) per copertina cd e tshirt delle acoustic sessions, con la seguente proposta economica: “And how would about 25€? Is that symbolic enough for you? I can PayPal it to you once I transfer some money back into my account, Ok?”. Mai arrivati. Come non arrivò né il cd né la maglietta.

Quando non ti pagano per una roba che hai fatto è brutto.
Ma quando non ti pagano per una roba che hai fatto apostrofandoti che quello che hai fatto è: suvvia, cosa vuoi che sia stato chiuse virgolette, è frustrante. Quanta saggezza in un tweet, eh?
Ma saremo milioni quelli che negli ultimi anni non sono stati pagati per dei lavori che avevano fatto. Ergo puppare, si ama ripetere. Puoi fare la pletora di argomentazioni che vuoi, ma ad un certo punto, per motivi che spesso è meglio non sondare, chi ti doveva pagare non ha più un ghello, e di conseguenza neanche ciò che ti doveva. Quanta saggezza. Poca. E infatti non è di questo che voglio parlare.

OBIEZIONE:
Se parli contro i centri sociali non hai capito niente dei centri sociali.
A parte che non ho ancora detto nulla contro i centri sociali, anche quando lo dirò non parlerò contro i centri sociali. Ho insegnato italiano agli immigrati in un centro sociale, mia moglie non avrebbe un lavoro se non esistessero i centri sociali, ho suonato e continuerò a suonare nei centri sociali, il concerto più bello della mia via l’ho fatto in un centro sociale. Fine.
La coincidenza sfigata è stata che la data andata male è capitata in un centro sociale, dove però c’erano delle persone che non avevano nessuna idea di cosa significasse andare in giro a suonare. Forse è di questo che voglio parlare. Del fatto che stai provando a fare di quello che ti piace un mestiere, ed è difficile semplicemente farlo capire. Non intendo la zia di Agnese, che ancora mi chiede se sono senza lavoro. Intendo qualcuno che ti chiama a suonare. Che ti chiama LUI a suonare.

OBIEZIONE:
Se diventa un lavoro si perde tutta la poesia.
Questa è una cosa che avevo detto anche io. In realtà mi devo smentire.
Consideriamo anche che una bella fettona della musica che ci fa smaialare ogni giorno è fatta da gente che fa il musicista di professione. Che tremenda endiadi: Musicista + Professione. Farsene una ragione.

L’avete visto questo documentario sui Fugazi? È una roba abbastanza totale. Andrebbe visto ogni 4 mesi. Le avete viste le parti in cui Ian McKeye se ne sta a contare i dollaroni dopo i concerti? Io sì. Perché senza quei dollaroni Ian McKeye e soci forse non avrebbero fatto nulla dopo Red Medicine. Buttali via.

Ma al di là dei Fugazi, a me sta benissimo che pure Al Bano, Appino e J-Ax facciano la loro musica e prendano i loro soldi. Semplicemente non mi interessa. Però sospetto sempre che quando ci sono più di 5 zeri, più ci sarà qualcuno che farà un lavoro sottopagato.

Foto di Gabriele Spadin |, sottratta senza consenso e utilizzata a scopo promozionale. Mai pagata. Vai GIANLUCA comunque.

Foto di Gabriele Spadin | Sottratta senza consenso e utilizzata a scopo promozionale. Mai pagata. Vai GIANLUCA comunque.

Sono tanti i mestieri che fanno fatica ad essere riconosciuti come tali. E la differenza che passa tra fare quello che ti piace per passione e fare quello che fai con passione per soldi è una cruna minuscola, ma che fa tanto parlare. Fai delle foto e vuoi dei soldi? Scrivi per un sito e vuoi dei soldi? Vai a suonare e vuoi dei soldi? Fai i soldi e vuoi dei soldi? Registri una band in uno studio e vuoi dei soldi? QUANDO MAI.
La zia di Agnese la pensa così, più o meno. Ma uno che ti chiama a suonare – presupponi –  dovrebbe pensarla altrimenti.
Capita che no. Amen.

Al momento quello che faccio nella vita che mi fa guadagnare dei soldi è andare in giro a fare concerti.  E devo dire la verità: la poesia non si è persa, ma è aumentata tantissimo. E le cose che mi faranno ricordare questi mesi come alcuni dei più belli della mia vita pure. Guadagno come se facessi un lavoro part-time. Ed è quello che voglio, mi va bene così, prima facevo un lavoro e andavo a suonare e la vita era molto più difficile. Mia moglie che vuole fare i conti fino in fondo, ha deciso di provare a capire quanto guadagna lei all’ora facendo quello che fa (la fornaia, in un laboratorio che abbiamo messo in piedi in quella che una volta era la stalla). A conti fatti prende circa 5.70 € all’ora. Io che non ho lo stesso zelo non farò i conti, ma so per certo che non supererei i 4€/h. Ma anche se li facessi, non ci sarebbe nulla che mi farebbe passare la voglia. Idem per mia moglie. E se tra un anno non potrò più camparci, lo farò uguale, senza camparci come ho sempre fatto finora.

Ma nel momento in cui ci campi è come se comparissero altre robe più sgodevoli, tipo il livello  del precariato in cui sei finito (non un novità), e poi il fatto che quello che fai non può fare a meno di mercificarsi un po’. Perché se chiedi tot soldi poi deve venire tot gente, o qualcuno ci rimetterà dei soldi. Se non viene tot gente poi fai la figura di quello che non vale tot soldi. E l’atmosfera di sembrare al palio del bestiame è a un attimo da lì. Fa parte del gioco, a me piace anche così. Più o meno va così per ogni questione che riguarda altra gente che ti deve venire a cercare. Ma non sto parlando di musica tout court, sto parlando di andare a suonare. E il gioco che ruota attorno a questi soldi è fatto di tre parti: 1) chi viene a vedere un concerto e paga un biglietto 2) chi organizza il concerto e paga la band 3) la band che prende dei soldi. Talvolta il concerto è a ingresso gratuito, e la gente entra a far parte del circuito monetario perché magari rifocilla le casse del bar.
Quando una data va male, quando capita il fatidico bagno di sangue, significa che con gli ingressi e/o il bar non ci sono i soldi per pagare la band, e qualcuno ci rimetterà dei soldi.
Con la mia banda è successo un paio di volte. Sono anche poche, e la cosa è splendida perché non torni a casa con la sensazione di aver rubato. Torni a casa con la sensazione che nessuno è scontento. Magari qualcuno poteva essere più contento, ma quello è sovrimpresso alla vita in genere, una serata non cambia la statistica.

Sono tutte variabili delicate. Ho organizzato tanti concerti, so cosa significa essere dall’altra parte del bancone. Trovo pure delle date ad alcune band di amici. E noleggio un furgone. Ho fatto esperienza di tutti gli ingranaggi ergo non cagare il cazzo. Tuttavia, nel gran traffico delle trattative e dei conti finali, se viene a mancare una componente, sono cazzi per tutti, e quella componente è l’onestà.
Ci sono tanti modi per andare a suonare e contrattare il tuo cachet.
Nel piccolo mondo che frequento io le modalità potrebbero essere queste:
1. Vieni gratis (variabile: vieni gratis + il bere e/o il dormire)
2. Vieni a rimborso spese
3. Vieni e vediamo come va (difficilmente andrà da re)
4. Vieni per una cifra
5. Vieni per una cifra e se con gli ingressi copriamo le spese ci dividiamo il resto
6. Vieni a produzione: ti tieni gli ingressi.

