Sights & Sounds – Silver Door

10 Jacket (3mm Spine) [GDOB-25H3-001]

 

Solo cuore, questo sono i Comeback Kid. Andrew Neufeld canta anche nei Sights & Sounds e lo senti che la sostanza è la stessa: pare roba scritta e pensata e incisa nel 2004 con la testa e il cuore ai Quicksand di Manic Compression (e quindi a uno dei più grandi gruppi e uno dei più grandi dischi mai esistiti quando si tratta di lasciare le interiora su un tavolo). Poli’s song e Good morning, il primo e l’ultimo pezzo, i momenti a più alta intensità, cori a tutta gola e andiamo a fare il bagno nelle piscine incustodite, tipo Il Nuotatore di John Cheever o il video di 1979, il resto è su qualche altra sua onda.

Vatican Shadow ‎– Remember Your Black Day

vaticanshadow

Che sia come Prurient o Vatican Shadow o qualcun altro dei suoi mille pseudonimi nessuna differenza, Dominick Fernow continua a fare quel che sa: vampirizzare le idee e l’immaginario di qualcun altro. E continua a farla franca, anche stavolta, fosse anche solo perché Bryn Jones è morto da quindici anni ormai e di Muslimgauze se ne ricordano forse soltanto i fanatici delle edizioni ultralimitate, ma quelli di bocca buona. La malafede assoluta che anima l’intero progetto emerge in maniera sguaiata, plateale, fin dai minimi dettagli, dall’artwork carico di sinistri sottintesi parabellici a titoli come Not the son of Desert Storm, but the child of Chechnya o Tonight Saddam walks amidst ruins. Smarrita la vergogna.

Magik Markers – Surrender to the Fantasy

magikmarkers

Un tempo i Magik Markers suonavano la musica più eccitante in circolazione e nella serata buona sapevano essere la migliore live band del mondo; ora sembrano la brutta copia della brutta copia della brutta copia della brutta copia della brutta copia dei Times New Viking – o di qualche altro gruppetto con tipa alla voce parimenti innocuo e inerte di cui ti scordi dopo sette secondi – a cui un orangutang sbronzo abbia appena praticato una lobotomia frontale. Devo essermi perso qualche passaggio nel frattempo.

Locrian – il video di “Two Moons”

I Locrian appartengono al momento in cui il metal brutto stava cominciando a venire sdoganato dalla stampa che conta, periodo che ricorderemo (cioè me, me stesso e Io) come uno dei più bui della storia musicale recente. Qui sembra che rifacciano un pezzo di Donovan ma senza il cantato, con distorsioni a cazzo e un batterista narcolettico; però il video si presta ad agevolare trip interessanti (se vi piacciono le bolle d’acqua e i fossili e le luci di posizione, il tutto virato blu Klein).

Omar Souleyman – Wenu Wenu

La differenza tra questo e i dischi su Sublime Frequencies che pescavano da milioni di cassette registrate ai matrimoni è la stessa che passa tra un film di Spielberg e la guerra vera; coi suoni pettinati e svuotato della patina camp derivante dalla qualità audio infima abbinata alla novità del personaggio quel che rimane è un tizio pittoresco che dice cose in un linguaggio incomprensibile sopra un tappeto musicale da villaggio Alpitour. Ora più che mai conoscere e mostrare di apprezzare Omar Souleyman è l’equivalente di ballare scalzi alla Notte della Taranta.

Abbassare il livello: BRUTAL TRUTH/BASTARD NOISE – The Axiom of Post Inhumanity

I Brutal Truth sono una delle cose più belle successe alla musica dall’invenzione dell’elettricità a oggi; implosi dopo una breve serie di dischi che dire monumentali è sminuire la categoria dei dischi monumentali, hanno capito che non era il caso e da qualche anno sono tornati, e per qualche miracolo che evidentemente non è dato comprendere ma solo accettare muti e grati i dischi nuovi sono buoni quasi quanto quelli vecchi. I Bastard Noise all’inizio erano i Man Is The Bastard che cazzeggiavano coi rumorini, poi i Man Is The Bastard si sono sciolti, Eric Wood ha continuato e sono rimasti loro; l’ultima volta che li ho visti c’era una tipa alla voce (devo essermi perso qualche passaggio nel frattempo). The Axiom Of Post Inhumanity documenta l’incontro tra questi grandi spiriti (sia detto senza la minima ironia). Sulla carta qualcosa di epocale, mastodontico, definitivo, roba che ha a che fare molto da vicino con il concetto di history in the making e che solletica l’immaginazione prefigurando scontri titanici alla Thor contro Galactus, Alien contro Predator, Godzilla contro Gamera; nella pratica una cosetta neppure troppo fastidiosa e men che meno ostica o perturbante.

