Da quassù nessuno potrà più sentirci urlare

FBYC_Quassu' c'e' quasi tutto_COVER

In vita mia sono stato in montagna una sola volta. Ero bambino, non era nemmeno Inverno, non c’era nessuno della mia età, ero con mia madre e mio padre e l’unico gran lato positivo che ricordo è di aver scoperto di avere una fotofobia per tutte le due settimane che ci sono stato: la congiuntivite non mi faceva tenere gli occhi aperti se c’era luce solare e mi sono rimaste un sacco di foto in cui sembra mi piaccia un sacco l’eroina. Non ce n’è una in cui sorrido perchè mi bruciava e mi lacrimava tutto quello che stava sotto la fronte e mio padre mi ha pure ripescato da un torrente perchè ci sono finito dentro da mezzo ciecato.
Non sono più andato in montagna perchè ho paura di finire in un torrente di nuovo o al peggio di venire intervistato dal tizio di Studio Aperto con gli occhiali a culo di bottiglia di grappa Piave che mi chiede se mi sto divertendo e in caso di risposta negativa mi rincalza sul perchè cazzo non mi sto divertendo.
Sei in montagna, ti devi divertire cazzo. Non ti piace la montagna? E allora cosa ci fai qua. E se ti piace la montagna, perchè non ti stai divertendo? Si sta bene qua, non vedi come si sta bene? Scrivi qualcosa di ispirato guardando fuori dalla finestra. No. Allora vai a fare un giro che è bello fuori, non vedi com’è bello? Non mi interessa. Eppoi arriva l’inevitabile commento di qualcuno che ti gira attorno “Fai le tue cose lì, quello che sai fare meglio, tipo lamentarti”.
Come diceva Ugo Illing: se sei in montagna ti devi divertire per forza o qualcuno ti cagherà il cazzo, se invece sei i FBYC e fai uscire la Domenica due pezzi nuovi non urlati qualcuno ti cagherà il cazzo.
Quassù c’è quasi tutto sono due pezzi per sedici minuti di roba che completano l’eclissi e il gran freddo iniziati con Come fare a non tornare, l’estinzione di tutto ciò che erano i FBYC fino ad Ormai, in una svolta che è ancora più grossa di quella che era toccata prima con il cambio di lingua del cantato perchè a sto giro è cambiata la botta e si resta tutti fermi, è ufficiale. A sto giro si passa dal sentirsi vivere addosso i pezzi e a buttarli fuori facendo a gara a chi li canta a voce più alta e a testa più bassa quando c’è il giro di chitarra al “ehi, no, così fa male“. Non è una cosa che deve piacere o non piacere, non ci si deve trovare d’accordo o meno, è la trasformazione di un gruppo che ha dato-detto-fatto tanto in qualcos altro. E’ una cosa che si subisce addosso, fine della storia.
Si fa partire il disco, ci si becca due minuti di silenzio prima di iniziare a sentire quel totem strumentale di dieci minuti piovuto direttamente dal pianeta degli indiani tristi dal muso lungo che è Angoli.
Si è ostaggio di questa cosa che è più lenta e monotona e CAZZO silenziosa, ma non si riesce a fermare prima della fine. Va cambiata l’attitudine con cui ci si avvicina ad ogni loro roba di questa fase e in questo processo di distacco l’hype che avevamo coi dischi precedenti rende tutto più difficile e sì, ci ha fatto più male che bene, a tutti (leggasi “Spegniamo tutto, restiamo soli, non pensiamoci più”).
Jacopo è sempre uno dei migliori a scrivere le cose e gli va dato il merito di essere uno di quelli che sa quali sono le cose che vanno scritte e non quelle che il fan in fotta vuol sentire, che poi le due cose in molti pezzi/situazioni/dischi coincidano in modo così reale che neanche l’effetto Forer degli oroscopi è pura parte della stregoneria che ha reso i Fine Before You Came quello che sono. Meno testi e più mantra tristi, forse. Meno botta e più silenzi sicuro, poi la svolta del cantato alla Enrico Ruggeri in certe parti di Distanze è frutto dell’adattarsi a un nuovo comunicare che è hardcore in un modo tutto suo, che poi non so neanche cosa voglia dire, ma insomma non credo c’entri la figa.

Ars Goetia – La fotografia come arte del maligno

01_Striscia gialla

Siete solo degli sporchi hater, la striscia gialla c’era davvero al momento in cui venne scattata questa foto rubata a me, proprio a me, povera me, che guardacaso ero nuda sulla riva di quel lago vulcanico in Tozandia

    Cominciò con funesti segni nel cielo, la luna color del sangue, una cometa con due code, ma nessuno dette ascolto agli astrologi. Poi iniziarono le nascite prodigiose, poi si ritirò il mare. Il terzo giorno si oscurò il sole, e a sera ci venne la zeppola a tutti: la fotografia digitale era arrivata tra noi, e non se ne sarebbe andata mai più.

Voglio dire: non stiamo certo qui a farci le pippe come quel coglione di Benjamin sull’arte e la facilità del farla, se non altro perché non l’abbiamo letto né abbiamo l’intenzione di farlo [una parentesi: sapete qual è oggettivamente il libro più coglione del mondo, intendo dire, dopo Infinite Jest? Ma naturalmente è Il narratore di Walter Benjamin nella preziosa edizione Einaudi con annotazioni di Alessandro Baricco, Alessandro Baricco del cazzo che nel sottobosco della sua cazzo di scuola Holden, intitolata ora che ci penso al protagonista da cazzo di un altro libro coione non da poco, e su dai, e dìmolo, in questo ambiente velleitario e insopportabile ha – immagino – idolatrato oltre ogni ragionevole dubbio questo scritto minore dedicato a uno scrittore minore da un pensatore tutto sommato minore, e ha brigato (=rottercazzo) per farlo ristampare con tanto di sue osservazioni a margine che sono tipo del livello “Cantagliene quattro, Walter!”. Da avere!], non siamo qui, dicevo, a fare filosofia, ma non c’è dubbio che quando il gusto non esiste, e la cultura non c’è, e l’ignoranza ricopre tutto e tutti col suo nero manto d’oblio; e quando insomma un po’ ovunque il disastro avanza, le inquadrature de sbieco sono scambiate per Arte, e come se non bastasse il delirio tecnologico ha messo alla portata di chiunque la possibilità di scattare e post-produrre (manco sempre, manco troppo) fotografie  – ecco che arriva per noi una suprema ragione di fastidio, e forse, finalmente, una non dovuta al nostro complesso di inferiorità.

Sto parlando, se non si è capito, della fotografia demmerda, di flickr del cazzo, e di un mondo fatto di cappelli di peluche e scampoli di infantilismo e computer grafica 8-bit  e un tocco di Preraffaelliti (ma appena appena, diciamo un superficiale apprezzamento delle donne coi fiori in testa); sto parlando di donne magre, a volte non magre, a volte uomini, che si vergognano di sé, eppure sentono forte il bisogno di esprimere questo minuscolo sé, e offrono perciò a tutto il mondo fugaci visioni dei loro piedi, delle loro scarpe, delle loro mezze facce e dei loro abbigliamenti bizzarri. A volte si intravede una stanza, e se si intravede c’è da qualche parte un antico cavalluccio a dondolo, o dei fiori morti, o delle cornici vuote o tutte e tre le cose, uno scenario manco da film horror che a un certo punto, pare, abbiamo deciso faccia tanto romantico abbandono artistico e nonchalance, piuttosto che oddio, quel vecchio pupazzo si animerà e prenderà la mia vita nel punto più buio della notte.