Se vengo a suonare perché mi prometti 50€, e alla fine la serata non è andata come speravi, e non hai i 50€ dagli ingressi, e decidi di non darmi 50€, allora la catena si spezza. Va a finire che tu, quella sera, non perdi soldi, io sì. Ma come dicevo all’inizio, siamo in tantissimi ad aver fatto un lavoro senza venire pagato, ergo stammi bene.
Di contro, quando però il locale era imballato, e a fine serata coi conti alla mano era evidente che gli ingressi superavano anche del doppio il cachet, è CHIARO che non ci si mette a trattare per avere più soldi. Perché c’era un patto, e il patto si mantiene. La volta dopo magari cambierai i patti. Senza contare che io non posso sapere quanto tempo hanno speso per promuovere la serata e quante persone c’erano in busta paga per far funzionare tutto al meglio. E nemmeno mi frega. Chi organizza le robe si prende sempre dei rischi. Nessuno lo obbliga, ma immagino sia quello che vuole fare. Conosco tanti promoter (gente che organizza robe, soprattutto concerti) che fanno quel lavoro lì perché amano la musica dal vivo.
Ehi, ehi: il discorso non andrà molto lontano da qui.
Davide, Giacomo, Nico, Gianluca, Iacopo, Marco, Francesco, Fabio, Alessio, Andrea, e via, organizzano robe perché amano quello che fanno, che sia o meno il loro mestiere; ognuno di loro lo fa in maniera diversa e con musica diversa, ma comunque trattano le persone con la stessa stima e passione con cui fanno il loro lavoro.
Sono oramai più di 10 anni che suono, ed è sempre stata una scelta in perdita economica, anche perché in 10 anni abbiamo sempre scelto di suonare con la nostra roba (ergo noleggiare un furgone) e con il nostro fonico (ergo una persona da pagare), e se tu non mi paghi noi ugualmente pagheremo fonico e furgone perché 1) siamo delle persone oneste, e 2) se amiamo quello che facciamo lo vogliamo fare BENE; e ora che il suonare non è più una faccenda in perdita non ce ne vergogniamo, ma quello che ci mettiamo non è calato di una virgola.
Alla fine il discorso non si allontana da una parola curiosa che non usiamo mai, e che probabilmente nemmeno io userò per altri 10 anni, due punti l’amore per la musica.
Se non c’entri niente con questa roba qua, io non mi aspetterò nulla da te.
Si verrà a suonare per espletare una sorta di contratto in nero tra due parti, ci saranno le persone presenti che daranno un senso alla storia, ma tra di noi non succederà nulla di quello che capita altrove, quando nasce una cosa che si chiama stima, e che è riservata a quelli che se lo meritano. E per fortuna non sono pochi.

La mia banda si chiama gazebo penguins. Tutta la musica che facciamo è gratis.
I concerti, in linea di massima, ancora no.

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in foto R. Amal Serena, che Bastonate non ha mai pagato né pagherà mai nonostante abusi pesantemente della sua immagine.

Matt Bayles doesn’t drink Montenegro

bandiera-montenegro

A Corregio all’Igloo ci sono i Valerian Swing che registrano il disco nuovo e come quello prima hanno deciso di farlo con Matt Bayles e se il nome non vi dice niente come non diceva niente a me fino a 5 giorni fa quando ho fatto da mangiare per tutti quanti Matt Bayles compreso andare nella sua pagina di wikipedia o sul sito poi toccatevi un attimo i maroni al comparire i nomi di Mastodon, Isis, Russian Circles, Minus the bear, Caspian, Cursive, Botch, e poi capita che sabato sera con la banda si suona a Modena che da Correggio è un tiro di sputo e viene sempre lui quello che ha il nome nel titolo di questo post e per due volte gli offro del Montenegro e dice no, poi ce l’ha in mano un amico a cui l’ho offerto e glielo offre pure lui e dice no, e in quel momento ho capito chiaramente che a Matt Bayles non piace il Montenegro.

I National, i tempi dispari e il mito dell’androgino.

Del mito dell’androgino non si parlerà però.

Mi piacevano i National. Non sono un gruppo che mi fa venire, né li ascolterei mai due volte dietro fila. Però in auto mi garbano assai. Per la strada che collega Pavullo a Zocca sono perfetti. Mi sa che li ho ascoltati esclusivamente in auto. Ci sono alcune cose che mi piacciono più di altre. La batteria e la voce. Questa faccenda di avere la batteria in faccia che non molla mai; e la voce. Voce che scavalla le battute, che sembra far fatica a finire un verso, lasciarlo andare e riprenderlo come capita, ma non come farei io.
I National anche solo voce e batteria sarebbero ok per me.

Poi succede questa cosa, che l’ultimo disco si apre con un giro di chitarra in 9/8, e la cosa mi ferma un attimo. Secondo pezzo dell’ultimo disco: 7/8. Mi fermo di nuovo.
Fermiamoci un attimo.

Pari e dispari. Puoi fare una canzone usando un tempo pari, e lo fanno circa il 90% dei gruppi. Puoi fare un pezzo epocale usando un tempo pari. Ed è ok. Non sto dicendo che un tempo dispari sia meglio di un tempo pari. Si capisce cosa intendo quando parlo di un tempo dispari? Voglio dire: tendenzialmente una canzone ha un ritmo, che è quello che segui quando muovi la testa su e giù. Se lo fai con regolarità, dove il su e giù segue l’inizio e la fine dei giri senza intoppi, è un tempo pari. Tendenzialmente il tempo pari è il 4/4. Conti fino a 4 e il giro di basso riparte.
Pensa alla prima canzone che ti viene in mente. Molto probabilmente è un tempo pari.
Idem con patate se parliamo di battute. La maggior parte dei giri è strutturata su 4 battute, che molto spesso significa 4 note di basso. Pensa a una canzone, conta le note del basso del primo giro, molto probabilmente sono 4. Possono essere due, chiaro, oppure 3 se una nota si ripete per due battute. Esempio ad usum cazzones: Love will tear us apart, canta il ritornello, 4 note, 4 battute, tempo pari, ci siamo capiti.

Ora ascolta la seconda traccia dei National, Demons, che è pure il primo singolo uscito, fai su e già con la testa, e a un certo punto zoppichi, il giro va per i fatti suoi, devi riprenderlo, è un 7/8.

Fare un pezzo dispari è più difficile. È come far stare in pari un tavolo in cui metti gambe di diverse altezze. No, ho sbagliato, mi spiego meglio: è più difficile fare un pezzo pop con un tempo dispari.  Perché per un certo verso spiazzi l’ascolto, lo decentralizzi, il battito del cuore è regolare, le pause durano sempre lo stesso tempo, il battere idem, un tempo dispari è un’extra sistole, destabilizza qualcosa, non fa chiudere il cerchio del ritmo nella maniera che ti aspetteresti. Se ascolti prog questi problemi non sussistono. Ma stiamo parlano dei National. E mi viene da pensare che non ci sarebbe nessun motivo per i National di far partire l’ultimo disco con dei tempi dispari. Di fare dei pezzi con dei tempi dispari.

Ma il disco si apre con questo pezzo, che si chiama I should live in salt

Il giro di chitarra è fatto da una prima parte in 9/8 (che è un tempo assurdo, è come aggiungere della pasta cruda a un piatto di pasta già in tavola, aggiungi un colpo ad un giro che era a posto così) e da una seconda parte in 8/8. Poi parte il ritornello che invece è pari.
Perché?, mi chiedo. Non so. Però è figo. Cioè, voglio dire: i National, aprono l’ultimo disco, il pezzo in realtà stava in piedi tranquillamente senza quel 9/8, senza quel giro sghembo che non sembra tale – perché quando usi i tempi dispari con un po’ di manico non li fai sentire, li amalgami e quasi li nascondi, ma ci sono -, e non è una cosa basilare, e certamente non è una cosa che trovi spesso in un gruppo di quel livello, eppure.
Eppure, dici, è un caso?
No: al quinto posto in scaletta arriva Sea of love, nonché secondo singolo del disco:

Qui il tempo è pari (la batteria, infatti, è drittissima, e non salta mai un colpo), ma il giro della prima strofa non è su 4 battute, ma su 5: la quarta nota del giro si ripete per una battuta in più. Poi parte un ritornello, e la storia cambia ancora, la voce ritorna sulle stessa melodia ma rimbalza su 3 battute, non più su 5, e nemmeno su 4.
Stacco di basso, dove il cantato dice “Trouble will find me” e il giro di basso ripete un paio di volte lo stesso giro, poi cambia melodia, si abbassa, e il pezzo riparte ma si attacca a metà di un giro, senza lasciarlo finire. Sembra una cazzata, è una cazzata, ma stiamo parlando dei National, di un singolo mondiale. Quindi il pezzo riparte dopo lo stacco, e c’è di nuovo la strofa su 5 battute, ma a un tratto, sulla strofa, viene cantato un ritornello (quello dove dice – credo-  “but they said love is a virtue don’t they etc”), poi parte una roba come un altro ritornello, ma non più sulla strofa in 5 battute, ma su quello che avevamo sentito all’inizio, su 3 battute. Poi finisce.
Messa giù così sembra di parlare di un pezzo prog. Non lo è. È un singolo, il secondo singolo del disco, con una struttura abbastanza anomala, decisamente anomala per gli standard, e decisamente sopra le righe. La maggior parte delle canzoni pop non funziona così. Strofa-rit-strofa-rit-ponte-rit. Amen.

Ok, basta, no? No. Pezzo successivo. Heavenfaced.
Un classico giro in 4 battute/4 note. Ma il tempo è un 3/4.  Che è un altro tempo dispari – anche pari nel cuore.