Esce in due formati come le edizioni platinum della Marvel, CD e vinile con copertine di diverso colore e scalette differenti; come è logico che sia in entrambi i casi la porzione che compete ai Bastard Noise è quella che suona meglio (anni di pratica, strumenti autocostruiti e impalcature concettuali che ai Brutal Truth mancano quasi del tutto – dettaglio non da poco: il quasi è Prey, pezzo che chiude Sounds of the Animal Kingdom e che in 22 minuti dice sul rumore e sul caos più di quanto questo e qualsiasi altro disco potranno dire mai), ma è l’unica differenza: tanto nella versione LP quanto su CD il contenuto è parimenti tristo, baracconesco e deleterio. Una parata di sfrigolii, scrocchi e sibili di quelli che vengono fuori smanettando con la manopola della sintonia di una radio con l’antenna rotta, tetraggine da film horror di serie Q con pretese, scricchiolii e arricciamenti digitali tipo il modem a 56k quando non prende bene e fa fatica a connettersi (Mantis colony), folate minacciose, sirene che precedono i bombardamenti a tappeto (Preemptive epitaph), anatemi con vocione sepolcrale-orchesco, sfarfallii fruscii e pernacchiette (The antenna galaxies), ancora sirene pre-bombardamenti, urla di tregenda e scricchiolii più fastidiosi del solito (Frack baby frack, è più appassionante il film di Gus Van Sant). I pezzi dei Brutal Truth stessa sbobba ma più minimale e alla vecchia. Control room: peace is the victory mix: stasi da dopobomba, una voce che gracchia cose in un walkie talkie distrutto, uno scheletro percussivo carpito chissà dove – forse il batterista che si sta scaldando in sala prove – presto risucchiato nel gorgo di bruma digitale, ululati di fantasmi nella notte, casino montante, ronzii da tinnito permanente, batterista sempre più lanciato, climax, rilascio. Diciotto minuti. Control room: smoke grind and sleep mix: altri acufeni, il suono delle pale di un elicottero che girano a vuoto riprocessato in modo da sembrare una grattugia che sfrega contro una barra di tungsteno, il ‘beep’ che segnala quando qualcuno ha lasciato lo sportello aperto in macchina, gli stessi ululati di cui sopra però sepolti sotto coltri di rumore di fondo e con un fastidioso ronzio persistente tipo trapano del dentista rimasto acceso in uno studio vuoto, segnali acustici a sfare, parte pure il campionamento di un pezzo sul danzereccio arrogante, lento ma violento avrebbe detto Albertino, ma è un attimo, poi voci a random tipo disco di Peter Sotos ma incomprensibili che diventano urla che diventano latrati. Venticinque minuti. The Stroy, la più rumorosa, bruma digitale più aggressiva del solito (forse sono le onde corte invece delle onde medie, non so, non faccio l’antennista) e fischio tipo volatile incarognito o antifurto guasto di quelli veramente molesti, poi un urlo tipo suicida che si lancia dal balcone e infine le sole note suonate dell’intero programma, l’attacco di un pezzo che diresti sul doom-cazzeggio in sala prove ma filtrato e distorto come attraverso un software di quindici anni fa, tipo Fruity Loops ma ancora più basilare. Magari è pure un pezzo vecchio dei Brutal Truth, comunque non lo riconoscerebbe nessuno. Poi tutto si sgretola in un’orgia di feedback e ampli in saturazione. Sette minuti. È il 2013 e che questo disco esca a due settimane dalla morte di Lou Reed in qualche maniera strana e perversa ha un senso.