Io non lo so da dove arriva questa cosa, chi sono stati i cattivi maestri, e chi i pubblicitari di questa estetica. E se ho dei sospetti ben fondati in letteratura (il pedofilo Salinger e, giù di lì, il nullatenente Carver e via via praticamente tutto ciò che ha pubblicato Minimum Fax nei suoi anni ruggenti) e tutto sommato anche in musica (lì il problema fondamentale è stato l’indie-rock dei tardi anni ’80, per non dire Neil Young), mi sfugge ancora chi e cosa e su quali basi abbia convinto una manica di stronzi che la fotografia è la cosa, l’iPhone un progresso, e la loro strada nella vita sono le inquadrature bizzarre. Ho letto un libro tempo fa (solo perché era breve), Ways of Seeing di John Berger, che teorizzava tutta una pippa marxista sul fatto che i quadri servono a fa’ vede che sei ricco, e da qualche parte accennava al fatto che la fotografia è la pittura a olio del ventesimo secolo. Molto peggio John, molto molto peggio. Qui non siamo più neanche al punto di chiamare a casa un tizio, un pittore o un fotografo, che rappresenti con una certa perizia tecnica quanto sia bella casa mia. Qui siamo al fraintendimento totale del fatto che c’è un bello anche nella sottrazione, anche nel vuoto e nel poco, e alla sopravvalutazione devastante del “fare da sé”, della non-necessità di una formazione di qualsiasi tipo, anche solo di un pochino di cultura, e il lato forse peggiore è che esistono pure degli esempi di gente che in effetti ha fatto qualcosa di importante senza alcuna preparazione: ma se Steve Jobs non era laureato questo non vuol dire che chiudendovi in garage progetterete un computer tondeggiante e un telefono costoso che terranno in pugno il mondo. Voi siete i tenuti in pugno, capite? Voi siete gli acquirenti e i clienti di un sacco di cose che pagate un sacco di soldi che vanno a finire in operazioni trucide. Dietro a ogni multinazionale, ricordatelo bene, c’è in realtà una ditta di sterminio di cose carine. Gli schermi dei dispositivi Apple sono così lucidi perché vengono sciacquati uno ad uno nel sangue dei micetti. I cagnolini li utilizzano per rendere più scorrevoli le rotelline dei mouse. Mouse che sono veramente fatti di topo – di delizioso topo bianco, di amabile cavia, in alcuni casi, o di teneri e batuffolosi piccoli di scoiattolo.

Ma non ho smesso di insultarvi. Voi fotografi amatoriali, voi attrezzi che infestate le bancarelle del mercatino del Pigneto manco pe comprà, ma per fotografare le bancarelle con effetti rétro, voi siete l’incolta, orrenda stirpe figlia di questo mondo di dolore, andato completamente in rovina perché si è auto-educato su internet, si è informato su twitter, e si è sfondato di telefilm americani autoconvincendosi che tutto questo sia importante, significativo in qualche modo, “le serie tv sono l’equivalente contemporaneo della pittura nella Firenze del Rinascimento” è il sottotesto di un recente articolo apparso su Esquire.

Ed ecco per voi una serie di cose che non servono a un cazzo, non interessano a nessuno o forse sì (a voi stessi), ma mai e poi mai e ancora mai vi qualificheranno come artisti, o anche solo come persone: Parigi; Parigi e i suoi vecchi negozi; Parigi e un bicchiere di pastis in un vecchio locale dal tavolaccio di legno, come quello della famosa foto di Verlaine vecchio rincoionito; gli stivaletti da educatrice di Lovely Sara; Lovely Sara; il recupero dei cartoni animati in chiave non fuorisede-Toretta ma gnìgnì-gnègnè; le serie tv; i vecchi apparecchi televisivi; i registratori fisherprice; i mangianastri; i mangiadischi; Susan Sontag; Susan Sontag e i suoi capelli da puzzola; Susan Sontag e la bellezza e la fierezza di non essere belle bensì fiere e perciò belle; il vinile fine a se stesso tipo: il nuovo dei Knife in vinile; la magrezza maschile; le magliette aperte sul petto; il vestirsi come un barbone e illudersi di non sembrarlo in zone altre dal piccolo tratto pedonalizzato di Via del Pigneto; il Pigneto; le parole off e hip; il dialetto romano; i ghirigori fatti col pc; le strisce di colore insensate; gli effetti di Instagram; Instagram; tutta la musica, tranne che quella che non vi andebbe mai di sentire. Ora, che di tutto ciò non vi importi nulla ne sono più che certo – in centoquaranta battute non avevo detto ancora neanche solo una parolaccia. Il bene ha perso di nuovo. Gli occhietti degli ex-scoiattoli vi guardano dalla plastica bianca del vostro mouse e, come al solito, non c’è nulla che si possa fare.

Ecco la fotografia che ci piace a noi, tutte persone ciccione e tornite, tutti colorati di colori pacchiani, coi putti nudi sullo sfondo e la cornice d’oro zaura

E’ ancora il weekend in cui c’è Sasha Grey in Italia quindi questo pezzo parla di dischi in cui hanno campionato la gente che si masturba

Yellow_Trash_Bazooka_-_The_Gerogerigegege

L’interesse forzoso per la FIGA CHE METTE DISCHI IN POSA INTELLETTUALOIDE sta dominando l’insensato attention span del mondo del clubbing italiano del fine settimana, ce ne siamo accorti. “Attention span” e “clubbing” sono le prime due pippe di questo pezzo, ce ne saranno altre metalessicali e metamusicali (se uso un’altra parola del tipo meta-qualcosa allora contatela come pippa anche questa, è tipo la terza sgrullata dopo aver pisciato). Prima inizio a difendermi di gomito dopo un passaggio e un arresto, sono in post alto a 5 metri dal canestro e allontano le vostre manate di “ma ancora?” premettendo che un’immagine virale di Sara Tommasi con in mano un libro di Kapuscinski e la maglietta dei Converge non avrebbe generato la stessa patina di curiosità-per-il-già-visto. Ma neanche se mettessimo Michelle Ferrari al posto di Sara Tommasi nella frase di prima -e quello che scrive è più fan di Michelle Ferrari che di Sasha tanto per dire-. Comunque il dato oggettivo è che l’associazione di idee più congrua e fruttifera delle ultime 72 ore è quella tra SASHA:MUSICA-NOISE:SEGHE, ce lo confermano dei sondaggisti in impermeabile marrone da pervertito sull’argine del Po ad altezza di Mazzorno Destro. Perciò, tolta Sasha dalla proporzione lì sopra perchè il pezzo di Kekko spazza via ogni altra cosa mi interessi leggere sull’argomento e perchè i nomi di pornostar ivi inseriti sono una palese gabola per incrementare i search, allora vado avanti parlando solo di SEGHE e NOISE e da quì si arriva ai Gerogerigegege nella figura di Juntaro Yamanouchi.

Consultando gli almanacchi dei luoghi comuni che ho sotterrato in giardino si può dire con certezza critica che i giapponesi sono i maggiori esportatori di noise malato e cultura sessuale discutibile, entrambe le cose lungo una tangente di umiliazioni corporali che nel caso di Yamanouchi-sensei diventano un tutt’uno indivisibile, inascoltabile, sgradevole ma assolutamente invidiabile per sperimentazione e spessore.
Immaginatevi la Shinjuku di metà anni ’80 (quella di Ryo Saeba, dai) abbastanza fedelmente raccontata da un Murakami a caso, però girate in fondo a destra dove c’è il vicolo che puzza di merda e troverete lo studio di registrazione-barra-stamberga del cazzo coi soffitti bassi dove è nata l’idea di far partire un’intera scena harsh (tacca, conta come pippa anche questa) basata sulla fusione dell’atto sessuale in solitaria o in discutibile compagnia e i droni: una scena peraltro floridissima nelle derive, imitatori e successori non solo in Giappone. Si tratta per lo più di gente che non sta bene di testa che ha lasciato un segno anche a livello di semiotica di titoli e copertine, con cazzi mozzi serigrafati sui vinili, bukkake come cover di dischi, lotta per i diritti degli omosessuali o scherno estremo dello stesso orientamento per overcompensare.

Si parlava di registrazioni e umiliazioni corporali perchè la leggenda vuole che Juntaro Yamanouchi chiamasse amici e amiche registrandoli dopo aver porto loro oggetti di varia forma e calibro da infilarsi dove più gli aggradava, la sublimazione del corpo umano nell’atto della grande vergogna (per la cultura del Giappone di quel tempo e spazio) in uno strumento musicale anatomico, più che analogico. La divisa d’ordinanza duranti gli show dal vivo del progetto Gerogerigegege prevedeva Juntaro nudo come un verme che schiacciava play da qualche parte, dava qualche giro di percussione a caso e poi giù di mano.
Dato che abbiamo parlato di scena florida e di seguaci numerosi (il riferimento anche a nomi blasonati come i primi Boredoms lo lascio implicito) è d’obbligo ritagliarsi una decina di minuti (all’anno o nella vita) per citare il progetto di Masaya Nakahara: Violent Onsen Geisha, forse il più brillante e riconosciuto virgulto depravato e citazionista -o riciclatore, come nella migliore tradizione di grinding-culturale giapponese- ad essere uscito dalla ghiaia bagnata della Tokyo brutta.