Per dire, è lo stesso tempo di Fake Empire, uno dei loro pezzi più significativi, e direi l’unico, nei dischi precedenti, a usare una disparità nel ritmo.
Io la finirei anche qua. Ma la penultima dell’ultimo disco si chiama Hard to find, ed è un altro tempo curioso, un 5/4, con un gioco di battere e levare dei colpi del piano abbastanza insolito, ascoltare e poi parlare:

Quel che mi è venuto in mente questa mattina, mentre ero per strada (Zocca-Pavullo/Pavullo-Zocca) e davo un rapido ascolto ai due dischi precedenti (Boxer e High Violet), è che nei lavori precedenti non c’è questa ricerca di fare dei pezzi irregolari, meno tracciabili. Nell’ultimo disco sì: sicuramente per alcuni dei brani migliori e sicuramente con più cognizione.
Può essere una cazzata, o una cosa che non frega a nessuno (non credo freghi granché a una buona fetta dei fanz della band), ma non è una cosa da niente, pensando a cosa sono diventati, a quanto meno avrebbero potuto fare, e invece non hanno fatto.
È una questione di complessità. E complesso non significa difficile. Significa uno spettro di possibilità più vario, più vasto, significa maggiore ampiezza di interpretazioni. I pezzi dei National non sono difficili, non ti depistano, non te ne accorgi neanche, ma sotto c’è un’articolazione che non sospetti, e in un contesto, quello mainstream, assolutamente non richiesta.
Fare un pezzo con un tempo dispari, con una modalità di composizione che ti rende tutto più difficile, meno immediato, con un tasso di rischio di suonare macchinoso molto più alto, è una scelta di campo. In un libro che si chiama La voce delle passioni J.L. Charvet ad un certo punto si sofferma sull’utilità o meno dei vocalizzi nell’opera barocca, su questo concentrarsi sulla forma senza una sostanza alle spalle, questo fraseggiare con la voce come puro esempio di capacità, di virtuosismo, di ornamento portato all’estremo. Ma ne ribalta il significato: «Non si orna per ornare, non si orna quando non c’è nulla da dire, si orna solo quando c’è esattamente qualcosa in più da dire». È un’idea.
Ecco, niente, volevo dire questa roba qui. Volevo dirla gratis e senza che nessuno me l’avesse chiesto.
Ora l’ho fatto e posso andare affanculo.
Poi
È CHIARO
che se mi chiedi un pezzo con un giro sghembo che non sta nei 4/4, mica ti metto su i National.
Però dai, ci siamo capiti.

i Cani

igani1 Due anni fa è uscito il primo disco in italiano della mia banda e il primo disco dei Cani, che sono una banda di Roma dove i pezzi però li fa una sola persona. L’anno dopo abbiamo fatto uscire assieme 500 copie di un vinile dove i Gazebo Penguins e I Cani si dividevano i 45 giri al minuto di un 10 pollici. Da quel periodo, circa, e dopo un paio di concerti assieme, è capitato di sentirsi e vedersi ai concerti a Roma e via dicendo. Poi ogni tanto ci si sente. E quando c’erano i rispettivi dischi nuovi in ballo ci si passavano provini e cose così da mercoledì notte. Ora è uscito Glamour, che è il nuovo disco, e ci siamo fatti una chiacchierata.

> Partiamo dalla violenza. Esce un pezzo nuovo dei Cani, e cominciano le molestie. Perché secondo te un gruppo come i Cani ispira violenza? O ancora: perché certa musica ispira violenza? Parlo di violenza prettamente verbale, prettamente schermata, da dietro uno schermo, mai de visu; come se sparare su chi fa musica, o scrive, o quel che te vo’,  sia un bersaglio più nobile, più sensato, più giusto in un certo senso; come se nell’esperienza di fare qualcosa di creativo (intendo tutto quello che crea qualcosa che prima non c’era e non è mera riparazione) fosse obbligatoriamente instillata le possibilità della berlina, molto più che per un meccanico o per un idraulico. Sarà anche che è una “violenza” che fa parte di una porzione di mondo che ci riguarda di più, e quindi su cui siamo più attenti, più perspicaci, perché è quello che facciamo, ergo quello che vediamo meglio, distinguiamo di più. O forse perché c’è un’iper-valutazione del ruolo di chi fa musica, una specie di sproporzione tra quello che viene fatto (canzoni, concerti e qualche altro paio di stronzate) e quello che viene percepito (canzoni, interviste e più di un paio di stronzate). Come vivi questa faccenda che le tue canzoni fanno incazzare? Quanta frustrazione crea e come va vissuta (considerando che per il 90% dei casi viene da persone con cui probabilmente non andresti fuori a cena)?

Il chiedermi perché di tutta questa violenza è stata una questione che mi ha preso tantissimo, fin da quando è uscito il primo disco. Io capisco perfettamente che a uno non possa piacere un disco, che questo disco possa anche suscitargli sentimenti di fastidio (capita anche a me), quello che proprio non mi viene facile da capire è quel passaggio successivo in cui se non ti piace una cosa devi aggredire chi l’ha fatta o chi la ascolta. Poi boh, forse per me è diverso: le persone che ho conosciuto che stanno su un palco e cantano in genere sono molto sicure di sé, gli viene spontaneo e naturale interagire con le altre persone, etc. etc., tutte cose che io non ho moltissimo, e forse per questo quando è arrivata tutta la vagonata di merda che è arrivata (dal complottismo alla più feroce minimizzazione del lavoro che avevamo fatto fino ai puri e semplici auguri di morte) invece che scrollare le spalle e dire “haters gonna hate” ho fatto quello che mi riesce meglio: rimanerci male e pensarci su per moltissimo tempo. Da queste riflessioni sono nate domande tipo “perché c’è automatica ammirazione/interesse/stima/invidia nei confronti di chi fa roba creativa rispetto a chi fa roba più concreta?” (come dici tu, nessuno si mette a fare polemiche su internet sul lavoro di un idraulico), oppure “su internet bastano 40 persone in tutta italia per fare una folla che si azzuffa, non è che stiamo perdendo le proporzioni di quanto sono grossi i fenomeni, di quanto quello che su rockit/facebook/tumblr chiamiamo IPERGRANDISSIMOENORMESUCCESSO sia poi qualcosa che effettivamente ha una rilevanza nel mondo?” (da qui i “quattro poveri stronzi” di Twee, che non avevano nessuna accezione offensiva: qui a Roma quando si dice “quattro poveri stronzi” è sempre con una certa tenerezza, ma capisco che si tratti di un regionalismo che probabilmente avevo calcolato male), fino a “ma perché siamo così ossessionati dalla fama, dal successo, da tutte ‘ste cose qua?” e poi credo che da queste domande, o meglio dallo stato mentale di riflessione su queste cose, siano nati i pezzi del disco. Poi ci sarebbero anche mille altri discorsi da fare sulla questione della violenza: uno, molto semplice, è quello che sintetizzo con “Sò ragazzi”, nel senso che durante l’adolescenza la musica per molte persone (è stato così anche per me) è una sorta di stampella su cui sorreggi la tua personalità non ancora del tutto formata o sicura, quindi i dischi non sono una roba che valuti serenamente, bevendoti un bicchiere di cognac e fumandoti un buon cubano, ma una cosa che ti chiama in causa a livello molto viscerale e profondo. Poi c’è la questione di come la comunicazione su internet (specie quella anonima o semi-anonima) porti automaticamente ad aumentare i toni, a trasformare tutto in insulto o polemica, a evitare le mezze misure, o (cosa che succede in modo particolare con I Cani e che forse è la roba che mi fa girare i coglioni più di tutti) a far vedere che chi scrive è uno che la sa più lunga di tutti: quindi il linguaggio è dominato dall’aggressività e dal dover dimostrare non si capisce cosa a non si capisce chi. Poi c’è la questione del “tanto meglio!”, ovvero: se una roba piace a tutti vuol dire che è sostanzialmente innocua, che non ha niente che arriva direttamente all’ascoltatore e gli fa avere quella reazione di violenza. Se non ci fosse stato nemmeno un po’ di hate rispetto a questo secondo album, mi sarei seriamente preoccupato.  

> Ogni canzone racconta qualcosa, e quindi è un racconto. Quanto conta che un racconto generi altre storie possibili e quanto invece che il racconto sia una bella storia in sé e amen? Voglio dire: penso alle persone reali o ai riferimenti da storia che compaiono (Nabokov, Manzoni, De Andrè, Bianciardi, Pasolini, Jay Z, Piero Ciampi, Thurston Moore, …), che diventano snodi di senso, allargamenti di storie in una Storia più vasta, penso a quanto certi racconti nel disco siano poi il veicolo (per me) per fare altri percorsi, collegamenti. Che magari faccio io perché di certe cose forse c’è il caso che ne abbiamo parlato, o li faccio io perché mi piace farli. Non so se la domanda è chiarissima.

