Che sia come Prurient o Vatican Shadow o qualcun altro dei suoi mille pseudonimi nessuna differenza, Dominick Fernow continua a fare quel che sa: vampirizzare le idee e l’immaginario di qualcun altro. E continua a farla franca, anche stavolta, fosse anche solo perché Bryn Jones è morto da quindici anni ormai e di Muslimgauze se ne ricordano forse soltanto i fanatici delle edizioni ultralimitate, ma quelli di bocca buona. La malafede assoluta che anima l’intero progetto emerge in maniera sguaiata, plateale, fin dai minimi dettagli, dall’artwork carico di sinistri sottintesi parabellici a titoli come Not the son of Desert Storm, but the child of Chechnya o Tonight Saddam walks amidst ruins. Smarrita la vergogna.
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Magik Markers – Surrender to the Fantasy
Un tempo i Magik Markers suonavano la musica più eccitante in circolazione e nella serata buona sapevano essere la migliore live band del mondo; ora sembrano la brutta copia della brutta copia della brutta copia della brutta copia della brutta copia dei Times New Viking – o di qualche altro gruppetto con tipa alla voce parimenti innocuo e inerte di cui ti scordi dopo sette secondi – a cui un orangutang sbronzo abbia appena praticato una lobotomia frontale. Devo essermi perso qualche passaggio nel frattempo.
dischi stupidi: IL DISCO DI NATALE DI GIOVANNI ALLEVI
ADESSO TI SPIEGO IL MIO PROGETTO PER NATALE, il mio progetto per natale è quello di essere TRISTE E INCAZZOSO come tutti gli anni. Non è che Gesù mi stia sui coglioni, sia chiaro. Gesù Bambino era un gran simpa e io non voglio fare la figura del pro-life ma di sicuro non sono pro-death. Mi fanno incazzare LE LUCINE e IL PANETTONE e IL PANDORO e IL DISCO DI MARIAH CAREY sparato a manetta e Last Christmas ci stordivamo di bamba e scopavamo persone del nostro stesso sesso poi è arrivato il 1990, le pubblicità dei profumi alla TV e LA RECITA e il cervello in pappa degli adolescenti di metà anni novanta. Sul panettone e sul pandoro sto scherzando, mentre sul resto sono insomma, sai. E Gesù Bambino era un gran bomber, e anche il somarello. Comunque nel mio progetto natalizio di diventare TRISTE e INCAZZOSO mi sono portato avanti ascoltando la compilation di canti di natale di Giovanni Allevi, probabilmente la più irritante raccolta di canti di natale per solo piano dai tempi di quella raccolta che pescai nel cestone dell’autogril e/o una cosa che sembra fatta per i LOLLONI tipo un disco di pezzi di natale solo-piano eseguiti da Weasel Walter con l’ATTITUDINE con cui aveva fatto la cover di Bohemian Rapsody, MA CERTO che non sapete di cosa parlo, state qua perchè avete cercato su google ALLEVI DISCO DI NATALE e io allungo il brodo per continuare a sparare dei CAPS LOCK SENZA SENSO. Dio che schifo il disco di Natale di Allevi, sentite.
Abbassare il livello: BRUTAL TRUTH/BASTARD NOISE – The Axiom of Post Inhumanity
I Brutal Truth sono una delle cose più belle successe alla musica dall’invenzione dell’elettricità a oggi; implosi dopo una breve serie di dischi che dire monumentali è sminuire la categoria dei dischi monumentali, hanno capito che non era il caso e da qualche anno sono tornati, e per qualche miracolo che evidentemente non è dato comprendere ma solo accettare muti e grati i dischi nuovi sono buoni quasi quanto quelli vecchi. I Bastard Noise all’inizio erano i Man Is The Bastard che cazzeggiavano coi rumorini, poi i Man Is The Bastard si sono sciolti, Eric Wood ha continuato e sono rimasti loro; l’ultima volta che li ho visti c’era una tipa alla voce (devo essermi perso qualche passaggio nel frattempo). The Axiom Of Post Inhumanity documenta l’incontro tra questi grandi spiriti (sia detto senza la minima ironia). Sulla carta qualcosa di epocale, mastodontico, definitivo, roba che ha a che fare molto da vicino con il concetto di history in the making e che solletica l’immaginazione prefigurando scontri titanici alla Thor contro Galactus, Alien contro Predator, Godzilla contro Gamera; nella pratica una cosetta neppure troppo fastidiosa e men che meno ostica o perturbante.