C’è quel disco lì sopra che si chiama Shocks!Shocks!Shocks!, per me introvabile a livello fisico e temo sia roba da ultracollezione (spero qualcuno mi smentisca e mi posti un link per comprarlo), che è il seguito temporale e logico del caposaldo Otis, che arriva dall’anno di grazia 1993 ed è il manifesto di quell’indole da svuotatore di cantine rappresentata dal buttare su droni e feedback su vecchie glorie della Motown: per me un capolavoro assoluto, si discosta dall’ambient tipico di Otis e degli altri dischi di Nakahara e sfocia in roba che ha fatto scuola, ve lo potete ascoltare direttamente su youtube se vi va.

Si va avanti negli anni arrivando a metà dei novanta con il progetto MASONNA di Yamazaki Takushi che continua la tradizione lercio-volgare giapponese però stavolta da Kyoto, quindi aria da antica capitale, mignolo alzato bevendo il sakè e solito contesto semantico di titoli e copertine che parlano di slunghe, orgasmi, rapporti con animali e cose così. Si potrebbe fare un trattato antropologico e sociologico di centocinquanta pagine sulla concezione della sessualità giapponese e gli sfoghi artistici che prendeva eppure ad un certo punto credo si arriverebbe ad includerci dentro anche questo album –Ejaculation Generater– credo.
L’altra cosa bella che aveva tutta questa scena è che ogni gruppo, progetto, deviatone che pubblicava qualcosa aveva in repertorio almeno una decina di cover neanche male. Ve ne snocciolo alcune se cliccate a caso, le prime non sono neanche sicuro se siano davvero cover ma è il pensiero che conta.

Per ultimo e per cambiare continente, anche se in linea d’aria più o meno siamo lì, ho tenuto una delle mie band preferite: gli SMEGMA direttamente da Portland, Oregon, dove non c’è molto altro a parte i Trailblazers da ricostruire e la sitcom con protagonista Carrie Brownstein che spiega abbastanza bene il luogo comune secondo cui tutti i folli della ‘MURICA peggiore finiscano o siano nati lì. Gli Smegma, tra le altre cose, mi pare abbiano fatto un tour insieme a Violent Onsen Geisha e secondo me c’era un sacco di figa ai concerti.

Credo sia ridondante ormai sottolineare il fatto che questo intero pezzo che ho scritto in una ventina di minuti è di per sè autoerotismo.

Tosca – Odeon

tosca_odeonElettronica downtempo, di quella austriaca fumatissima che andava nel 98/99 e che era giá vecchia nel 2003 – ha senso nel 2013? E poi, che cazzo di copertina è? Degna di gente che chiama un brano “Cavallo”.

SANREMO giorno 2 – Uno stanco report per uno stanco festival

HIP FAIL 4

Me ne vado per le strade
strette scure e misteriose
vedo dietro le vetrate
affacciarsi Gemme e Rose
Dalle scale misteriose
C’è chi scende brancolando
dietro i vetri rilucenti
Stan le ciane commentando

 La leggenda vuole  che, se a mezzanotte ci si mette davanti allo specchio, con la luce spenta, e per tre volte si ripete “Bloody Mary”, si vedrà apparire dietro di sé questa edizione del festival di Sanremo.

Vero e proprio romanzo criminale di un paese allo sbando, il Festival 2013 altro non è che il tentativo di un manipolo di Bolscevichi di mettere le mani sul paese stesso, conquistando l’avamposto del più rappresentativo dei suoi show televisivi. Tentativo già fallito in partenza, perché se già l’altra sera numeri come quelli di Silvestri, di Crozza e dei Marta sui Tubi avevano smosciato le palle a tutti – rivelando il segreto di Pulcinella di un’Italia intimamente e sinceramente berlusconiana, o perlomeno non più indignata a getto continuo, e stanca della infinita ripetizione della stessa battuta, che ha ormai sconfinato fino ad occupare i più sacri spazi di intrattenimento leggero che ancora rimanevano alla povera gente – la serata di ieri, dominata da una Bar Refaeli gigantesca  e brutta in culo (e pagata molto per esserlo: a me, per essere brutto in culo, hanno sempre dato molto poco), ha dato il colpo di grazia.

Un festival intelligente è la sconfitta di tutti, perché l’Amore è l’unica vera rivoluzione (ormai vado a parole random) e perché caricare di significato sociopolitico la terra delle canzoni è un atto brutale come l’esecuzione di Zoe Kosmodemyanskaya (INTERNET ALERT! Non cercaresugoogle se si vuole evitare la visione di fotografie d’epoca alquanto macabre). Ma non voglio star qui a ripetere sempre la stessa cosa, come se fossi un comico di sinistra, e perciò passiamo al lavoro per cui siamo pagati, cioè scrivere di musica.

Scrivere di musica, e che cazzo te voi scrive de musica se di musicale, stasera, non abbiamo avuto che qualche minuto di Modà, qualche verso del Cile? Aspettavo con ardore l’esibizione dei BLASFEMA, tra i giovani, per poi scontrarmi con l’evidenza che in realtà si chiamano Blastema, non Blasfema, e non fanno black metal come previsto, ma una sorta di ipocrita versione dei Sonhora ulteriormente peggiorata. Cile a parte, comunque (Il Cile è un ex spacciatore latinoamericano, da cui il nome, che fa un onesto death’n’roll passionale alla Built to Spill – regolarmente eliminato, è ovvio) , i giovani sono un disastro, ormai del tutto permeati da una vena di hipster-indie-rock passatello (che ne so, per farsi un’idea, i giovani cantautori italiani oggigiorno cantano tutti un macro-genere che è una sorta di Beth Orton più Neutral Milk Hotel con Al Bano al posto di Jeff Mangum più Wilco con Gianna Nannini al posto der rompicoioni alla voce). Fa abbastanza schifo con decisione questo Rino Gaetano, no, Renzo Rubino, che se non ho capito male canta un pezzo di amore omosessuale, e perciò il pubblico lo vota in massa senza neanche far caso al suo stile Bocelli meets Anna Tatangelo but worse, e comunque in finale, oh, sempre meglio di Elio e le Storie Tese.

Elio e le Storie Tese, con i soliti costumi (e basta!) che il loro gusto prog-riccardone gli impone, arrivano attesi come i God Seed a Wacken, e propongono – indovina un po’? – due pezzi prog-riccardoni che non funzionerebbero in quanto tali e vengono perciò celati da una patina di ironia pre-adolescenziale, la stessa dal 1990 credo, quando però due cose erano diverse: nessuno li considerava dei Grandi della Musica, e comunque noi avevamo dodici anni tipo, quindi basta, per pietà, dategli sta cazzo di palma d’oro e non se ne parli più. Sempre che il primo posto non vada a Malika Ayane, che si presenta anche lei vestita da pupazzo, anche lei munita di un pezzo del genere “gradito al pubblico” (che, oltre alla scemenza d’accatto tipo Elio, sembra amare molto i barbiturici musicali cantati da voce femminile mongoloideggiante), ma con il surplus di cazziare in diretta Fazio che sbaglia a pronunciare il suo nome – Fazio che para abbia commentato “A chi te se ncula, pe me i negri so negri”, ma gli hanno tolto il microfono e così ha vinto lei.

Per il resto, cos’altro è succeso? I Modà avevano due pezzi onesti ma meno incisivi del solito (il genere era ballad crepuscolare vagamente psych, tipo diciamo un Nick Drake cresciuto però nella Düsseldorf dei Kraftwerk anziché a Cambridge, e non il solito power pop alla Big Star che però gli viene meglio); Max Gazzè sembrava Max Gazzè, con una filastrocca veloce e intellettuale e un po’ elettronica. Il resto era quanto di peggio: c’era una tale Annalisa che non giudico (non mi abbasso a giudicare i cantanti che non conosco; comunque, succintamente, faceva quella musica che tutti definirebbero “carina”, cioè faceva schifo), c’era il tizio che canta One day baby we’ll be old, talmente one hit wonder da cantare per DUE volte il pezzo, c’erano gli Almamegretta che sono esattamente il genere di gruppo che disprezzo, Vabbuò uagliò che facimm per ‘o rilancio a Sanremo?, Sient’amme, Raiz, facimm nu pezz’ reggae in napuletan’, uguale identico a tutti gli altri, ma non solo agli altri nostri, eh, proprio uguale uguale a tutti i pezzi reggae in napuletan’ che s’ashcoltan i fuorisede a ‘o Villaggio Globbale; c’era Cristicchi che pareva un mentecatto, forse lo era, e stonato e insicuro ammorbava una nazione con la storia trita e ritrita di uno che muore, va nell’aldilà, e l’aldilà è tutto Pasolini e centrosinistra e vecchi partigiani che gli chiedono se i giovani hanno cambiato il mondo e lui si imbarazza e non risponde. Giuro. E io qui lo dico e qui lo nego: a partigià, lo potevate fa’ bene er lavoro se poi ve dovevate lamentà!