Io ho quest’idea che le canzoni debbano essere una roba un po’ viva, cioè, per me non devono essere un monolite da contemplare nella sua inspiegabile bellezza, ma più tipo una costruzione di Lego che puoi divertirti a prendere in mano, girare, smontare etc. Mi piace l’idea che uno possa ascoltare distrattamente e dire “ah, carino”, ma poi accorgersi che dentro ci sta quella cosa che rimanda a quella cosa che rimanda a quell’altra cosa, etc. etc. Tra l’altro per me, più riferimenti concreti ci sono, e più riesco a entrare dentro quella canzone, farmi coinvolgere. C’è un verso degli Of Montreal che dice “I fell in love with the first cute girl that I met / who could appreciate Georges Bataille / standing at the Swedish festival / discussing Story of the eye”: io quando l’ho ascoltato non ero mai stato a nessun festival svedese, non avevo idea di chi fosse Bataille, di cosa fosse Storia dell’occhio, ma poi mi sono andato a cercare queste cose, e queste poche parole sono diventate un micro-racconto in cui riesco a vedere tantissime cose, uno stato emotivo ben preciso, e quindi sentirmi coinvolto personalmente, molto più che in un verso generico da canzone d’amore tipo “mi perdo nei tuoi occhi”, che, boh, sì, mi sarà pure capitato di guardare a lungo una persona che mi piaceva, però sticazzi, è molto più interessante quell’altra cosa su Georges Bataille! Secondo me è molto più semplice lasciare qualcosa all’ascoltatore raccontando qualcosa di specifico che qualcosa di generico.

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> Sticazzi a me che non traduco mai una fava da chi non canta in italiano. Quel verso degli Of Montreal spiazza. Mai avrei pensato di trovare La Storia dell’occhio in una canzone. Degli Of Montreal poi. A questo punto stiamo un altro po’ sui testi. I primo pezzo uscito è Non c’è niente di twee, che è il pezzo che nel testo si raccorda di più col disco precedente. Che però mi pare si stacchi da quest’ultimo per un affollamento di personaggi  rispetto a una prima persona singolare che invece è portante in Glamour (il lavoro vero, in ufficio mi vesto da adulto, le mie interviste, sotto alla mia giacca sudo, vorrei stare sempre così i soldi per mangiare, i dischi, i videogiochi e basta: dichiarazione di poetica?), che però rientra dalla finestra (il primo disco, intendo) in tantissimi passaggi che c’entrano col successo, col suonare, con le faccende legate alla musica (radio, contatti, interviste), con tutto quanto è partito nella tua vita un paio d’anni fa con l’aver fatto uscire delle canzoni. Volendo potresti farci saltare fuori una domanda.

Dopo aver scritto così tante canzoni sul quartiere, sulla città, sul presente, le uniche strade percorribili erano o guardarsi fuori, ma veramente fuori (e in realtà provo a farlo in “Storia di un artista” e “San Lorenzo”), oppure dentro, ma veramente dentro (praticamente tutte le altre). “Twee” effettivamente è il primo testo che ho scritto (quando ho iniziato a buttarlo giù non era ancora stato pubblicato il primo disco), e infatti come giustamente rilevi è quello in cui ci sono più echi di quella dimensione lì. Poi boh, credo che lo sguardo un po’ distaccato del primo album continui a esserci anche in questo, solo che si rivolge a cose diverse, e che ci sono dei rari momenti in cui molla un po’ la presa e diventa meno distaccato. Nel primo album non avrei mai ripetuto una frase per due minuti come in “Corso Trieste”.

> Quando dici “guardarsi veramente fuori” citi San Lorenzo che, secondo me, assieme ad Introduzione, sembrano staccarsi dalle altre del disco a livello di contenuto e di stile del racconto. Più impersonali, più assiomatiche, meno narrative. Nella prima dici: “l’esistente è anch’esso pane per i nostri denti, non si può correre soltanto dietro ai sentimenti” (Introduzione) e sembra che si crei una dicotomia tra ciò che esiste e i sentimenti (che non esistono?). Cosa intendevi?

Qui invece hai beccato esattamente le due che ho scritto per ultime! Il fatto è che tutte le altre canzoni sono state scritte in una (lunga) fase di grande vulnerabilità e autoanalisi. Se fossi rimasto in quella fase, col cazzo che avrei trovato la forza (e/o il coraggio) di finire il disco, registrarlo, pubblicarlo, etc. Quando ho scritto Introduzione, che è una canzone che suona molto solenne, sicura, assiomatica come dici tu, ho capito che forse in qualche modo ne ero uscito. Comunque: senza addentrarci in discussioni di metafisica, quando dico “esistente” intendo ciò che empiricamente percepibile: in questo disco, anche quando parlo di me, cerco di dare degli appigli concreti all’immaginazione dell’ascoltatore. C’è tanta gente convinta che dire una parola come “Whatsapp” in una canzone d’amore sia una bestemmia, e invece dire una parola come “solitudine” va bene. A me sembra molto meglio dire “Whatsapp”, è una parola meno ambigua. Guardo con sospetto l’ambiguità, mi sembra troppo facile nascondere dietro all’ambiguità il fatto di non avere un cazzo da dire.

Nell’altra tutto il testo è incentrato su una riflessione cosmogonica – che a me ha fatto venire in mente il pensiero di Thillard de Chardin, anche se al contrario (senza cioè senza finalismo religioso) – abbastanza classica per il pensiero occidentale (vd. la piccolezza dell’essere umano rispetto alla natura; vd. Copernico, tutto il Romanticismo tedesco, Pascal, Leopardi, fino alle Cosmicomiche di Calvino) e in certi casi abbastanza cristiana come visione, ma decisamente fuori budget per una canzone pop. Che ci sta a fare?

Credo che guardarsi dentro sia una cosa interessante ma a lungo andare potenzialmente pericolosa. L’autoanalisi portata all’eccesso può trasformarti in un mostro: un mostro di egoismo, di autoreferenzialità, etc. Scrivere quella canzone è stato un po’ come dire “va bene, ci siamo divertiti, però ora basta”. A me personalmente quella che tu chiami “riflessione cosmogonica” sembra molto orientale: la ciclicità, il tempo che non ha inizio e non ha fine, l’individuo che si perde nell’universo, etc. Sicuramente faccio meno fatica a riconoscermi in una visione del mondo del genere che in quella cristiana. Per quanto riguarda il fuori budget: per me “pop” significa “leggero”, e gli artisti che ammiro di più sono quelli che trovano un linguaggio leggero per dire cose complesse, non facili, non ovvie. Io ci provo.

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Dici che tutto ciò che gravita attorno alla tua musica riguarda sì e no un manipolo formato da quattro stronzi (Non c’è niente di twee). In un ritornello dei Gazebo Penguins abbiamo scritto: “Mio nonno per quasi 70 anni è stato in minoranza e sta benissimo”, che di primo acchito, sapendo anche da dove veniamo, ha un chiaro risvolto politico, ma voleva anche essere una veloce riflessione sulla sensazione che si prova ad essere in meno, in una cerchia ristretta, che non coinvolge la maggior parte delle persone NEL MONDO, e che questa limitatezza in realtà non svilisce, non annichila, in certi casi anzi regala un senso più forte. Quanto t’importa che la tua musica arrivi alla maggioranza? Che superi le beghe da quartiere, che arrivi comunque?

Mah, guarda, in questi giorni ho letto sia “I Cani parlano a moltissimi ma non dicono un cazzo, allora è troppo facile, sono come Gué Pequeno”, sia “I Cani parlano solo a pochissime persone, non parlano a gente come mia madre”. All’interno della stessa discussione. Detto della stessa persona. Io vorrei avere un atteggiamento rispetto all’essere minoranza che non sia né di vergogna (perché non c’è niente di cui vergognarsi) né di eccessivo orgoglio (perché le cricche non mi piacciono e non mi piaceranno mai, e credo che il tentativo di comunicare con tutti sia positivo, soprattutto al giorno d’oggi). Quindi provare a parlare a tutti ma senza diluire quello che voglio dire. Non è facile, perché da una parte è molto confortevole l’idea di parlare solo a gente che parla già la tua stessa lingua, e dall’altra quando si provano a superare certi steccati c’è il rischio di fare ragionamenti tipo “hmmm questa cosa forse mi suona un po’ stupidina ma va bene così perché DEVE PARLARE A TUTTI”. Pochissimi riescono a tenersi in equilibrio. Io non so se ci riesco, ma il fatto che mi si muovano entrambe le critiche (parlare a pochi, parlare a troppi) mi sembra buon segno.

> Una domanda che invece arriva dalla redazione di Bastonate è: coi soldi saltati fuori dal primo disco che hai fatto?

