
Un libro che è un pezzo di vita. Riccardo Balli ha attraversato da frequentatore, testimone oculare, ideologo, a volte da protagonista, un ventennio abbondante di evoluzioni, filiazioni e ramificazioni della musica da ballo più ostica, incompromissoria e assolutamente non riconciliata in circolazione, un percorso di fiera marginalità ultraunderground condotto con rigore filologico, convinzione incrollabile e passione inestinguibile, seguendo (spesso tracciando) traiettorie oscure e incomprensibili ai più, in storie che – per citare il poeta – capiremo forse quando sarà nonno. Oggetto di studio il lato sommerso e più visceralmente sperimentale dell’elettronica post rivoluzione copernicana della techno, una terra di confine dove non esistono schemi o formule né alcun tipo di certezze rassicuranti e spegnere il cervello non è contemplato, non c’è limite alle ibridazioni tra generi e infrangere i limiti è l’unico credo, dove la forza di un’idea sa essere più ottundente di qualsiasi droga e la contaminazione di forme e linguaggi è più che auspicata – è necessaria. È roba pericolosa perché carica di significati veicolati in piena consapevolezza e per questo realmente in grado di stimolare una riflessione (di qualsiasi tipo, perché l’importante è pensare in quanto tale, non a cosa pensare). In un certo senso, la negazione stessa del concetto di easy listening. Una strada accidentata che in pochi, pochissimi hanno avuto il coraggio di abbracciare e percorrere fino in fondo; una strada che quasi sempre si percorre in solitudine, del resto le probabilità di incontrare spiriti affini lungo il tragitto sono pari a zero o quasi. Bisogna avere una passione smisurata per andare avanti e perseverare, e di passione ce n’è tanta da uccidere un toro tra le righe di Apocalypso Disco (Agenzia X, 192 pagine, 14 euro), allucinata e al tempo stesso lucidissima ricognizione che viaggia su più livelli, come un videogioco di Jeff Minter riprogrammato da Escher, multifunzionale come un disco degli Psychic TV del periodo più visionario, costantemente scisso tra narrativa e vissuto personale, saggio filosofico e cut-up burroughsiano, re-edit e febbrile diario di viaggio, racconto orale e romanzo di fantascienza, ma quella fantascienza schizzatissima e malsana e foriera di oscuri presagi la cui potenza delle immagini arriva a lambire territori contigui al Philip K. Dick più allucinato e in preda agli acidi, come la trilogia di VALIS riscritta da uno squatter vegano con la mente che gira a una velocità sconosciuta (comunque non la nostra). Nelle parti che parlano degli anni novanta la carica evocativa è devastante: è come ripiombare a piedi uniti in un universo lontano e famigliare, vedere scorrere una serie di belle immagini che innescano una reazione a catena di rimandi e ricordi – non necessariamente collegati, è lo spirito del tempo ad essere lo stesso. Cyborg (la rivista), Tunnel (la fanzine), le sculture dei Mutoidi, le tavole del Professor Bad Trip, i dischi dei ClockDVA su Contempo, quell’abbagliante supernova che fu la Telemaco Comics con le edizioni italiane di Isaac Asimov Science Fiction Magazine e Le avventure di Luther Arkwright (il fumetto più bello di sempre), l’esplosione della seconda ondata cyberpunk, Mirrorshades finalmente in Italia con in copertina Mozart con gli occhiali da sole, Il tagliaerbe al cinema e Mad Max su Italia1 il sabato sera. Ed è dolce perdersi nella vertigine di nomi di supernicchia e superculto e scoprire generi di cui si faticherebbe a ipotizzare l’esistenza, un florilegio di definizioni che sono tanti grimaldelli nel cervello, un universo sconosciuto al 99% di chi ogni giorno calpesta questo pianeta, costellazioni di scene, etichette, festival che nel nome di una visione continuano fieramente a operare al di fuori da ogni tracciato. A completare il quadro una serie di interviste, da Christoph Fringeli fondatore di Praxis Records e del magazine Datacide a Daniel Erlacher di Widerstand e Elevate festival, dall’antropologo Graham St. John a Ralph Brown, il primo – e, finora, unico – produttore extratone italiano (l’extratone è un sottogenere della speedcore dove i brani superano i 3600 bpm). Un libro che è un pezzo di vita.