Apocalypso Disco

cover

Un libro che è un pezzo di vita. Riccardo Balli ha attraversato da frequentatore, testimone oculare, ideologo, a volte da protagonista, un ventennio abbondante di evoluzioni, filiazioni e ramificazioni della musica da ballo più ostica, incompromissoria e assolutamente non riconciliata in circolazione, un percorso di fiera marginalità ultraunderground condotto con rigore filologico, convinzione incrollabile e passione inestinguibile, seguendo (spesso tracciando) traiettorie oscure e incomprensibili ai più, in storie che – per citare il poeta – capiremo forse quando sarà nonno. Oggetto di studio il lato sommerso e più visceralmente sperimentale dell’elettronica post rivoluzione copernicana della techno, una terra di confine dove non esistono schemi o formule né alcun tipo di certezze rassicuranti e spegnere il cervello non è contemplato, non c’è limite alle ibridazioni tra generi e infrangere i limiti è l’unico credo, dove la forza di un’idea sa essere più ottundente di qualsiasi droga e la contaminazione di forme e linguaggi è più che auspicata – è necessaria. È roba pericolosa perché carica di significati veicolati in piena consapevolezza e per questo realmente in grado di stimolare una riflessione (di qualsiasi tipo, perché l’importante è pensare in quanto tale, non a cosa pensare). In un certo senso, la negazione stessa del concetto di easy listening. Una strada accidentata che in pochi, pochissimi hanno avuto il coraggio di abbracciare e percorrere fino in fondo; una strada che quasi sempre si percorre in solitudine, del resto le probabilità di incontrare spiriti affini lungo il tragitto sono pari a zero o quasi. Bisogna avere una passione smisurata per andare avanti e perseverare, e di passione ce n’è tanta da uccidere un toro tra le righe di Apocalypso Disco (Agenzia X, 192 pagine, 14 euro), allucinata e al tempo stesso lucidissima ricognizione che viaggia su più livelli, come un videogioco di Jeff Minter riprogrammato da Escher, multifunzionale come un disco degli Psychic TV del periodo più visionario, costantemente scisso tra narrativa e vissuto personale, saggio filosofico e cut-up burroughsiano, re-edit e febbrile diario di viaggio, racconto orale e romanzo di fantascienza, ma quella fantascienza schizzatissima e malsana e foriera di oscuri presagi la cui potenza delle immagini arriva a lambire territori contigui al Philip K. Dick più allucinato e in preda agli acidi, come la trilogia di VALIS riscritta da uno squatter vegano con la mente che gira a una velocità sconosciuta (comunque non la nostra). Nelle parti che parlano degli anni novanta la carica evocativa è devastante: è come ripiombare a piedi uniti in un universo lontano e famigliare, vedere scorrere una serie di belle immagini che innescano una reazione a catena di rimandi e ricordi – non necessariamente collegati, è lo spirito del tempo ad essere lo stesso. Cyborg (la rivista), Tunnel (la fanzine), le sculture dei Mutoidi, le tavole del Professor Bad Trip, i dischi dei ClockDVA su Contempo, quell’abbagliante supernova che fu la Telemaco Comics con le edizioni italiane di Isaac Asimov Science Fiction Magazine e Le avventure di Luther Arkwright (il fumetto più bello di sempre), l’esplosione della seconda ondata cyberpunk, Mirrorshades finalmente in Italia con in copertina Mozart con gli occhiali da sole, Il tagliaerbe al cinema e Mad Max su Italia1 il sabato sera. Ed è dolce perdersi nella vertigine di nomi di supernicchia e superculto e scoprire generi di cui si faticherebbe a ipotizzare l’esistenza, un florilegio di definizioni che sono tanti grimaldelli nel cervello, un universo sconosciuto al 99% di chi ogni giorno calpesta questo pianeta, costellazioni di scene, etichette, festival che nel nome di una visione continuano fieramente a operare al di fuori da ogni tracciato. A completare il quadro una serie di interviste, da Christoph Fringeli fondatore di Praxis Records e del magazine Datacide a Daniel Erlacher di Widerstand e Elevate festival, dall’antropologo Graham St. John a Ralph Brown, il primo – e, finora, unico – produttore extratone italiano (l’extratone è un sottogenere della speedcore dove i brani superano i 3600 bpm). Un libro che è un pezzo di vita.
sb

SONIC BELLIGERANZA IN CINQUE MOSSE

Sonic Belligeranza è l’etichetta di Riccardo Balli. Partita nel 2000 come emanazione prettamente breakcore con la prima uscita Serious and Comical Investigations at around 333 bpm, ne prende ben presto le distanze per evolversi in qualcosa di alieno, imprendibile e totalmente a sé stante, spesso ai limiti del situazionismo puro, roba nervosa, impenetrabile e aggressivamente mentale che in nessun caso può prescindere dal lavorio teorico e dalle complesse impalcature concettuali che stanno dietro ogni uscita. Attivo anche come produttore e DJ, Balli col tempo è diventato un toponimo, come Morrissey, o Danzig. Di seguito, in ordine sparso, alcuni dei tasselli fondamentali di questo viaggio.