Li ho spesi.

> Quando si prepara un disco una parte fondamentale dell’operato è sui suoni. Si passano ore su un basso, su una tastiera, magari su una svisa nell’ultima nota del giro di sinth del ritornello di Vera Nabokov, su cose che importeranno forse solo a noi, assolutamente fregandosene di chi ascolterà, di cosa penserà o se lo sentirà, semplicemente perché vogliamo quella cosa lì, una specie di perfezione molesta la cui assenza ci farebbe dire: così non va. Quanto hai lavorato sui suoni? quanto contano?  In questo c’è una batteria vera e un batterista che la suona e hai lavorato con Enrico Fontanelli degli Offlaga per gli arrangiamenti e il lavoro sui suoni. Perché?

Per un gruppo come I Cani il suono è fondamentale: credo che i pezzi farebbero tutto un altro effetto se suonassero diversamente, così come non potrei mai pensare di affidare l’intera produzione a qualcun altro. D’altra parte non volevo rimanere intrappolato nelle scelte del primo disco, e quindi l’idea di chiedere a Enrico di collaborare alla produzione: oltre ad adorare gli Offlaga in generale, ero rimasto estremamente colpito dalla produzione Gioco di società, lontanissima da quella del primo dei Cani, e proprio per questo ho pensato che collaborare con Enrico poteva aiutarmi a dare più “profondità” al suono del disco, obiettivo che, per quanto mi riguarda, è stato raggiunto in pieno. La scelta della batteria vera (scelta su cui tra l’altro è stato lo stesso Enrico, insieme a Giacomo che ha mixato il disco, a incoraggiarmi molto) è stata dettata da ragioni simili: provare a vedere cosa sarebbe successo uscendo dalla bidimensionalità ipercompressa del Sorprendente (che comunque non rinnego affatto, eh). Poi credo che non esistano punti di arrivo, e che nessuna scelta sia definitiva: per me il gioco è proprio vedere fino a dove riesci a spingere il suono dei tuoi pezzi facendo sì che continuino a suonare come tuoi pezzi.  

> Paura. Stai per cominciare un nuovo tour, “paura del buio soprattutto su un palco”, l’altro com’è finito, com’è stato, come ti sentivi, quanto era routine e quanta fotta, e quanta fotta hai per il nuovo, come sarà dal vivo questo disco, oppure altro.

Sicuramente non mi sento uno che è nato per stare su un palco, ma ci provo. In questo tour, come in quello precedente, ci siamo sforzati parecchio di trovare una formula che fosse onesta nei confronti del pubblico: quando fai musica elettronica non sempre è facile, e mi sembra che troppi gruppi finiscano per dire “vabbè, buttiamo tutto in base e suoniamoci sopra due cazzate”, ma da spettatore i concerti del genere mi lasciano sempre molto deluso. Preferisco sentire una stecca, un’armonia vocale in meno, o qualche suono diverso/mancante che vedere uno spettacolo perfettamente preconfezionato. La differenza rispetto al tour precedente è che la formazione è leggermente cambiata, abbiamo curato di più il suono (come nel disco), abbiamo dato spazio a strumenti analogici in aggiunta al digitale (come nel disco), e usiamo solo strumenti “veri” (niente più computer con Mainstage!). Spero che la differenza si sentirà.

Ho dato una spulciata a qualche conversazione su skype che abbiamo avuto nell’ultimo anno, e a parte il fatto che ogni 3 mesi mi facevo vivo per chiederti consulenze informatiche, c’era scritto che un tuo amico doveva andare in Thailandia a registrare i rumori per un pezzo del disco. L’ha poi fatto?

Cris X ha registrato il vociare di ristorante che si sente in Theme from Koh Samui, appunto sull’isola di Koh Samui in Thailandia (o forse a Bangkok, non ricorda più bene, ma suonava più fico Koh Samui). Lì il punto era proprio mettere qualcosa che fosse il più lontano possibile da Roma, da tutte le cose comunemente associate al primo album, etc. Tra l’altro quel pezzo è uno dei miei preferiti del disco a livello di suono, e gran parte del merito va al mix di Giacomo.

> Il disco finisce con la parola FELICITÀ. E poi parte una ghost track in totale anomalia.

Mi piaceva l’idea di finire l’album con un pezzo (Lexotan) in cui fosse veramente difficile rintracciare qualsiasi traccia di cinismo. Poi parte una ghost track anomala, come dici te (tra l’altro presente solo nelle copie fisiche! CD e vinile): una sorta di frullato di tutto quello che era stato detto riguardo ai Cani all’epoca del primo disco (la romanità, i sintetizzatori, gli hipster, i giovani, etc.), però ribaltato. Boh, mi faceva ridere.

> Oh ciccio, divertiti eh. Cinque alto.

Tixi

Continua il nostro piccolo viaggio verso il Pulitzer nell’analisi del magico mondo del ruock + il magico mondo dei soldi.
Oggi intervistiamo per voi Federico Tixi.
Perché Federico Tixi e non Walter Veltroni?
Scoprilo qua sotto.
Annoiamoci insieme.

(di Capra)

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Tixi è il Walter Matthau del punk
(Jacopo Lietti, serigrafaro + Fine Before You Came/Verme)

1. Capra: partiamo senza fronzoli. Quanti soldi al mese spendi in musica?
1 bis. Dove compri la musica?

Tixi: Graditissima domanda, proprio, che mi fa tornare su, per l’ennesima volta solo oggi, il tipico senso di colpa (di chiaro retaggio cattolico) causato dalla consapevolezza di quanti soldi ogni mese butti via in dischi. Tanti, troppi. Da quando ho un lavoro fisso (più o meno dal 2005) mi sono imposto circa 200 euri di spesa al mese, ma da un paio di anni sforo regolarmente, al punto che inconsciamente la soglia è salita a 300, se non di più (ma se tocca i 400 mi sento davvero in colpa, tipo che smetto di dormire). Poi sto mese capiti male, tra una fiera del libro con banchetti di lp assurdi pressoché regalati, una fiera del disco (ma sono stato bravo, ho speso meno di quanto avessi prelevato) e la tredicesima in saccoccia, oltre qualche carenza affettiva da compensare (il cioccolato non basta più da un po’, ma abuso anche di quello), beh, penso di aver sforato, e di tanto.
Poi è natale, ci sono i regali che mi devo fare, no? Da bambino volevi la polistil e i parenti ti regalavano la polistil, adesso io vorrei il cofanetto di Jakob Ullmann ma i miei non mi regaleranno MAI qualcosa che assecondi quella che per loro (non sbagliando del tutto) è una dipendenza, quindi me lo comprerò io. E via. Mi rendo conto di essere estremamente privilegiato dal poter contare su tot euri a fine mese regolarmente versati sul mio conto, sono convinto che se dovessi stare più attento o ponderare di più i miei acquisti compulsivi probabilmente non sbarellerei così di brutto, e sicuramente sarebbe un bene per l’estratto conto (operazione bancaria che detesto e cerco di fare il meno possibile), visto che, ora come ora, pur lavorando da un po’, non sono riuscito a mettermi via praticamente nulla. La volta che mi dovrò comprare un rene o anche solo la vespa nuova sarò fritto,  ma ci penserò in quell’evenienza. Quello che mi stupisce sempre è che quando manifesto quanto io sia fondamentalmente a disagio nel realizzare che, comunque, io lavori nove ore al giorno quasi esclusivamente per comprarmi dischi, mi sento spessissimo rispondere “vabé, dai, se è per la musica è per una bella cosa, non c’è nulla di male”. Davvero, per me è talmente sbagliato che non capisco come gli altri possano legittimarlo. Poi il fatto che da 6 anni conduca solo soletto una trasmissione radio dove mi lasciano passare quello che voglio è un ulteriore scusa per lasciarmi andare in acquisti compulsivi.
Ovviamente, oltre ai soldi spesi per i dischi, ci sono anche quelli andati per i concerti: fortunatamente io e i miei amici stiamo invecchiando, e tra tutti ci sta passando la voglia di metterci in macchina, magari di giorno infrasettimanale, per andare a vedere l’ennesimo concerto che chissà se ci soddisferà. Chi ha figli, chi l’indomani si sveglia alle 6, non ce la sentiamo più di tanto. Poi magari è solo un periodo così, eh. Anzi, devo dire che l’unico che ogni tot manda un sms per proporre di andare a vedere qualcosa in giro, sono io (tendenzialmente mi rispondono picche, ma non me ne faccio un cruccio più di tanto). In fondo, negli ultimi anni, andare ai concerti non è stato altro che un pretesto per salutare amici. Del resto di concerti memorabili ne ho visti talmente tanti in passato che, ora come ora, non sento la necessità di ascoltare *solo* della buona musica dal vivo. Poi, da quando amici hanno preso in gestione lo Spazio Targa, qui a Genova, che propone la musica che piace a me in questa città di “troppo poco e troppo tardi” (per citare Mall Rats) – e per di più mi lasciano dare una mano nella programmazione – quello che mi piace cerco di vederlo a casa mia. E se non lo vedo amen, lo vedrò, o lo ho già visto (mi sono perso gli Swans, immensi quando li vidi a Barcellona e sento dire immensi anche a Bologna, ma vabé, quest’anno mi premeva solo vedere Rangda e Demdike Stare e li ho visti rispettivamente a La Spezia e a Torino, quindi mission accomplished).