Esce in due formati come le edizioni platinum della Marvel, CD e vinile con copertine di diverso colore e scalette differenti; come è logico che sia in entrambi i casi la porzione che compete ai Bastard Noise è quella che suona meglio (anni di pratica, strumenti autocostruiti e impalcature concettuali che ai Brutal Truth mancano quasi del tutto – dettaglio non da poco: il quasi è Prey, pezzo che chiude Sounds of the Animal Kingdom e che in 22 minuti dice sul rumore e sul caos più di quanto questo e qualsiasi altro disco potranno dire mai), ma è l’unica differenza: tanto nella versione LP quanto su CD il contenuto è parimenti tristo, baracconesco e deleterio. Una parata di sfrigolii, scrocchi e sibili di quelli che vengono fuori smanettando con la manopola della sintonia di una radio con l’antenna rotta, tetraggine da film horror di serie Q con pretese, scricchiolii e arricciamenti digitali tipo il modem a 56k quando non prende bene e fa fatica a connettersi (Mantis colony), folate minacciose, sirene che precedono i bombardamenti a tappeto (Preemptive epitaph), anatemi con vocione sepolcrale-orchesco, sfarfallii fruscii e pernacchiette (The antenna galaxies), ancora sirene pre-bombardamenti, urla di tregenda e scricchiolii più fastidiosi del solito (Frack baby frack, è più appassionante il film di Gus Van Sant). I pezzi dei Brutal Truth stessa sbobba ma più minimale e alla vecchia. Control room: peace is the victory mix: stasi da dopobomba, una voce che gracchia cose in un walkie talkie distrutto, uno scheletro percussivo carpito chissà dove – forse il batterista che si sta scaldando in sala prove – presto risucchiato nel gorgo di bruma digitale, ululati di fantasmi nella notte, casino montante, ronzii da tinnito permanente, batterista sempre più lanciato, climax, rilascio. Diciotto minuti. Control room: smoke grind and sleep mix: altri acufeni, il suono delle pale di un elicottero che girano a vuoto riprocessato in modo da sembrare una grattugia che sfrega contro una barra di tungsteno, il ‘beep’ che segnala quando qualcuno ha lasciato lo sportello aperto in macchina, gli stessi ululati di cui sopra però sepolti sotto coltri di rumore di fondo e con un fastidioso ronzio persistente tipo trapano del dentista rimasto acceso in uno studio vuoto, segnali acustici a sfare, parte pure il campionamento di un pezzo sul danzereccio arrogante, lento ma violento avrebbe detto Albertino, ma è un attimo, poi voci a random tipo disco di Peter Sotos ma incomprensibili che diventano urla che diventano latrati. Venticinque minuti. The Stroy, la più rumorosa, bruma digitale più aggressiva del solito (forse sono le onde corte invece delle onde medie, non so, non faccio l’antennista) e fischio tipo volatile incarognito o antifurto guasto di quelli veramente molesti, poi un urlo tipo suicida che si lancia dal balcone e infine le sole note suonate dell’intero programma, l’attacco di un pezzo che diresti sul doom-cazzeggio in sala prove ma filtrato e distorto come attraverso un software di quindici anni fa, tipo Fruity Loops ma ancora più basilare. Magari è pure un pezzo vecchio dei Brutal Truth, comunque non lo riconoscerebbe nessuno. Poi tutto si sgretola in un’orgia di feedback e ampli in saturazione. Sette minuti. È il 2013 e che questo disco esca a due settimane dalla morte di Lou Reed in qualche maniera strana e perversa ha un senso.
Wrong thoughts/wrong words/wrong action
Quando uscì l’ultimo disco dei Rapture misi insieme una recensione su Vitaminic, di cui riprendo un pezzo per via del fatto che il sito è offline da tempo.