Dimentico qualcosa? Forse sì, non so. C’era Carla Bruni, ma di questo per contratto non parlo (Bastonate è fornitore della Repubblica Francese).  Ecco la nostra classifica ad oggi: Marco Mengoni, 7; Maria Nazionale, Modà, 6; Max Gazzè, 5; Marta sui Tubi, 3; Raphael e Chiara Gualazzio 2; Malika Ayane 1; Daniele Silvestri, Almamegretta, Molinari-Cincotti Duo, Cristicchi, Elio e le Storie Tese 0. Annalisa non giudicabile.

Me ne vado per le strade
strette scure e misteriose
vedo dietro le vetrate
affacciarsi Gemme e Rose
Dalle scale misteriose
C’è chi scende brancolando
dietro i vetri rilucenti
Stan le ciane commentando

Sanremo Natzione – Road to Il Festival della Canzone Italiana 2013

Isso

Bisiongiada a suffriri po imbelliri

L’Italia è il paese che amo. No, davvero: quando vedo quelle facce di bimbi sardi posteggiatori nella Roma degli anni cinquanta o sessanta (ho visto un documentario su questo, sabato o domenica: massimo e rispetto e carineria totale per questo ragazzino emigrato dalla Sardegna, libera e fiera, a Roma, volgare e corrotta. Romani popolo di stronzi, molli e senza palle. Sardi uomini veri, sardi guerrieri, sardi eroi. Se l’America facesse la guerra alla Sardegna, rimarrebbe impantanata peggio che in Afghanistan. Lo sbarco dei Marines ad Arbatax. La breccia di Tortolì, l’apparente vittoria. E poi gli ISSOHADORES che al grido di ABARRA CUNFETTAU piombano sugli yankee sgomenti al passo di Talana; l’agguato, la fuga disordinata verso la trappola di Urzulei; gli spiriti delle montagne che assistono silenti e segreti al massacro – sa morte non jughet ojos – e la Sardigna Natzione, ancora e per sempre inviolata, che si richiude su se stessa), quando vedo i bimbi sardi, insomma, o la buona e brava gente della nazione che la domenica ad Ostia – così, senza verbo -, e si vede nei documentari la Via Appia com’era, il pane con la frittata, quanto abbiamo riso quanto abbiamo pianto con Macario, Tenacious Umberto D., e i mulini del Po, quando vedo o penso a tutto questo, insomma, mi pacifico nell’idea di un paese non necessariamente brutto e assurdo e vergogna d’Europa, coi suoi cineasti disoccupati e le tensioni sociali, e i Baustelle che si potrebbero vendere all’estero e la ruga della Fornero assetata del sangue dei vecchietti. Questo paese non esiste più – ucciso dal ’68, da Tangentopoli, dai telefoni cellulari ; questo paese tuttavia avrebbe ancora un piccolo spazio, quello del palco dell’Ariston, se non che lo Stato Ladro Bastardo e Porco, nemico di noi giovani, vuole toglierci anche questo.

Il programma del Festival di Sanremo 2013 è quanto di peggio si possa immaginare, è un vero attentato a tutto ciò che siamo, e questo a partire dall’incarico di conduzione affidato a Fabio Fazio. Fazio, roito umano, disprezzabile falso-buono che al grido di SORTE CURREDE E NON CUADDU, no, che dico, scusate, al grido di LA MUSICA DI NICCHIA entra a gamba tesa sui nostri ricordi e mette di fatto una fascetta con una frase di Roberto Saviano sulla copertina del nostro concorso musicale. Il programma è naturalmente risibile, del tutto spogliato della CANZONA e della ROMANZA, e prevede una infilata di soggetti vecchi nel 1996 (Daniele Silvestri, gli Almamegretta, Max Gazzè) o, se va bene, nel 2002 (Marta Sui Tubi), e ancora quei riccardoni rottinculo cacata infame merda morte male di Elio e le Storie Tese, scorregge jazz (Raphael Gualazzi, cioè uno di quelli di cui si dice ELEGANTE) , una esponente della female mongoloid-wave italiana (Malika Ayane) e quel bambacione di Cristicchi, i cui capelli phonati gli sono sufficienti per essere considerato intellettuale (sono l’unico a ricordare che tipo Wire, anni fa,  in un giorno in cui evidentemente avevano finito la birra e dovettero ubriacarsi di piscio, dette tipo SETTE al primo album di Cristicchi? Io non so se questa cosa me la sono solo sognata – temo di no -, ma che non leggo più Wire è un fatto). Completano il quadro strani tizi che non conosco – quindi vengono dai reality, e tra di loro bisognerà cercare il vincitore (se non sarà Elio) -, e unici passabili tale Maria Nazionale, il cui aspetto da vaiassa promette un pezzo come si deve, e i Modà con il loro cafard-rock di cuore.

A rendere tutto ancora peggiore, il fatto che – apprendo da Wikipedia – ogni concorrente eseguirà anche un BRANO scelto tra i GRANDI BRANI del passato, e gli abbinamenti sono tutto un brivido lungo la schiena, tipo abbiamo Daniele Silvestri che rifà Dalla perché si pone a erede di Dalla (appena morto e gay, giù applausi, qualcuno si alza, si alzano tutti); gli Almamegretta che rifanno Celentano, perché a sorpresa e comunque eredi di Celentano (appena morto e gay, giù applausi, qualcuno si alza, si alzano tutti); Chiara Galiazzo (DA FUCQ?!) che rifà Mia Martini (morta e mai dimenticata, grande Mia, vai Mia, che strazio, giù applausi, qualcuno si alza, si alzano tutti); Elio e le Storie tese che rifanno Un bacio piccolissimo (che eleganza, che riscoperta, ecco il piccolo mondo del cabaret, ecco le influenze della Musica Migliore, giù applausi, qualcuno si alza, si alzano tutti);  Maria Nazionale che rifà Perdere l’amore (omaggio a Napoli e alla sua solarità, Napoli è Napoli, terra della canzone,  giù applausi, qualcuno si alza, si alzano tutti); e così via, giù giù fino all’ecatombe di Marco Mengoni che rifà Tenco, la canzone del festival a cui si sparò, che è insieme brivido e lacrima, un ritrovarsi e un commiato, addio piccolo principe, grazie, ciao Tenco, arrivederci Tenco, ciao Luigi ciao.

Sotto i peggiori auspici, tra poco inizia il Festival della Canzone Italiana. Noi ci saremo. E che il Dio del melodramma abbia pietà dell’anima nera di Fazio.

Ma, sebbene verso la fine della battaglia gli uomini sentissero tutto l’orrore della loro azione, – con gioia avrebbero voluto smettere, – la forza dei malloreddus, incomprensibile e misteriosa, continuava ancora a condurli, e gli artiglieri, madidi di sudore, macchiati di polvere da sparo e di sangue, rimasti vivi nella proporzione di uno a tre, pure incespicando e ansimando per la stanchezza, portavano le munizioni, caricavano, puntavano, davano fuoco alle pecore; e i proiettili sempre nello stesso modo, rapidamente e spietatamente, volavano dalle due parti e straziavano mamuthones e issohadores, e continuava a svolgersi quell’opera terribile che si compie non per volontà degli uomini, ma per volontà di Colui che regge le sorti degli uomini e dei mondi. Chi avesse guardato le retrovie disordinate dell’esercito sardo, avrebbe detto che, se gli americani avessero fatto ancora un piccolo sforzo, l’esercito sardo sarebbe scomparso; e colui che avesse guardato le linee retrostanti degli americani, avrebbe detto che se i sardi avessero fatto ancora un piccolo sforzo, gli americani sarebbero stati perduti. Ma né gli americani né i sardi fecero questo sforzo, e la vampa della battaglia si spense lentamente

La rubrica pop di Bastonate: la recensione degli H-Blockx AKA considera che l’aragosta ha le sue ragioni perché ha avuto un caciucco incident dopo aver ascoltato ‘sto disco

Questo slideshow richiede JavaScript.