In tempi recenti ho scoperto una cosa terribile che accomuna me e Tixi,
una malattia grave, una di quelle che lasciano il segno (sui c/c).
Siamo entrambi compulsive buyer di musica.
Se anche tu sei un compulsive buyer di musica,
esci allo scoperto, fondiamo un partito.
(Onga, impiegato e boss di Boring Machines)

Dove compro la musica? Ovunque vendano la musica. Fisicamente compro sin da quando sono ragazzino da Disco Club (ogni sabato mattina metto la sveglia per andare lì prima di pranzo e vedere le solite facce, sentire i soliti discorsi, spendere i soliti euri, un rito, praticamente). Ho comprato tutto quello che mi ha formato musicalmente lì dentro, da A love supreme un giorno in cui avevo preso 7 di Inglese in terza liceo (ma quell’anno venni bocciato ugualmente, ma per questioni di cuore, non perché ero una capra) a, chessò, l’ep dei Corrosion of Conformity che aveva una cover degli MC5 sul lato B che mi ha aperto gli occhi verso un certo mondo. Da qualche anno sul retro c’è un gran bel negozio dell’usato, una limatina sui prezzi non farebbe male, ma regolarmente trovo qualcosa che mi interessa e che non avrei mai detto di trovare (giusto un paio di giorni fa mi sono preso la ristampa di Jacula che era in wishlist da secoli)
Altrimenti ogni volta che riesco a passare cerco di comprare qualcosa da Taxi Driver (purtroppo lavoro dalla parte opposta della città), altro orgoglio cittadino, più specializzato in un genere che non è 100% la mia cup of tea (stoner-post metal, ecc) ma comunque fornitissimo (anche delle cose che piacciono a me) e da preservare, fosse solo per il coraggio e la dedizione con cui Maso e Sara tengono aperto un negozio “di genere” in un momento come questo, in una città come questa, dove soldout lo fa solo Giuliano Palma e forse neanche più lui.
Poi ho anche un paio di secret spots in giro, ma col cazzo che ve ne parlo qui sopra (e comunque sono stati più che saccheggiati).
Per ultimo c’è internet, che è un po’ (giustamente) il nemico di tutti i negozianti. O compro direttamente dalle etichette (ho preso un paio di giorni fa il disco di Bowles su Soft Abuse, consigliatomi da Collepiccolo, caro amico che non manca mai di alimentare i miei acquisti compulsivi, specialmente quando andiamo in vacanza a Barcellona col pretesto del Primavera Sound ma, alla fine, è palese che andiamo solo per fare un salto da Wah Wah e da Revolver), o da qualche distributore alla Boomkat (che è caro, infatti saccheggio solo le offerte). Poi c’è Amazon, che è stata la mia rovina, da quando ha aperto in Italia. Trovi quasi-tutto-a-meno. Per mesi, quando il sito era strutturato in modo diverso, passavo le mie pause pranzo a scovare con un trick le offerte speciali (e ce n’erano, di incredibili, vedi il cofano dei NEU che abbiamo comprato tutti), ora sto a sentire le dritte di questo o quello, e soprattutto compro più mirato e meno “è in offerta, costa come una birra, prendiamolo”. Tra l’altro se avessi speso in birre tutto quello che ho speso facendo quel ragionamento da quando ha aperto amazon sarei già morto di cirrosi, come minimo. Ah, poi c’è Soundohm, un catalogo sterminato della musica più bella del mondo (o, meglio, tutta quella che al momento desta il mio interesse), difficilmente recuperabile altrove. Negli ultimi tempi ho cercato di piazzare almeno un ordinino al mese, giusto dell’importo per evitare di pagare le spese di spedizione. Fortunatamente Fabio è svampito e casinista di suo, e la cosa mi trattiene dall’ordinare giornalmente, se fosse affidabile come amazon sarebbe la mia rovina.
Lascio per ultimo Discogs, perché è l’unico posto dove chi compra dischi dovrebbe andare, soprattutto se, come me, non vuole delle ristampine in economica col punto esclamativo. C’è tutto, a volte overpriced (basta stare lontani dagli italiani, di solito) a volte trovi l’affare della vita. C’è la wishlist che ti segnala con un’email che quell’lp della Far East Family Band è finalmente disponibile NM/NM da un venditore tedesco (dio benedica le poste tedesche e maledica quelle italiane) a soli 10 euri (contro i 25 a cui lo hai sempre visto in giro) e puff, eccoti con un buco in meno nella collezione.
Ultimamente ho anche cominciato a comprare su bandcamp, in .flac direttamente dagli artisti. Anche perché, come nel caso di Kemper Norton o del live di Congos e Sun Araw, è l’unico modo per ascoltare la loro musica. Non è così male, in effetti, se è l’artista stesso che ti permette di ascoltare la sua musica *solo* masterizzandotela su un cd.
Per il resto, scarico poco, pochissimo. Giusto quello che capisco che potrebbe piacermi o che mi incuriosisce (sono abbonato a The Wire e sto imparando a fidarmi con moderazione dei nomi che escono, che è tutta salute), in uno o due ascolti decido se vale la pena, quindi lo metto in wishlist mentale e lascio che il rush compulsivo si calmi. Se si calma ho risparmiato 10-20 euri, se non si calma dopo qualche giorno clicco e via col senso di colpa.

  1. 2.    Capra: come ascolti la musica? quanto costa la roba che usi?

Tixi:

<geek>
Argomento scottante. Per forza di cose essendo 10h al giorno lontano da casa convivo con il mio iPod 5.5 da 30GB. Letteralmente, da quando esco la mattina e mi metto in vespa a quando torno a casa ho sempre gli auricolari in-ear (la cosa mi è costata 159€ di multa e 5 punti della patente – e mentre scrivo mi chiedo se una dichiarazione pubblica di infrazione del codice della strada sia perseguibile, quindi, se qualche vigile sta leggendo, sappia che è tutto frutto della mia fantasia). Riesco a concentrarmi (quindi a lavorare) praticamente solo isolandomi ascoltando musica, come riuscivo a studiare solo con lo stereo acceso. Il problema è che sono piuttosto esigente. Uso quel particolare modello di iPod (e quando mi lascerà sarà dura) perché fu l’ultimo prodotto con il DAC della Wolfson. Dalla generazione successiva Apple ha cominciato a montare un convertitore pessimo che suonava malissimo, e non se ne parla proprio. Per le cuffie sono altrettanto menoso: mi durano pochi mesi e ogni volta passo delle giornate intere a ponderare su forum e siti vari quale modello comprare, senza spendere troppo. Ritengo di aver provato quasi tutto sotto i 30€, giusto ieri mi sono arrivate delle Creative EP830 pagate 15e su amazon che suonano molto meglio di quanto mi aspettassi, quindi sono soddisfattissimo. Mp3 rigorosamente rippati dai 224kbs vbr in su, ça va sans dire.
L’impianto di casa, invece, è la mia delizia. Ho avuto cose ben suonanti ma economiche per anni (e non mi lamentavo, per carità, solo che dopo un po’ mi veniva voglia di cambiare). Sono incappato in un collega che mi ha fatto sentire componenti di ben altra caratura e senza svenarmi mi ha procurato quello che probabilmente sarà il mio impianto definitivo (in un anno non mi ha ancora stancato, ed è quasi un miracolo che per un ossessivo-compulsivo che ci sia qualcosa che dopo un anno lo soddisfa ancora): un QUAD 33/303 (pre e finale inglesi a transistor in produzione dagli anni 60 agli 80, storici, se cercate su google vedete anche quanto sono belli esteticamente), da lui upgradato in modo eccelso e segretissimo, due casse Tannoy T115 con un tweeter che lévati (modificate anche quelle, erano degli ottimi monitor da studio nei 70’s), appoggiate su degli stand che devo farmi venire voglia di riempire di sabbia per renderli un po’ meno risonanti (risuonano, si sente, non prendetemi per coglione). Entrambe le cose credo mi siano costate 800 euro, se non ricordo male. Se pensate che alla stessa cifra comprate un impianto indegno di quelli con tante lucine, beh, sono sicuro di averli spesi bene, del resto non vedo perché spendere in cose inutili come le tasse della rumenta e non per qualcosa che mi godo tutti i giorni (mentre scrivo di là stanno girando i Flamin’ Groovies). Ho un buon giradischi Systemdek IIX degli 80s che ho pagato pochissimo in condizioni un po’ così da un venditore ebay inglese che è stato anch’esso modificato e rimesso in bolla. Il braccio, un buon AT che era già sul giradischi monta una testina Stanton 681 che forse è l’unica cosa che cambierei nel mio impianto (ed è comunque una testina con i controcazzi, ‘na roba da 200 euri, che ho pagato la metà), appena capisco che è giunta la sua ora mi butto su una Ortofon Red, o qualcosa di analogo. Come lettore cd ho un Marantz CD63 che mi fa godere, e prima o poi vorrei farmelo modificare. Visto che un sacco di roba è cominciata ad uscire solo in cassetta sono andato alla ricerca di una piastra decente, alla fine ho recuperato a costo zero una TEAC che fa il suo dovere e ho pensionato quella che usavo prima, ma alla quale dovevo cambiare la cinghia e non ne avevo proprio voglia.