“Con un briciolo di prospettiva storica, mentre tutto è stanco e scarico e annoiato e privo di stimoli anche per l’ultimo degli hipster (una testimonianza di questa cosa potrebbe essere, tanto per dire, un disco dei Chili Peppers a cassa dritta), possiamo comunque tirare il fiato ed ammettere che quantomeno la colpa di quel che è venuto dopo è solo in parte -o per niente- della band o di DFA. E che i Rapture, con tutto quel che gli può esser piovuto sopra, hanno continuato a mantenere la fierezza del loro alto profilo punk-funk al di là di ogni corrente musicale, continuando a scavare all’interno del loro stesso suono e sviluppandolo in maniera organica ed eccitante, ancorchè senza colpi di testa, facendolo diventare una più che plausibile declinazione moderna funk-soul. In The Grace of your Love, e forse è la foto miliusiana in copertina a metterci strane idee in testa, suona come le ultime scene di Un mercoledì da leoni: ritrovarsi in una pista da ballo semideserta con la musica a palla e sorrisi e lacrime che sgorgano più o meno in egual misura, mentre il mondo intorno si sgretola come dentro Inception.”
La riprendo in modo un po’ inelegante. I Rapture non inventarono uno stile, ma furono comunque House of Jealous Lovers ed Echoes a dare il passo definitivo a quella cosa che chiamiamo impropriamente punk-funk. Forse a sancire ideologicamente una cesura tra un movimento spontaneo che veniva dal basso (Gravity, 31G, Dim Mak e tutte quelle cose) e una serie di persone che ascoltarono quei gruppi dopo il botto e decisero di riprenderla identica. I Franz Ferdinand furono abbastanza pionieri in questo: giocavano lo stesso gioco di casse dritte e ritmi sincopati da un punto di vista più brit-pop con camicine attillate e senza darti l’idea di voler morire da giovani. Vennero dopo ed ebbero esposizione quasi immediata e vendettero da subito un disastro di copie. Tra le altre cose legate al loro botto, finirono nel cartellone di un Independent Days appena prima dei Sonic Youth: ci rimasi davvero piuttosto male scoprendo che erano un gruppo di merda con un mezzo singolino divertente che era già una barzelletta che era già tirata per le lunghe MA suonavano dal vivo con un tiro allucinante e come se fossero un gruppo vero, cosa che di un sacco di gente che si presenta su quel palco e su quel palco non la puoi dire. Devi rispettarli, i gruppi che suonano bene. È obbligatorio. Allora sui Franz Ferdinand rimasi un po’ più del dovuto, quel tanto che bastò a farmeli considerare un gruppo con non uno ma DUE buoni singoli nel primo disco (al momento il secondo non lo ricordo) e farmi scendere la catena quando uscì il secondo disco, che si chiamava (mentendo) You could have it so much better from Franz Ferdinand. Fu un dischetto e un bel bagno di realtà: il cantante del gruppo nel frattempo era preso da altri cazzi, cioè diventare il Mario Batali o la Benedetta Parodi del pop inglese. Io mi rifiuto di farmi dare consigli sulla cucina da un anoressico e questa cosa comprende anche persone di cui rispetto leggermente di più la musica, tipo Steve Albini. In qualsiasi caso il terzo disco del gruppo uscì in un periodo di assoluta smilitarizzazione del concetto di “indie” così come scientemente travisato da ragazzini (in realtà quasi-trentenni quando andava bene) con magliette a righe, impieghi traballanti in qualche atelier milanese di merda e torbide storie di sexting con altre quasi-trentenni archiviate nella schedina aggiuntiva del blackberry. Roba che capita. Tonight è molto più bello del disco precedente e fa a gara col primo, ancor oggi non ci si sente sporchi ad ascoltarlo. Ci sono passo più marcati sullo stesso canovaccio e qualche buona canzone . Non ha successo. Devi rispettare i gruppi che si sciolgono, anche se adesso si riuniscono tutti; devi rispettare anche i gruppi che hanno il coraggio di risorgere artisticamente e si assumono le responsabilità che la cosa comporta.