Chiariamo subito una cosa (prima che io perda inesorabilmente il filo del discorso): nel 2012 un nuovo disco degli H-Blockx è come Biagio Antonacci col tamburello in mano che viene pagato dalla regione Puglia di Nichi Vendola per girare un video in Salento d’estate dopo essere stato ricoverato a Forlì con un salame nel culo a capodanno. Anzi no, è come Giorgio Panariello che, ospite a Che Tempo Che Fa di Fabio Valium Fazio, sfodera una spilla con falce e martello al bavero della giacca dopo aver lavorato a Mediaset di Berlusconi appena l’inverno prima (tra l’altro Giorgio Panariello son quindici anni che non fa più ridere, più o meno come gli H-Blockx – che almeno si erano sciolti o ben più probabilmente erano spariti in Italia pur continuando come se nulla fosse in Germania, ma questo è un discorso che approfondirò i seguito o forse non approfondirò mai perché di Panariello me ne frega poco o nulla). Un tentativo di rifarsi una qualsivoglia verginità, sfruttando successo avuto anni prima contando sul fatto che il pubblico nel frattempo abbia dimenticato o magari per via del cosiddetto ricambio generazionale ci sia un pubblico nuovo che non sia a conoscenza di cosa sei stato e da dove sei venuto. Ah, la tauromachia! Ah, gli anni novanta che quindici/vent’anni dopo ritornano a galla come una pietanza digerita male (magari un risotto al curry dell’indiano take-away)!

Ma (dico io, che nel frattempo ho già perso il filo del discorso e sto scrivendo col pilota automatico come Otto in L’aereo più pazzo del mondo)(tra l’altro in quel film faceva una comparsata pure Flea dei Red Hot Chili Peppers, dunque si torna inevitabilmente agli anni novanta che ritornano a galla come una pietanza digerita male – magari un Chinese Take Away come cantava Mao post-sbornia da successo feat. Andrea Pezzi, praticamente anni novanta digeriti male come se piovesse), che senso hanno oggi gli H-Blockx? Avevano un senso allora? Ma, soprattutto, erano così famosi allora da giustificare una loro reunion oggi, considerando che in realtà non si sono mai sciolti ed hanno continuato a fare cose nel disinteresse generale? Un disco che in Italia ha avuto un buon successo nel 94/95 trainato da una copertina con uno squalo (ci arriverò) e da un singolo come Risin’ High con un video che neanche i Green Jelly, ospitate a Videomusic in programmi pomeridiani condotti da Paola Gennaro Maugeri con i capelli blu e dal Kaimano e null’altro (tra l’altro a quel programma si presentarono senza cantante perché si era fatto malissimo dopo aver fatto stage diving, altra cosa veramente so 90’s). Dunque, non erano così famosi e non hanno fatto nulla di così memorabile da giustificare una reunion/riapparizione in un’epoca in cui si riuniscono Smashing Pumpins e Soundgarden in nome del botto commerciale avuto con due dischi usciti più o meno contemporaneamente a quello degli H-Blockx (del quale tra l’altro non ricordo il nome, ma non perdo nemmeno tempo a fare ricerche su Wikipedia perché di Panariello me ne frega poco o nulla – per la cronaca si chiamava Time To Move ed era un disco minore se visto in prospettiva e confrontato con ciò che girava all’epoca, però ci piaceva assai). Magari in Germania erano così famosi e lo sono stati pure dopo Rising High, ma in Germania è riuscito ad entrare in classifica pure un mio compagno di università con un pezzo techno-hardcore (con tanto di imbarazzanti ospitate nei programmi dance di Viva, of course), dunque il mercato tedesco non fa poi così tanto testo e quasi quasi ha ragione Berlusconi quando dice che la Germania dovrebbe uscire dall’euro perché la Merkel è una culona inchiavabile e gli H-Blockx sono stati nient’altro che una one hit wonder figlia di anni in cui ci siamo bevuti di tutto, perfino Biohazard, Dog Eat Dog e Giorgio Panariello (che erano ben altra cosa rispetto ai nostri), senza renderci conto che guardando le cose in prospettiva ci avremmo riso su (mi ripeto tanto per incasinare le cose e far saltare definitivamente i nervi all’eventuale lettore: tra l’altro Giorgio Panariello son quindici anni che non fa più ridere, più o meno come gli H-Blockx – che almeno si erano sciolti o ben più probabilmente erano spariti in Italia pur continuando come se nulla fosse in Germania, ma questo è un discorso che approfondirò i seguito o forse non approfondirò mai perché di Panariello me ne frega poco o nulla).

Torniamo a bomba al disco e smettiamo di farci seghe mentali: come suona HBLX? Suona come se una cover band da birreria – una di quelle tristissime che fanno cover dei Led Zeppelin tra una birra ed un panino, per intenderci – decidesse di svoltare iniziando a cercare di suonare disperatamente anni novanta, con tutti i cliché del caso: chitarre aggressive ma non troppo, pezzi strofa-ritornello-strofa, rappato alla terza traccia, basso che pompa, sei alla sesta traccia ti sei già scordato delle precedenti, alla ottava vorresti spegnere ma devi pur finire la recensione, il disco finisce ma ci riprovi, inizi da capo ma dopo il rappato della terza traccia esci e vai a fare spesa, ascoltando tra l’altro cose completamente diverse durante il tragitto in auto. Zero originalità, tutto è ai limiti del plagio dei Red Hot Chili Peppers (ed in misura minore e/o estemporanea anche Rage Against The Machine, Faith No More, Sugar Ray e –  la butto lì – Ugly Kid Joe) ed i suoni sono proprio quelli di una cover band dei Led Zeppelin (e dunque più vicini a Biagio Antonacci che alla storica band inglese), il che rappresenta un’aggravante dato che i Led Zeppelin hanno utilizzato uno squaletto appena pescato per sollazzare una groupie dopo un concerto mentre Biagio Antonacci l’hanno ricoverato a Forlì con un salame nel culo anche se la gente comune non ci crede; il fatto che gli H-Blockx avessero guarda caso messo uno squalo sulla copertina di Time To Move forse non significa nulla ma almeno serve a chiudere il ragionamento che avevo aperto due capoversi (o capiverso) fa e ciò mi rende estremamente felice (tra l’altro l’episodio del ricovero a Forlì con un salame nel culo è un po’ il jumping the shark della carriera di Biagio Antonacci, ma a questo punto mi fermo perché mi gira la testa – qualunque cosa possa voler dire l’espressione “jumping the shark” nel 2012, qualunque cosa possa voler dire il fatto che gli Extrema erano la backing band di Biagio Antonacci 1998 circa ma non l’hanno mai dichiarato a Metal Shock o a Metal Hammer perché il fatto di essere stati la backing band di Biagio Antonacci è un po’ il loro jumping the shark).

Chissà se sono felici anche gli H-Blockx. Chissà se ci credono o se stanno semplicemente cercando di rimanere a galla (potrebbe tornare minaccioso il discorso dello squalo e del salame nel culo, ma cerco di soprassedere perché il tempo a disposizione sta scadendo). Chissà se si rendono conto che nel 2012 se ne sono usciti con un disco che probabilmente non vale manco la pena di scaricare, perché se lo scarichi poi lo cestini senza manco scaricarlo o ben più probabilmente lo conservi in nome di un (tuo, ma anche della band) passato che purtroppo mai più ritornerà – figuriamoci acquistarlo. Poi, per carità, ognuno faccia ciò che vuole, ma vedendo come si trascinano band come gli H-Blockx a distanza di quindici anni dal botto vien quasi da pensare che all’epoca avesse molto più senso seguire il Deejay Time di Albertino con tanto di sparajingle piaac – cosa che tra l’altro io facevo con gran gusto nel caldo rifugio della mia cameretta, negandolo però in pubblico per non avere ripercussioni sul mio grado di prestigio socio-politico. Il fatto che dopo Time To Move gli H-Blockx se ne siano usciti addirittura con una cover di The Power degli Snap (con relativo, prestigiosissimo featuring di Turbo B in carne e minchia) sta giusto lì a confermarlo implicitamente, anche se mi dicono dalla regia che all’epoca gli H-Blockx stavano agli Sugar Ray come i Blur stavano agli Oasis ed io devo per forza essermi perso qualcosa.