+ BELLIGERANZA cd02 N. ‎– Memories From Before Being Born (2005)

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Due piastre per cassette vuote, una connessa all’altra, nessun suono se non la distorsione prodotta dalle piastre stesse in play/rec. Quel che ne esce è qualcosa di molto vicino al suono più angosciante del mondo, isolazionismo puro, come un registratore lasciato acceso dentro una bara vuota sepolta sotto chilometri cubi di cemento armato, brevi sinfonie per fabbriche abbandonate, i macchinari che entrano in funzione in piena notte come azionati da fantasmi. Unico paragone possibile il più recente Sounds From Dangerous Places di Peter Cusack ma senza l’apparato suggestivo a motivare, soltanto abbrutimento, autismo e desolazione incalcolabili. Terminale.

+ BELLIGERANZA cd01 SANdBLASTING – El Paso Sound-Wall (2003)

sandblastingIl titolo dice tutto. Il primo pezzo (Materia prima, tanto per chiamare le cose con il loro nome) è un’improvvisazione live registrata al centro sociale El Paso, un muro di rumore da spettinare il Merzbow dei tempi d’oro; i successivi cinque variazioni sul tema operate seguendo una metodologia di lavoro controllatissima e maniacale, di fatto rifondando il concetto stesso di “remix”. Tra i lasciti più radicali del torinese Luca Torasso, oltre che un doveroso tributo a un posto che per la sua città è come la Mecca in Arabia.

SB04 Dj Balli – Straight-Edge Rastafari Manifesto (2003)

– BELLIGERANZA 02 DJ Balli Is The Wrong Nigga To Fuk Wiz ! ‎– From The Inside (2005)

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Probabilmente la pietra tombale dell’intero movimento breakcore, le colonne d’Ercole del genere; oltre sarebbe impossibile spingersi. Insieme, un incubo marinettiano di ritmiche spezzate, evoluzioni da stato dell’arte del turntablism e campionamenti da ogni tipo di sorgente sonora, dai film di serie Z (ma senza la patina becera e umanamente degradante propria del grind più deleterio) alle maratone di liscio da balera romagnola, dall’inno di Forza Italia a lezioni di educazione sessuale estrapolate da vinili che sono reperti archeologici da mercatino delle pulci di Brick Lane, lo sticker “questo non è un disco breakcore” sulla copertina di From the Inside una pisciata in faccia alla pipa di Magritte. John Oswald la prenderebbe bene, ma anche Lee Harvey Oswald.

SB10 DJ Balli/Ralph Brown ‎– Tweet It! (Extratone Mix) (2012)

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Un ponte tra musica elettronica e Twitter, in specifico una trasposizione audio del flusso informazionale del noto social network basato sulla bizzarra coincidenza di numero di bit informazionali prodotti al secondo:

AUDIO DIGITALE (QUALITA’ CD) 44100 khertz a 16 bit la codifica x 2 canali stereo = 1.500.000 bit al secondo

TWITTER 2600 tweet al secondo (statistiche ufficiale Twitter.com 2012) x 70 caratteri (la media effettiva di lunghezza dei Tweet) x 8 bit la codifica = (anche qui) 1.500.000 bit al secondo.

Da qui l’idea di impostare un Twitter disco in cui i 14 brani durano 1 minuto e 40 secondi (il pezzo di introduzione e quello finale invece 0.14 sec.), con liriche di 140 caratteri e velocità 140(0) bpm.

Nella pratica un mostro irraccontabile, entropia pura, tra le rappresentazioni più spaventose e ferali di abisso nietzschiano mai incontrate, roba al cui confronto 1TB Noise di JLIAT o l’opera omnia di Autodigest diventano cazzatelle da educande. Un Moloch, serio candidato al titolo di disco più inascoltabile di sempre.

Tema: IL MIO ULTIMO CONCERTO. Svolgimento:

Rubata al prode Manicardi.