Oggi i dischi non si vendono più, e la parola “indie” non la usa quasi più nessuno. Kapranos e gli altri sono tornati con un disco, che si chiama nel modo sbagliato (Right Thoughts, Right Words, Right Action) e contiene un pugno di canzoncine pop che non servono a nessuno e che volano straordinariamente basso anche per gli standard di un gruppo da singoli. Riprendevo il disco dei Rapture e non era una cosa sportiva: nel momento in cui i dischi non sono la cosa su cui campi, dovresti avere la decenza di farli per un motivo. Luke Jenner aveva un mondo in testa e poche occasioni rimaste. Ha preso il suo mondo e ce l’ha fatto esplodere davanti: forse non ha raccolto quello che ha seminato, o forse era un bluff, ma il loro ultimo disco era comunque una visione abbacinante –qualsiasi cosa significhi la parola. I Franz Ferdinand sembrano solo aver paura che qualcuno si scordi di loro. Nel metter fuori un compitino così, tuttavia, rischiano solo di velocizzare il processo di rimozione. E se non li rispettassimo per come suonano e per come sono già risorti una volta, probabilmente li avremmo mandati affanculo venti righe fa.
dischi stupidi: DEAFHEAVEN – SUNBATHER

di solito è uno che riesce a trasformare il suo disprezzo per l’umanità in una professione.
Il nuovo disco dei Deafheaven è abbastanza buono ma un po’ noiosetto, e ha il problema fondamentale di contenere qualche sfogo metallone urlato che rovina la pappona e crea parentele inesistenti con certa musica estrema. Se fosse cantato da una ragazza avremmo i nuovi My Bloody Valentine di questo semestre (un po’ sfigati nella tempistica, se vogliamo: i nuovi My Bloody Valentine del semestre scorso sono stati i My Bloody Valentine). Riconosco al gruppo la capacità di scrivere riff malinconici molto più decenti di chiunque si sia cimentato nella battutissima strada che porta dal black metal all’ambient dronata e al post rock, ma rimane il fatto che Sunbather è un disco abbastanza buono ma un po’ noiosetto e tutto sommato la classica cosa fatta per mandare in botta i giornalisti musicali. Esempio:
La sensazione finale ascoltando il secondo full-length dei Deafheaven è la stessa di quella iniziale, ovvero: i Deafheaven tentano la via del metal-hipster, il che concretamente significa ben poco ma aiuta a capire in che territorio cerca di muoversi questa band californiana.
(Stefano Gaz, SentireAscoltare)
Qualcuno prima o poi dovrà mettersi a pensare a quanto negli ultimi anni s’è abusato della parola hipster. La parola hipster non significa niente, NIENTE, forse significava qualcosa due anni fa ma anche allora era più qualcosa di intuibile che qualcosa che funzionava in senso stretto. E sicuramente hipster non è un genere musicale, anzi musicalmente nasce proprio per descrivere gli ascolti di gente che non ascoltava un genere musicale, quindi scrivere “metal-hipster” (oltre a crearmi grossi scompensi personalmente) immagino significhi scrivere “metal ascoltato senza nessuna ragione da persone con i pantaloncini sopra il ginocchio”, oltre al fatto che in realtà i pantaloncini sopra il ginocchio sono molto più comodi dei pantaloncini sotto, anche se personalmente ancora non riesco a portarli e questo è un problema MIO ed indirettamente un problema di Stefano Gaz, il quale probabilmente scrive cose senza senso nei suoi pezzi perché la gente come me si ostina ancora a vestirsi come Phil Anselmo. Non so se sia in qualche modo trapelato che non ho idea di che cosa significhi “metal-hipster” in generale e a maggior ragione applicato al disco noioso in culo dei Deafheaven, ma in qualche modo la definizione di Sentire Ascoltare viene livorosamente controbattuta da Ondarock:
Un dato di fatto: chi oggi riesce a scalare i gradini dell’underground e raccogliere consenso presso un pubblico più vasto e insospettabile, verrà tacciato senza indugi di “hipsterismo”, malvisto dalla fazione true e deriso da chi ritiene si tratti di una ennesima trappola dell’hype. Quante le terminologie detestabili e gli atteggiamenti di superiorità nella nuova guerra santa, quella del download e dell’ascolto compulsivo, purché se ne parli (male). E’ il destino di chi, come i Deafheaven, cerca in ogni maniera di rifuggire tanto l’iconografia quanto i cliché musicali che li vorrebbero inscatolati in un trend preciso, per non rischiare – sia mai! – di considerarli un’eccezione nell’attuale panorama “estremo”.