(Ill Bill Laimbeer takes the m/f keyboard, surgela e vi vende il pezzo di Accento Svedese a tranci al mercato ittico di Natale, come fosse una cernia pescata da una paranza di Torre Lucia Annunziata o come il colonello Nunziatella Cacarello di Spaceballs)

Chiariamo subito una cosa: ogni pezzo deve iniziare che io riprendo quello di Accento Svedese e non c’è vià di scampo, è una scelta di campo che ritorna scelta di campo, o scelta di campus alla mela verde, anzi ancora una scelta di scampo che è quella di parlare di salami e voglio essere come Biagio Antonacci che si è giustificato dicendo che voleva omaggiare il salame di Jacovitti ma non ci crede nessuno, se lo ha detto yahoo answer! Deve essere per forza così che stanno le cose.

Il disco nuovo degli H-Blockx non l’ho ascoltato, avevo quelli vecchi nel freezeer da dieci anni e li ho scongelati perchè mi son reso conto che la chiave per capire certi fenomeni kulturali (con la k come Kossiga o meglio Klu-Klux Cozza, il mitilo razzista che è una sopresa kinder della serie delle cozze che è stata ritirata dal mercato e ora su ebray si trova a tantissimo: e io mi chiedo, perchè non hanno ritirato dal mercato Kozza Nostra, il mitilo mafioso?). Ho capito che la chiave di tutti i dischi pop come quello post-reunion dei Litifiba e questo degli H-black box (inteso come il gruppo italiano dei black box ride on time) sono o i pesci o i crostacei, lo disse Kurt Cobain e lo ribadisce Paola Maugeri che potete vedere nella foto che è ok mangiare il pesce e i crostacei anche se sei vegetariano e il salame ti piace gustarlo come Biagio Antonacci (che era assieme alla figlia di Gianni Morandi e si son lasciati in seguito ad una diatriba se sia meglio il caviale alla Morandi o il salame o i crostacei) godendo così della stima dei miei simili e per quanto sia nostalgico non sono stato mai da Paolo Limiti I limiti che ho li riconosco, sono cappuccetto rosso perso in questi sottoboschi artistici: perchè lo so mi vuole bene questo pubblico di nicchia, ma io mi sento piccolo come una lenticchia.

Insomma dicevamo: per parlare anzi scrivere dell’ultimo degli Eis Skank Block Bologna basta scongelare i dischi usciti fra il ’94 e il ’98 e sei già apposto, basta vedere il video di Risin High dove c’è (e ancora una volta qui torniamo) una aragosta che fa turntablism e gli scratch su un riff di chitarra per capire tutto non solo del disco nuovo e per cogliere al volo l’occasione manco fossimo ai grandi magazzini. Che poi non è solo questione di crostacei ma anche di pesci (o erano mammiferi) come delfini, tonni e sopratutto squali: gli h-blockx se li ricordano tutti per la copertina con lo squalo e allora non è un caso se sono stati copiati, anzi non copiati ma omaggiati, citati, plagiati ma situazionisticamente parlando da Elio e Le Storie tese e appunto dai Litfiba che non a caso hanno dichiarato di “essere lo Squalo” nel loro grandioso ritorno dell’anno scorso (e noi di Spadrillas torniamo solo quando si tratta di tornare col botto, anzi di tornare con la salma in salmì di Gianni Budget Bozzo, che ovviamente surgeleremo dopo averlo scongelato per venderlo a tranci al mercato di Natale, anzi al mercato Pasquale inteso come Pasquale Bruno detto ‘o animale: vaglia postale, fistola anale etc etc). E’ non è un caso che l’album dei Litifbia sia uscito in versione deluxe per le edizioni Lo Squalo. E visto che ci siamo è chiaro che c’entra la poderosa influenza dei film italiani di Enzo G. Castellari e di Sergio Martino e pure di Bruno Mattei: parliamo di film come Il fiume del grande Kaimano (poi ripreso appunto da Claudio Kaiamano Cingoli e pure da Nanni Moretti che però non ha accreditato questa influenza culturale pop): c’entra perchè non si può non rimanere influenzati da Franco Nero che con una parrucca bionda si getta da un elicoterro per ammazzare un fake squalo (e infatti come si chiama il leader dei Pixies? Frank Black…), infatti ecco il perchè degli squali in copertina, ecco il perchè ora le uscite musicali più nnuove e rivoluzionarie si ispirano a film fatti come se il produttore del disco fosse Bruno Mattei con la supervisione di Claudio Fragasso: perchè quella è la chiave non solo delle reunion in campo musicale ma è l’essenza della musica vista come diffusore di cultura pop. Perchè soprattutto il caciucco è una specialità toscana e tutto torna: Giorgio Panariello e i comici toscani che non hanno mai fatto ridere tutti riuniti in quel programma là, Vernice Fresca dove c’erano Leonardo Pieraccioni che comunque aveva già fatto delle gags a Deejay Television e Giorgio Ariani indimenticato fake Pierino e Cecchierin. Ecco, l’essenda dei dischi pop è come il caciucco: piatto, realizzato con gli “scarti”, ovvero con ipesci meno pregiati preparato nelle galere cinquecentesche per sfamare i vogatori alla catene. In Toscana, il cacciucco, era inizialmente il pasto dei poveri e il termine ha assunto il significato di “mescolanza”: ecco insomma il perchè stiamo parlando di un disco che non ho ascoltato ma che è la quintaessenza (o anche i quintorigo, inteso come raglia ma non l’asino che raglia, la raglia quella che sembra talco ma non è e serve a darti l’allegria) del pop.

Ecco perchè per parlare di questo disco bisogna non parlarne ma parlare attraverso di esso facnedolo diventare come il caciucco pezzo talmente pop che è pirotecnico essendo piromane (perchè ricordiamolo: petomani si muore, ricordiamo anche il film il Petomane): è un salto con l’astice fatto usando come asta l’astio che abbiamo verso quella vacca di Paola Maugeri e il suo accento mangia cock(ney) reject e verso la sua vita a impatto zero. Il nostro invece è un impatto sottozero, come il film di Jerry Calà del 1987 e come Subzero di Mortal Kombat che c’aveva la meglio fatality secondo me, perchè bene rappresentava l’essenza del pop e anche quella del minculpop, di Pol Pot, di Pot Op (inteso come potere operaio) e delle purpette di mmerda di Diego Abbattantuono che ha fatto successo plagiando e copiando Giorgio Porcaro indimenticata star di SI RINGRAZIA LA REGIONE PUGLIA PER AVERCI FORNITO I MILANESI). Diego poi è noto che fa sesso coi pesci come Troy McLure dei Simpson però la fine di Troy McLure l’ha fatta fare a Giorgio Porcaro

E tutto torna al fatto che dopo Time To Move gli H-Blockx se ne siano usciti addirittura con una cover di The Power degli Snap (con relativo, prestigiosissimo featuring di Turbo B in carne e minchia) sta giusto lì a confermarlo implicitamente, anche se mi dicono dalla regia che all’epoca gli H-Blockx stavano agli Sugar Ray come i Litfiba stavano ai Diaframma ed io devo per forza essermi perso qualcosa ma giassapete che ho dovuto scrivere questa cosa perchè ogni pezzo pop inizia e termina con quello che è già stato scritto.