SONIC BELLIGERANZA IN CINQUE MOSSE
Sonic Belligeranza è l’etichetta di Riccardo Balli. Partita nel 2000 come emanazione prettamente breakcore con la prima uscita Serious and Comical Investigations at around 333 bpm, ne prende ben presto le distanze per evolversi in qualcosa di alieno, imprendibile e totalmente a sé stante, spesso ai limiti del situazionismo puro, roba nervosa, impenetrabile e aggressivamente mentale che in nessun caso può prescindere dal lavorio teorico e dalle complesse impalcature concettuali che stanno dietro ogni uscita. Attivo anche come produttore e DJ, Balli col tempo è diventato un toponimo, come Morrissey, o Danzig. Di seguito, in ordine sparso, alcuni dei tasselli fondamentali di questo viaggio.
+ BELLIGERANZA cd02 N. – Memories From Before Being Born (2005)

Due piastre per cassette vuote, una connessa all’altra, nessun suono se non la distorsione prodotta dalle piastre stesse in play/rec. Quel che ne esce è qualcosa di molto vicino al suono più angosciante del mondo, isolazionismo puro, come un registratore lasciato acceso dentro una bara vuota sepolta sotto chilometri cubi di cemento armato, brevi sinfonie per fabbriche abbandonate, i macchinari che entrano in funzione in piena notte come azionati da fantasmi. Unico paragone possibile il più recente Sounds From Dangerous Places di Peter Cusack ma senza l’apparato suggestivo a motivare, soltanto abbrutimento, autismo e desolazione incalcolabili. Terminale.
+ BELLIGERANZA cd01 SANdBLASTING – El Paso Sound-Wall (2003)
Il titolo dice tutto. Il primo pezzo (Materia prima, tanto per chiamare le cose con il loro nome) è un’improvvisazione live registrata al centro sociale El Paso, un muro di rumore da spettinare il Merzbow dei tempi d’oro; i successivi cinque variazioni sul tema operate seguendo una metodologia di lavoro controllatissima e maniacale, di fatto rifondando il concetto stesso di “remix”. Tra i lasciti più radicali del torinese Luca Torasso, oltre che un doveroso tributo a un posto che per la sua città è come la Mecca in Arabia.
SB04 Dj Balli – Straight-Edge Rastafari Manifesto (2003)
– BELLIGERANZA 02 DJ Balli Is The Wrong Nigga To Fuk Wiz ! – From The Inside (2005)

Probabilmente la pietra tombale dell’intero movimento breakcore, le colonne d’Ercole del genere; oltre sarebbe impossibile spingersi. Insieme, un incubo marinettiano di ritmiche spezzate, evoluzioni da stato dell’arte del turntablism e campionamenti da ogni tipo di sorgente sonora, dai film di serie Z (ma senza la patina becera e umanamente degradante propria del grind più deleterio) alle maratone di liscio da balera romagnola, dall’inno di Forza Italia a lezioni di educazione sessuale estrapolate da vinili che sono reperti archeologici da mercatino delle pulci di Brick Lane, lo sticker “questo non è un disco breakcore” sulla copertina di From the Inside una pisciata in faccia alla pipa di Magritte. John Oswald la prenderebbe bene, ma anche Lee Harvey Oswald.
SB10 DJ Balli/Ralph Brown – Tweet It! (Extratone Mix) (2012)

Un ponte tra musica elettronica e Twitter, in specifico una trasposizione audio del flusso informazionale del noto social network basato sulla bizzarra coincidenza di numero di bit informazionali prodotti al secondo:
AUDIO DIGITALE (QUALITA’ CD) 44100 khertz a 16 bit la codifica x 2 canali stereo = 1.500.000 bit al secondo
TWITTER 2600 tweet al secondo (statistiche ufficiale Twitter.com 2012) x 70 caratteri (la media effettiva di lunghezza dei Tweet) x 8 bit la codifica = (anche qui) 1.500.000 bit al secondo.
Da qui l’idea di impostare un Twitter disco in cui i 14 brani durano 1 minuto e 40 secondi (il pezzo di introduzione e quello finale invece 0.14 sec.), con liriche di 140 caratteri e velocità 140(0) bpm.
Nella pratica un mostro irraccontabile, entropia pura, tra le rappresentazioni più spaventose e ferali di abisso nietzschiano mai incontrate, roba al cui confronto 1TB Noise di JLIAT o l’opera omnia di Autodigest diventano cazzatelle da educande. Un Moloch, serio candidato al titolo di disco più inascoltabile di sempre.
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