(Michele Palozzo, Ondarock)
Un dato di fatto è anche che centinaia di gruppi black metal si stanno evolvendo tutti nella stessa direzione, un po’ My Bloody Valentine un po’ Temporary Residence e quelli senza fantasia un po’ Sunn(o))), producendo dischi immancabilmente pallosi, tristi, poco innovativi, autoindulgenti e qualsiasi altra cosa brutta vi venga da pensare parlando di un disco metal, e trovano sempre qualche giornalista che gli tiene bordone mettendo le mani avanti e certificando il temerario sperimentalismo della proposta. Gente che continua a lamentarsi della chiusura mentale dei TRVE metallers e non ha un cazzo da dire sull’attuale (e pare irreversibile) ingentilimento/pussificazione del metal estremo contemporaneo. Che poi estremo, voglio dire, tra il “black metal” fino ai primi duemila e questa roba ci passa più o meno la stessa differenza che passa tra dare fuoco a una chiesa e dover aspettare tua mamma per accendere il fornello sotto la pentola dell’acqua (e sia comunque messo a verbale che lo staff di Bastonate, messo a scegliere forzatamente tra chiese in fiamme, nazismo di ritorno, Satana, omicidio, suicidio, sniffare carogne di animali e pasta al ragù sceglierà sempre e solo quest’ultima). Questo non è tacciare i Deafheaven di untrueness, è semplicemente la stracazzo di ultima e definitiva verità su questa faccenda. I dischi dei Deafheaven non sono dischi metal, (Sunbather meno di quello prima), e il loro disperato tentativo di sembrarlo introduce nella loro musica una componente di cattiva fede che non aiuta il giudizio finale. E una volta di più, non c’è niente di nuovo e di coraggioso nel suonare (decentemente e in maniera interessante e mortalmente noiosa) come i MBV o i Mogwai o nell’aggiungere nuovi (LOL) elementi ad un impianto di normale e onesto metal estremo. Così come non c’è niente di naturale o di violento nel fare plin plin con una chitara acustica per dieci minuti e poi sbroccare urlando PORCOD*O LA MIA ANIMA VUOTA DILANIATO DALLA LUCE per un minuto scarso. Per tutto il resto, cioè giudicando il disco come un onesto prodotto di normalissimo post/shoegaze/qualcosaltro/rock finto-avant, Sunbather è un prodotto abbastanza buono e un po’ noiosetto che consigliamo di ascoltare a basso volume dopo una doccia con il condizionatore attaccato, una buona rivista online sull’iPad ed un Pinot grigio servito tra i 4°C e i 6°C.
ABBASSARE IL LIVELLO #2 – Kylesa – Ultraviolet
Per apprezzare appieno il nuovo disco dei Kylesa bisogna avere una mente molto aperta. Per mente molto aperta si intende ovviamente ABBASSARE IL LIVELLO, cioè (in senso cognitivo) adeguarsi ad accogliere alcuni assunti di base che per quanto riguarda la mia formazione (o anche solo la mia permanenza tra la gente che compra dischi oggigiorno) non sono così facilmente concepibili. Vado ad elencare sommariamente:
1- può esistere musica metal non violenta;
2- può esistere un ascoltatore di musica metal che ascolta sia musica metal violenta che musica metal non violenta;
3- gli steccati tra i generi musicali sono stati abbattuti. questo ci ha permesso NON di smettere di usare i generi musicali per descrivere il prodotto MA di usare, esempio, la parola “sludge metal” per cose che “sludge metal” non sono;
4- l’offerta crea la propria domanda. Un musicista con un briciolo di reputazione registra il disco e l’ascoltatore può essere costretto a rivedere i suoi principi di base per accoglierlo con favore;
5- questa cosa avviene senza più un apparato promozionale alle spalle.