Bon, vado a mangiare che sono le 12.13, il pezzo è finito e poi devo andare a un mercatino dell’usato. E non è un caso che la pubblicità del caciucco Buitoni la faceva Abatantuono e la Buitoni era lo sponsor del Napoli di Maradona. Sono le 12.36 e vado davvero a mangiare, stavolta il pezzo è finito qui davvero, non ci penso nemmeno a rileggerlo e a editarlo.

http://spadrillasindamist.blogspot.com

Daniel Johnston a Roma: Lomokino/Bocchino/Punkrock/Puffdaddy/Antichrist+

Allora, ieri ha suonato Daniel Johnston. Ritengo probabile che la rete sia già da ieri sera un delirio di instagram e tweet che dicano quanto sia stato incredibile, straziante. Non lo è stato, per me, in particolare (non era Mozart, sai, se non ci credi non è bello uguale), ma il punto cruciale della serata è che ce n’era una che fumava col bocchino, e ce n’era un altro che riprendeva col Lomokino. Riprendeva il concerto, intendo, non il bocchino. Ma il prodotto non cambia, perché tanto non sarà venuto un cazzo, e l’unica cosa che dà un po’ di sollievo alla mia mente sconvolta dalla visione di questo che si dava da fare con la manovella è che, di sicuro, le riprese non saranno venute, e il suo progetto di POSTARE un delizioso film muto, fatto male ma apposta, fragile e rimorchione, probabilmente è naufragato come e peggio dei tentativi del povero Daniel di fare un re minore. Ragazzi e ragazze, persi e perse negli occhioni azzurri di quello di spalla, su cui non dico niente solo in virtù della pressoché totale certezza che, se lo facessi, entro diciassette minuti sarebbe nella mia e-mail, a riprendere col lomokino le mie argomentazioni essenzialmente basate su niente in particolare; ragazzi e ragazze, dicevo, qui non ci siamo più. Ci siamo persi tutto quanto per strada, e da mò: è vero, sono stato un po’ distratto negli ultimi anni, ma quando ho lasciato il campo di battaglia, ricordo, il sergente maggiore mi rassicurò che d’accordo, la resistenza era dura, ma la musica ancora esisteva. Sono tornato, a un certo punto, solo per scoprire che al posto di qualcosa c’era soltanto adesso il grande niente di tutte queste maledette scarpe col tacco e polacchini e stivaletti; e i maschi, i maschi sono sempre più magri, rigati, spettinati, e riprendono tutto con la cazzo di manovella della loro cazzo di lomokino.

Niente può rimanere di tutto questo, altro che Berlusconi e il berlusconismo, c’è questa maledetta sciocchezza al potere che ha frainteso clamorosamente il fatto che i rocker non c’hanno i soldi trasformandolo in, famo tutto a cazzo di cane!, tirando clamorosamente in ballo le donne – chi cazzo l’ha mai volute?! – e rendendole protagoniste del tutto, con deliziosi tagli a caschetto e musichine fesse e scampanellanti che potessero essere gradite ai loro cervelli minorati. Persino i maschi sono diventati femmine. Sono femmine i maschi del pubblico, ma anche quelli che producono la musica gradita alle femmine, con le loro barbette di merda, cristo, sono tutti femmine con la sola eccezione del caso in cui il musicista sia un freak, e quindi delizioso, tenero cicciottone da coccolare a parole perché all’amore vero ci pensa il tipo con la lomokino.

La musica si è femminilizzata tutta, e se nelle sale buie dei concerti ancora si nasconde qualche maschio riottoso capace di ascoltare il mio grido, bè, ragazzi, cosa aspettiamo a reagire, perché non ci riprendiamo ciò che è nostro?, se a noi reietti tolgono la notte e i più squallidi tra i locali, a noi cosa resta? Non la luce del giorno, non la fotografia (noi impareremmo a fare vere foto, nel caso), non i fanciulleschi, graziosi ricordi di Hanno ucciso l’uomo ragno. Altro che l’uomo ragno, questi (queste) hanno ucciso l’uomo e basta, con tutto ciò che rappresenta: e mentre la manovella di plastica continua a girare, la notte continua a andare avanti, e non ce nulla che noi possiamo fare.

Scappano li cani // Sanremo 2012 first report

"Tenete a Bbertè! Tenete a Bbbertè!!..."

Parte I // Spune-mi ce sa fac (“Spiegami cosa devo fare” in rumeno), di Ashared Apil Ekur (il re assiro, non il redattore)

“Ho dato la mia vita e il sangue
paese e abbiamo bisogno di sparare alla fine
a Dio, le loro preghiere
Giuro, quando sono diventato il padre della fede
due guerre, senza alcuna garanzia di ritorno, solo
Medal of Honor”
(Emma Marrone, “Non è l’inferno”, testo ottenuto traducendolo su Google da italiano a inglese a italiano a spagnolo a italiano a malese a italiano a rumeno a italiano, fino allo svelamento del reale contenuto malavitoso-occultista celato nei versi apparentementi innocenti del BRANO. La procedura per arrivare a questo testo l’ho messa a punto ascoltando Helter Skelter al contrario).

 San Valentino ha fatto il miracolo e, guastando dal Cielo il meccanismo di votazione del Festival, ha fatto sì che stasera anche noi sposati potremo riascoltare da capo tutti e quattordici i BRANI (a Sanremo non ci sono pezzi ma solo BRANI, scritti in maiuscolo), senza perderci per strada gli eliminati certi – tipo i Marlene e un misconosciuto cantante qualsiasi, tipo quel Finardi lì.

In attesa della redenzione di oggi, quindi – sono disposto ad assumere anfetamine pur di restare sveglio-, non mi resta che riempire le mie vuote giornate con un report sul nulla a cui ho assistito.

Non ho visto i Marlene (li ho cercati su youtube stamattina, ma poi ho tolto l’audio guardando le sole immagini e pensando nel frattempo al Romanzo Storico come genere in ripresa); non ho visto Emma Marrone (cfr. parentesi precedente); non ho visto Dolcenera (cfr. ecc.); non ho visto Irene Fornaciari (e meno male); non ho visto Arisa, di cui si dicono meraviglie al contrario (in pratica si dicono eilgivarem, e prima di spegnere rabbiosamente tutto considerate che ho dormito tre ore ieri notte); non ho visto, soprattutto, Celentano, Papaleo, le Olimpiadi di Roma e gli abiti delle vallette, tutto ciò, insomma, di cui oggi parla un Paese allo sbando che non ha ancora scoperto il diversivo delle moltov a Syntagma.

Prima che questo pezzo (BRANO) si trasformi in un micidiale articolo del Fatto Quotidiano solo scritto meglio, torno sul pezzo (BRANO) parlando di musica, ancora musica, solo la musica conta e la musica è l’unica vera grande protagonista, e sì, io sono titolato a farlo perché ieri sera, tornando, ho caparbiamente acceso la tv malgrado un sonno d’altri tempi, e ho fatto a tempo ad ascoltare il BRANO di un vecchio vestito di nero con la coda (non ho capito chi fosse, e in ogni caso: du palle), quello di Ninja Zilli – ho scritto davvero così senza volere, e non lo correggo; il BRANO comunque non era né abbastanza sanremese né abbastanza orrendo per essere in qualche modo rilevante -; quello della terrificante coppia Bertè-D’Alessio, nostro vincitore morale finora (un femminiello napopop e un gigantesco Qualcosa, un informe essere rigurgitato dai più oscuri recessi di incubi lovecraftiani, che duettavano su un gelido funk alla Throbbing Gristle fingendo di esibirsi al Festival della Canzone Italiana), e infine il notevole esempio di violenza fisio-psicologica di un Dalla ormai ridotto a pappone di se stesso, che sequestra uno studente e lo manda avanti sul palco tipo pupazzo del ventriloquo a raccontare una compiaciuta storia di frequentazione di mignotte.

Il report completo dei BRANI lo fa qui sotto kekko, che è pagato per farlo; per quanto mi riguarda, stasera guarderò ancora una volta nell’abisso, che guarderà in me, dirige l’orchestra il maestro Vessicchio.

“Clutching forks and knives /
To eat their bacon”
(Anonimo traditional inglese)

****

Parte II // Un video degli Unsane e poi dormo, di kekko (il cantante dei Modà, non il redattore)