</geek>

Mi rendo conto che quello che avete letto sia molto poco figa friendly, ma del resto spero che le ragazze abbiano smesso di leggere quando ho scritto la parola “DAC”, non vorrei mai che si pensasse che sono un nerd che si fa le pippe sulle sfumature di questo o quello strumento sul proprio impianto hifi. In fondo su quell’impianto ci ascolto i Bad Brains, quindi sticazzi, sia chiaro, mi piace solo spendere i miei soldi nel modo più sensato possibile. “Elongatio Penis”, l’avrebbe definita qualcuno, magari. Boh. Batto il belino.

“Tixi è bono tipo Winni the Pooh”. Non è farina del mio sacco, ma ci farei una torta.
(Jukka Reverberi, operatore socioculturale e Giardini di Mirò)

  1. 3.    Capra: nella piramide di spese della tua vita le 3 cose per cui spendi di più.

Tixi: Beh. L’affitto mi mangia un bel po’ di soldi, abito da solo perché non riuscirei ad avere un coinquilino (ovvero un semiestraneo che gira per casa), e  per ora non ho una famiglia da mantenere. Poi vengono i dischi. Poi la spesa al Carrefour (ma mi accontento di poco, dal punto di vista alimentare sono davvero uno zero e ho l’alimentazione meno corretta tra tutte le persone che conosco, ma ho fatto le analisi e vanno più che bene, meglio così). Quindi la benzina della vespa (faccio 40km al dì per andare e tornare dal lavoro), e tutto quello in cui spende mediamente un 35enne (considerando che mi vesto nello stesso modo più o meno dalla quinta superiore, come mi fa notare Alice). Non ho vizi particolari (social drinker e neanche troppo, non mi ubriaco da almeno tre anni – ero ad un concerto dei Clinic e quindi al Buridda – e l’ho patito come un dannato per le 72h successive, non ho più 20 anni, in più temo l’etilometro come poche cose al mondo), non fumo, non sono un fanatico dell’andare a cena fuori (tranne quando vado nel mio ristorante preferito, il pesto migliore del mondo, per fortuna è anche molto economico), odio andare al cinema a vedere film stuprati dal doppiaggio e dal pubblico che commenta prima/durante/dopo e ride anche quando ci sono battute che non fanno così ridere (chissà perché lo fanno). Vado in vacanza giusto quelle due tre volte l’anno, ma non nego che mi piacerebbe viaggiare molto di più, anche se temo che finirei in giro per negozi di dischi all’estero. Che da una parte è anche piacevole, e ci sta, dall’altra non sono sicuro che sia del tutto sano (ma si, perché no).
Qualche soldo va via anche in giocattoli musicali che suonicchio in casa, registro per gioco e chissà che un giorno mi venga voglia di far sentire a qualcuno. Niente di serio, comunque, anche se tra un giocattolo e l’altro mi sono messo in casa delle belle cosine. A parte la mia stupendissima Telecaster JV dalla quale non mi staccherò mai, mi sto divertendo con pedalini e synth vari, cosine autoscostruite (mi sono assemblato un Big Muff che è na bomba) e spippolo a cazzo. La morte sua.

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4. Capra: i 10 dischi più belli usciti quest’anno e quali di questi hai comprato.

Tixi: Giusto qualche giorno fa ho tirato giù na lista, visto che la stavano facendo tutti in tutti i social network possibili, e non mi andava giù che The Wire avesse messo come disco dell’anno quella robetta che è Laurel Halo.
Quindi:
1. Pelt – Effigy
2. Scott Walker – Bish Bosh
3. IX TAB – Spindle & The Bregnut Tree
4. Kemper Norton – Carn (1)
5. Sun Araw, M. Geddes Gengras & The Congos – Icon Give Thank
6. Demdike Stare – Elemental
7. Mark Feehan – MF
8. Neneh Cherry & The Thing – The Cherry Thing
9. Cut Hands – Black Mamba
10. Taylor Deupree – Faint

Li ho comprati tutti, quasi tutt a scatola chiusa (Neneh Cherry e Scott Walker addirittura preordinati, credo di non averlo mai fatto prima di quest anno), tranne Taylor Deupree che è appena uscito ed è un doppio cd che costicchia e spero di trovare un po’ a meno tra qualche mese/anno.

  1. 5.    Capra: i 3 gruppi italiani che se un amico ti dicesse che gli piace uno i questi tre gruppi smetti di essergli amico.

Tixi: Ma dai, non è che smetto di essere amico di qualcuno perché ascolta della musica di merda (menzogna, N.d.C.) Al massimo posso dire che non so cosa potrei avere da condividere con un fan della triade Agnelli/Capovilla/Canali. Del resto se non ci fossero coprofagi non avremmo fenomeni inspiegabili come I Cani o gli Zen Circus. Cazzi loro dai. Faccio molta più fatica ad essere amico di un elettore del pdl, magari pure sandoriano o lettore del Mucchio, che del fan di un gruppo inutile.

Al massimo quelli con cui non voglio proprio avere a che fare sono i fans dei Radiohead, per non parlare di quelli di Capossela.

 

 

  1. 6.    Capra: il tuo ultimo giovedì sera

 

Tixi: Giovedì sera nevicava, qui a Genova, e pure forte. Sono tornato dal lavoro stravolto e di sicuro non ho trovato le forze per spingermi in centro, anche se suonava Gipsy Rufina e non mi sarebbe dispiaciuto rivederlo. In più martedì avevo preso una bella sberla sull’asfalto cadendo dalla vespa ed ero anche pieno di dolori. Mi sono messo sul divano con un bel libro (“Abbiamo sempre vissuto nel castello” di Jackson Shirley, stupendo) sul kindle (che invenzione, ragazzi) e  qualche disco sul piatto. E’ andata meglio di altre sere, in cui esco perché c’è qualcosa da fare e alla fine quel qualcosa si rivela di una noia mortale e mi fa rimpiangere di non essere rimasto a casa.

  1. 7.    Capra: Meglio una pessima cena con ottima musica o viceversa?

Tixi: Che cazzo di domanda marzulliana, Capra…

                Capra: Rispetta l’arte

Tixi: Come dicevo prima, non sono una buona forchetta. Quindi direi meglio la buona musica, mica per altro, a me di mangiare strabene interessa relativamente. Casomai meglio una buona compagnia, quella sempre e comunque. Che poi nel mio ristorante preferito (non vi dico qual è a meno che il proprietario non mi dia l’endorsment a base di testaroli) l’ultima volta avevano messo Waltz For Debbie di Bill Evans (ho un’ossessione per Bill Evans) e ho pensato che quello fosse il posto perfetto.

            8. Capra: se tuo zio ricchissimo che vive in Lussemburgo ti chiedesse
“Tixi (tuo zio ti chiama per cognome) cosa vuoi per Natale?”

Tixi: Eh. Mio papà ha cinque fratelli, e di conseguenza ho un sacco di cugini. Per la famiglia Tixi ogni natale era un salasso, a suon di regali inutili. Ad un certo punto, in modo molto genovese, giunsero ad un accordo di fare regali solo ai figli dei figli. Io avevo appena compiuto 15 anni e fui il primo a subire questa normativa anticostituzionale, un vero e proprio abuso nei confronti del Tixi adolescente che una volta andava dai parenti il giorno di natale per pigliarsi due regali inutili, poi neanche più quello. Ho solo una zia materna che, regolarmente, ogni anno mi chiede “che vuoi per natale? qualsiasi cosa che non riguardi la musica”. E con “musica” intende neanche libri o cofanetti di DVD. In pratica vorrebbe regalarmi solo maglioni, ma io uso pochissimi maglioni, solo felpe col cappuccio e tshirt stilose. Quest’anno le ho chiesto di regalarmi delle serigrafie di 108 che in realtà avevo già comprato, mi farò dare i soldi che ho speso per quelle serigrafie e li investirò nel triplo di Ullmann di cui parlavo prima o, ancora meglio, nel cofanetto PRIX ITALIA che è appena uscito su Die Schachtel, cazzo quanto lo voglio.