Oh, i Public Image Limited! Proprio loro! Ti dico, per me sono musica minore, tarata. Vedi, tutti questi gruppi new wave partono da presupposti troppo minimali. È musica da tinello.
(Enrico Brizzi, Bastogne)

Sono stato a vedere i PiL. Non avevo mai visto John Lydon in carne e ossa fino ad ora e ho pensato che fosse arrivato il momento di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Vorrei poter dire essere stato al Filthy Lucre tour nel 1996, non tanto per i Sex Pistols ma perché questo avrebbe comportato vedere i Sepultura con Max Cavalera quando ancora i Sepultura erano i re del mondo, i Paradise Lost in uno stadio alle tre del pomeriggio, ma soprattutto gli Slayer alle prese con un repertorio di cover di pezzi hardcore marcissimi per la prima e unica volta nella loro carriera – perlomeno in Italia (era il tour di Undisputed Attitude); ma mentirei, ero un ragazzino e l’esborso fuori da ogni costrutto e Milano una metropoli da romanzo di Isaac Asimov, lontana galassie, anni luce, nella pratica irraggiungibile. I Sex Pistols mi hanno sempre detto poco della mia vita. Ovviamente questa cosa mi fa sentire colpevole e sporco dentro e profondamente sbagliato peggio di un bambino appena violentato da un ciccione travestito da pagliaccio, ma paragonato all’impatto che hanno avuto i PiL sulla mia vita i Sex Pistols sono stati zero e questo è un fatto. Probabilmente la disgrazia (se di disgrazia si può parlare, ma io direi piuttosto il contrario) è stata aver scoperto, tramite un film – Hardware – che da solo basta a spalancare le porte della percezione come manco Mosè sul Mar Rosso, The order of death prima di God save the queen, e di conseguenza Second Edition, Flowers of Romance e Abum prima di Never Mind the Bollocks (a questo si aggiunga poi la visione di Copkiller prima di The great rock’n’roll swindle e il quadro è completo). Verso John Lydon nutro un rispetto che sconfina nella devozione e vedere per la prima volta l’uomo in una dimensione che non fosse quella di uno schermo fa un effetto strano, come vedere materializzarsi Dio se fosse vero e portasse i capelli come tagliati da Stevie Wonder e un’orrenda tunica a quadri da druido strafatto di metanfetamina e porridge. È la caricatura vivente della vecchia zia completamente andata dopo ripetute sessioni di elettroshock e parcheggiata dai nipoti in una sala Bingo in mezzo al nulla ma lo capisci all’istante che è più acuto e intelligente di quanto tutti noi messi assieme saremo mai, ha le movenze di Satana in una giornata pessima e una voce che non è mai stata così tonante e cristallina e evocativa e arcigna. Sembra Dorian Gray con la pancia da birra. Terrorizza. La musica è un groove alieno che nasce e cresce in non-luoghi tipo l’Interzona di Burroughs, un funk trasfigurato e reso scheletrico dal recente trattamento rivitalizzante, tipo la vecchia liftata di Brazil ma con una pacca che farebbe saltare anche i morti al cimitero, come una jam tra Fela Kuti e uno squadrone di androidi, in mezzo improvvisi squarci angelici di luce pura da far scappare via piangendo i Popol Vuh. Basso e batteria sono una cosa sola e il chitarrista sembra Giovanni Lindo Ferretti con i capelli lunghi e viene da pensare che c’è qualcosa che accomuna John Lydon a Giovanni Lindo Ferretti qui da noi: si può sindacare fino allo sfinimento su scelte che diresti incomprensibili (l’isola dei famosi, la pubblicità del burro da una parte, la deriva baciapile dall’altra), metterlo in discussione fino a rinnegarlo ma tanto alla fine vince lui, ha sempre vinto lui. La differenza è che Ferretti dal vivo dopo i CCCP è ben poca cosa e Lydon invece un caimano che sembra essersi sparato in vena l’elisir di eterna giovinezza: quasi due ore e parrebbe più fresco di prima di cominciare. Non avendo mai visto i PiL dal vivo prima d’ora mi sfugge il senso della presenza fissa a bordo palco, tipo piantone, di un tizio di mezza età in divisa tra il cameriere e il paramilitare; immobile, incombente per tutto il concerto, dopo i bis va via col gruppo applaudendo verso il pubblico come fosse uno di loro. Sto ancora aspettando che qualcuno mi spieghi cosa significa.

Setlist:

1. Deeper water
2. Albatross
3. This is not a love song
4. poptones
5. careering
5. The order of death
6. Warrior
7. Reggie song
8. Death disco
9. Out of the woods
10. One drop

11. Public image
12. Rise
13. Open up