L’inizio con Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu fa schifo come tutti gli inizi di Sanremo. Dolcenera canta un pezzo senza nessun sottotesto nazo, peraltro sembra non ci sia nessun altro sottotesto. 6.7, il mio cavallo vincente nonostante quasi tutti su twitter stessero urlando PENA E SCHIFO E DISDETTA, questo poco prima di sentire il pezzo di Bersani in botta Tiziano Ferro con un pezzo che parte talmente male da prenotare fin da subito il premio Tricarico. Il premio Tricarico è un premio di incoraggiamento a uno che sembra essere finito sul palco di Sanremo per caso, che prende sempre il nome del vincitore del premio dell’anno precedente –tipo Tricarico aveva vinto il premio Toto Cutugno, etc. Noemi ha i capelli come Maria Antonietta e ricorda un po’ quella cosa che disse Steve Albini, presente no, “sai qual è quella cosa arancione che sta bene in testa agli hippie? LE FIAMME.” A questo punto della faccenda è già finita la possibilità di concepire il Festival di Sanremo come un festival della Canzone, figurarsi della Canzona, e mi sarebbe piaciuto essere il vicino di casa di Infetta o Chiara Ferragni e mettere giù qualche commentino all’estetica, sempre e solo Dolcenera (su Bersani non ho opinioni mie, una su Twitter ha scritto che come sex symbol continua a preferire Pierluigi a Samuele, anche io soprattutto dopo la foto di lui che si scola una IPA da solo in qualche postaccio di Roma). Che poi questa mia cosa sessuale con Dolcenera non mi impedisce di volermi fare in linea di principio anche Chiara Civello, della quale Bastonate era l’unico a sapere TUTTO decenni prima di questo festival, Chiara Civello, la Nicky Nicolai italiana sembra suggerirci Google. In mezzo il gruppo alt-rock anni novanta come ogni anno di corvè a Sanremo, cioè i Francesco Renga in BOTTA stile libero con una linea vocale presa di peso da Pierpaolo Capovilla ed un accompagnamento un po’ melvinsiano, scommessa sicura su un finale vincente e fidatevi di me perché io sono un giurato demoscopico potenzialmente perfetto. La figlia di Zucchero suona come un crossover tra Bianconi e una tizia con le tette grosse a cui batteva i pezzi un mio compagno di liceo (camicione militare verde della pace, insomma) e ha delle mani enormi e sproporzionate e orribili che al confronto quelle di Gianni Morandi sembrano piccole. Fine del festival di Sanremo per me: Torna dentro Morandi, bofonchia due parole, lo vengono a prendere e lui dice una cosa tipo “cazzo succede”, il massimo momento punk del festival. Dopo due secondi metti insieme i pezzi e capisci che è arrivato il momento di Celentano, cioè di spararmi Californication S05E06 (finora la migliore di questa stagione, comunque iper-deludente rispetto agli standard, se Californication fosse finito alla fine della quarta serie sarebbe stato solo un bene). Purtroppo Celentano non ha ancora finito di predicare a fine puntata, quindi inizio a spararmi Trappola di Cristallo. Ho gli occhi gonfi di sonno e il cazzo girato. Riesco a stare sveglio fino ad Emma Marrone e ai Marrone Kuntz: entrambi suonano un pezzo dei Modà, vagamente più ispirato quello di Emma. Alla fine dei Marlene Kuntz Gianni Morandi si avvicina a Papaleo (che per tutta la sera non ha fatto altro che chiedere “dov’è la figa”, essendo entrato solo dopo Dolcenera). Gli dice “senti Rocco? IL ROCK.” Sono esausto. Ho dichiarato la mia sconfitta all’altezza di Bersani e Dio non me la sta rendendo facile. Passo dal tubo e mi sparo un video degli Unsane e poi dormo. Il redattore Ashared Apil-Ekur mi contatta su twitter e mi chiede come sono stati i Marlene Kuntz.

La morte grippa, di musica non è bello parlare e altre cose del genere

nigga presi bene dalla vita

A sentirlo così, pare giusto infilarlo a forza nel mucchio dei nigga veramente incazzati  e con qualcosa più che il pregiudizio di un bianco merdoso qualsiasi a stanarlo fuori dal merdaio circostante. Fatto sta che davanti a obiettivi definibili meno che miseri (Mi Ami, Litfiba, Rolling Stone rivista, Sanremo) si sente il dovere e il bisogno di guadagnarsi il cumulo di droghe ed elettroshock mensili per, tipo, tre post in tre anni, e spargere violentemente i semi dell’odio. Da cui il fatto che, messa da parte la speranza di NON sostenere la campagna abbonamenti del Mucchio (né di Rumore, Blow Up o alcuna altra roba del genere), urge riconoscere che si è finiti sul pezzo  anche da queste parti. Il prossimo passo alla riconoscibilità totale del volemose bene nel volemose male sta forse nella forgiatura di una statua a grandezza naturale di – cazzoneso – Zach Hill, o uno qualsiasi del genere.
(E no, non c’è nessun insidejokes perché non siamo amici, non frequento i tuoi giri e non ti capisco quando parli)

Detto questo, visto che anche  gente tipo Roly Porter e Jamie Teasdale ha saggiamente (stocazzo) deciso di andare ognuno per la propria strada – strada che vede per l’uno massicce dosi di oscurità, droni industrialoidi, minacce psichico-tecnologiche varie e per l’altro la lingua fuori su culi luccicanti e pop e tremendamente d’ambiente – la strada, dicevamo, che è qualcosa di inferiore alla sottrazione delle parti che componevano Vex’d, ecco, per questo una volta in più è doveroso star dietro a sobillatori d’odio e rumore che abbiano voglia di far cagnara con modi musica e livore.
Il nome è Death Grips, la miscela è acida tipo hip hop sputato fuori a raschiare ugola e rancore. I testi sono primizie tipo “In the time before time eyes ‘bove which horns/Curve like psychotropic scythes/And smell of torn flesh bled dry/By hell swarms of pestis flies/Vomiting forth flames lit by/An older than ancient force /That slays this life with no remorse” o “Tie the chord kick the chair and your dead” e ancora “Cuz all I really need is some cool shit to mob /Like driving down the street to the beat of a blow job /I own that shit /On some throw back shit /You already know that shit /You even know ‘bout how I know the man /Who grows that, bitch ” , che manco un incrocio tra Sepultura e Michael Gira prima maniera renderebbero appieno. Sotto ci sono robe a tratti semplicemente grezze e momenti fantasmatici con strascichi di quelli che chiamano Steve Albini alla produzione e cose così. A farla da maggiore, comunque, a prescindere dai campionamenti, il rumore, l’overload e l’elettronica varia (compresa qualche parentesi di dancehall meccanica e catacombale splendida), è il senso di un disagio veramente concreto. Di  quei dischi insomma che ti fanno sentire ancora più di merda quando stai di merda; di quelli che consigli a pochi, fiducioso che se lo consumeranno digrignando i denti. Con in postilla l’augurio di un remix stile Kevin Martin dei momenti migliori, scansando e fottendosene della partecipazione di Zach Hill – sempre lui – alla faccenda.  E con un calcio in faccia per successo, magari, a Tyler the Creator e sodali. I tipi comunque, nel dubbio se ne sbattono e ti regalano anche chicche tipo questa. Oltre al disco stesso, certo.

Poi, cagate a parte, viene da ripensare all’asse Def Jux/Anticon dieci anni fa, a come pareva fosse la salvezza del rap, di una certa idea militante di comunità e stronzate così.  Oggi, su quelle orbite, spuntano fuori anche IconAclass (robe post-Dalek, belle ma easy) che non mantengono nemmeno un’oncia di quanto vorremmo promettessero.

Dunque, stretta di mano su stretta di mano, è sinceramente preferibile ri-chiamare in causa accoltellamenti fraterni stile b/metal e dintorni, piuttosto che, ancora una volta, doversi sorbire impunemente schiere di tabulae rasae ambulanti, con due gambe, twitter e qualche collezione di dischi.
Fuor di metafora: le corse a condividere e condividere e condividere il nuovo FBYC a furia di like, plaudendo alla rincorsa sociale di stocazzo senza ancora averlo ascoltato, il disco: SentireAscoltare che butta fuori nomi e cognomi sull’autoreferenzialità della scena (e tra l’altro giuro ho l’impressione che prima vi fosse la foto dei tizi semi-desnudi con le loro facce disegnate sui genitali) e/o rincara la dose egotistica di casa Teatro degli Orrori: Elio Germano in combutta con Teho Teardo:  Mark Stewart pre-ritorno The Pop Group a far sboccare con Bobby Gillespie: Bugo che via twitter la conta a scribi e sodali: Bastonate che diventa paradigma per gentiluomini e via di questo passo.

Segnali precisi dal profondo: è tempo di tornare all’ostilità, pura e semplice e totale. Senza occhiolini, strette di mano, comunanze farlocche, pompini vicendevoli e null’altro. Sempre in nome dell’ODIOpuro (non sociale, non sentimentale, non politico) in quanto modello conoscitivo e mai contro un nemico specifico che non sia il tutto.
Colonna sonora: l’ossessività e reiterazione e palude cerebrale incluse nel pacchetto Death Grips.
Tanto per il resto frega un cazzo, tra un po’ esce il nuovo Disquieted By, arriva la botta Johnny Mox, è fuori Bologna Violenta, Wallace ha sfornato pure l’ultimo Miss Massive Snowflake e io  torno felice.
Benché l’odio e il disprezzo sincero per la comunità rimangano, certo.