              9. Capra: che cosa stai ascoltando in questo momento?

Tixi: Ho cominciato a rispondere a queste domande ascoltando i Tindersticks, il disco col cowboy., poi ho messo su i Flaming Groovies mentre aspettavo che bollisse l’acqua per buttare la pasta, e continuavo a rispondere. Adesso che è quasi mezzanotte e mi si stanno incrociando gli occhi c’è Arturo Stalteri che ho preso qualche mese fa ed ascoltato pochissimo. È figo.

Pagare la musica #1

Sulla mensola in sala, a tenere fermi i miei 19 vinili (di cui 3 del mio gruppo), c’è la scatola in legno del Big Muff.

Big Muff versione americana, quello grigio alluminio.
Il Big Muff è un pedale per la chitarra.
Un pedale per la chitarra è un aggeggio dove entra un jack e ne esce un altro e cambia il suono che la tua chitarra avrebbe se entrasse diretta col jack nell’amplificatore.
Il jack è un cavo che trasporta il segnale dai microfoni che ci sono nella chitarra a qualcos’altra che chitarra non è.
L’amplificatore, in questo caso, è quel qualcosa che chitarra non è.
Nella scatola del Big Muff sulla mensola ci teniamo i preservativi.
Sotto alle due scatole di preservativi (una delle due è vuota, ora la getto nella stufa) c’è uno scontrino.
Intestazione: Muzik Station SNC – via 1° Maggio 17 – Correggio RE
Data: 23.12.2002
Importo: 143€
Asterischi *** 1€=LIRE 1936,27 *** Altri asterischi.

Quello scontrino è lì dal giorno che ho comprato quel pedale.
Il giorno, come si evince dalla data, era un giorno sotto Natale di 10 anni fa.
Con tutta probabilità mi ero fatto un regalo. Il verbo evincere è sempre un gran lusso.
Di tutte le cose che nella mia vita ho usato per suonare, solo una mi è stata regalata: una chitarra acustica amplificabile, marca Tanglewood, anch’essa fu un regalo di Natale (o di Santa Lucia, dalle mie parti va un casino), e tutt’oggi fa bella mostra di sé su un poggia chitarra di fianco alla porta del bagno.
Tutto il resto l’ho comprato. Quando ancora non avevo un lavoro mettevo da parte soldi della paghetta mensile mese dopo mese, si andava in scooter in negozi di musica a Reggio o a Modena a rompere i coglioni ai commessi per ore. Quel genere di clienti che odierei fortissimo. Come contrappasso ci facevamo fregare almeno la metà delle volte.
La mia prima chitarra elettrica fu una Fender Strat. Si chiamava proprio così: Strat, una chitarra che palesava la propria inferiorità fin dal nome, misera apocope di Stratocaster.
La comprai usata, pagandola circa 700.000£.
Aveva la leva al ponte, cioè aveva una leva là dove le corde entrano nel corpo di legno, giusto dietro i pick-up (che sono i microfoni), per fare quell’effetto che di ondulazione del suono tipo “Uaun-uaun”. Ogni volta che facevi Uaun-uaun con la leva, tutta l’accordatura andava a rane. In genere l’accordatura della mia Fender Strat andava a rane dopo un’ora che suonavi – indipendentemente dalla leva. Accordare una chitarra del genere era faticosissimo. Per me, almeno. Spiego. Quando c’è una leva, di solito, c’è un ponte Floyd Rose. Ovvero un ponte per le corde (si chiamerà così perché le corde ci passano sopra, desumo) che le fissa attraverso 6 dadi, uno ciascuna, per dosare l’accordatura fine – lì dove c’è la leva; e le fissa però anche a capotasto, ovvero dall’altra estremità della chitarra, poco prima che le corde si avvolgano nelle meccaniche in quella parte chiamata paletta, cioè alla fine del manico. Dio mio, difficilissimo. Questo tipo di ponte si chiama così perché lo inventò Floyd D. Rose, che suonava la chitarra nei Q5. Mai sentiti. Metti che una delle corde si scordi, cioè non suoni più la nota per cui è stata creata dal dio delle chitarre: allora provi a girare il dado per riportarla alla sua nota. Metti caso che la stonatura sia troppa, e il filetto della vite di questo dannatissimo dado finisca prima che tu raggiunga il tuo obiettivo, allora significa che devi svitare tutte le viti a brugola sulla paletta, risistemare l’accordatura alle meccaniche, riavvitare, risettare i dadi sul Floyd Rose e aspettarti che da lì a 4 minuti un’altra corda ti faccia mandare in culo le prove perché si scorda di nuovo.
Ammetto che questa cosa di accordare le chitarre e capire come funzionano non era esattamente nelle mie corde (ahahaha!)(cretino), e non lo è tuttora.
Vendetti la Fender Strat e comprai un’imitazione della diavoletto Gibson, in quella simpatica sottomarca che è la Epiphone. Una diavoletto rossa: 400.000£. Suonava da merda.
La terza chitarra che comprai fu una Fender Telecaster. È quella che uso ancora oggi. Una decina d’anni dovrebbe averli. Indicativamente la pagai 1.000€, o un milione di lire, ora non ricordo. Voi vi ricordate quando l’euro è entrato in vigore? Ve lo dico io: 2002.

Queste chitarre funzionano così: infili le corde dal retro attraverso un buco, queste si bloccano nel legno grazie a una pallina di metallo che non passa dal buco, porti l’altra estremità della corda alle meccaniche e accordi. Senza dover avere con te un kit da elettrauto. Tutto è più lineare, intuitivo. Il Floyd Rose è come lo spazzolino elettrico, o le macchine con cambio automatico: è innaturale – con tutto il rispetto per Mr. Rose, che spero campi ancora vent’anni lui, il suo gruppo e le sue chitarre di merda.

Il discorso che volevo fare comunque era: da quanto mi risolsi nella decisione che spendere soldi per truccare il motorino era un’attività che aveva concluso il suo tempo, e il dentista lo pagava ancora mia madre, tutto quello che mettevo da parte l’ho sempre usato per comprarmi roba per suonare.
Prendi la Telecaster di cui sopra. La ditta Fender ne produceva due tipi: una fatta negli U.S.A. e una fatta in Messico. La prima costava il doppio. Quando al Muzik Station provarono a spiegarmi le differenze tra le due cominciarono ad entrare nomi di alberi, nomi di ingegneri, nomi di pick up e altre cose che non avrei potuto capire. Chiesi di provarle. Prima una e poi l’altra. Ma non l’avrei fatto io. Io sarei rimasto di spalle, e avrei scelto quella il cui suono mi avrebbe convinto di più. Scelsi la messicana.
Questa storia delle chitarre ascoltate di spalle sono sicuro che sia vera, ma non ricordo se l’ho inventata io o me l’hanno raccontata.

In genere per il capitolo “acquisti di robe per suonare” adotto il medesimo principio in uso per il capitolo “acquisti in generale”, ovvero: non compro nulla solo perché c’è qualcosa di nuovo da poter comprare; non compro nulla nemmeno se c’è qualcosa di meglio da poter comprare. Compro qualcosa quando ciò che possiedo di vecchio non mi soddisfa più.
Su un singolo sottocapitolo però, lungo tutta la mia carriera di acquirente, ho sempre transatto: i pedali per chitarra, diminutivamente chiamati pedalini. Ci tengo a precisare che non ho mai usato il participio passato di transigere in vita mia a parte nell’ultima proposizione.

Da quando ho cominciato a suonare ho comprato circa 50 pedalini, di cui me ne restano circa 30, sparsi tra sale prova, pedaliera, amici, soffitta, davanzali. Uno ricordo di averlo visto sotto la barchessa fuori un paio di settimane fa mentre sistemavo la legna. Ora lo vado a recuperare. In numero sono superati solo dalle magliette dei gruppi – Agnese un mese fa ne ha contate 48 (di cui 7 del mio gruppo). Al conto se ne sono aggiunte altre 4 nelle ultime 2 settimane.
Questo pezzo, per la noia che mi sta elargendo nel rileggerlo, direi sia già lungo a sufficienza.

Capra