Per quanto riguarda il punto 1 ovviamente è un dibattito che dura da un sacco di tempo, o meglio è una cosa comunemente accettata che io continuo a non concepire; nei primi anni duemila la distinzione tra gli ascoltatori del punto 2 comunque era ancora abbastanza netta, oggi è abbastanza facile conoscere gente che si abbevera a tutte e due le fonti. È una questione di invecchiamento mio, certo non sono convinto che il mischiarsi tra musica pesa e musica non pesa abbia creato un buon ambiente per i gruppi ma insomma. Per parlare del punto 3 inizio a parlare del disco dei Kylesa: i Kylesa ancora oggi suonano sludge metal, ove per sludge metal si intende tipo i Down di Nola con Cristina Scabbia alla voce. Questo tra l’altro è tutto quello che ho da dire sul disco: sono i Down di Nola, ovviamente senza manco un pezzo degno entrare negli SCARTI delle session di Nola, con Cristina Scabbia alla voce. Il punto 4 e il punto 5 entrano in gioco nel momento in cui ti leggi le recensioni del disco (tipo qui o qui o qui, mica debaser voglio dire), le quali si concentrano su aspetti tipo completezza, ispirazione, ripetere gli ascolti per capirlo e generici cazzi di contorno per guardarsi dall’ammettere, o dall’accorgersi, che il nuovo Kylesa è un disco loffio con pezzi indecenti realizzato da un gruppo che per un sacco di tempo è stato non-loffio e con pezzi decenti. Punto 5: se una cosa come questa fosse successa nei novanta si sarebbe ipotizzato che la casa discografica avesse cacciato il grano per avere una buona recensione. In un momento di collasso editoriale/discografico, e di gente che ascolta musica a trecentosessanta gradi, suona strano. Uno si aspetta che questa roba venga scremata per conto suo, trattata con la sufficienza e il rispetto che merita (poco), rispedita al mittente e dimenticata appena possibile. Non viene fatto. Perché? Buona domanda. L’unica reale funzione di un disco come Ultraviolet è di raccontarci i Kylesa come gruppo: i dischi precedenti non erano (come pensavamo) buone variazioni sul tema e tentativi di trovare una propria via al rock pesante di oggi ma le prime avvisaglie di un tracollo artistico con pochissimi precedenti, una cosa così vergognosa che ti senti come quando facevano ballare gli storpi nel medioevo e tu stavi lì a guardare. Di chi è la colpa?
DISCHI STUPIDI: Black Pus – All My Relations (Thrill Jockey)
Non credo di dover spiegare a nessuno di quelli che sono qua dentro a parte quelli che sono entrati cercando Maria Nazionale nuda su google (MI FATE SCHIFO, stiamo qua a leggere libri e sentire dischi e guardare film indipendenti sei ore al giorno e diocristo state ancora a cercare su internet le tette grosse) chi siano i Lightning Bolt. Lo faccio lo stesso: i Lightning Bolt sono un gruppo basso-batteria che replica dal punto di vista industrial-noise l’assetto di base di un pezzo cock-rock anni ottanta alla Van Halen. Tapping selvaggio e batteria che rulla all’infinito, il tutto scomposto e ricomposto in un formato che rasenta l’inudibile –incidentalmente, la cosa più bella che fosse dato vedere su un palco negli anni duemila, anche se la band dal vivo suona in mezzo alla gente. I Lightning Bolt ci hanno dato una manciata di dischi, tutti sostanzialmente identici l’uno all’altro e perlopiù pleonastici (il mio preferito è Ride The Skies per via del fatto che è quello che ho ascoltato per primo): la si potrebbe definire un’esperienza fisica pura, una cosa di quelle che vanno fatte dentro a qualche squat e poi archiviate vitanaturaldurante al giusto status di blow-up-sensation, nel senso della rivista, che ha nutrito i nostri sogni per fin troppo tempo.
Il che non toglie che noialtri Blow Up continuiamo a leggerlo. È così che siamo rimasti più o meno informati di tutte le vicende dei due musicisti che compongono la band: Brian Gibson, bassista, figura come membro di diversi progetti quasi tutti in capo a Load e sembra occupare (tra le altre cose) un posto di rilievo in una casa produttrice di videogame; il batterista Brian Chippendale è una specie di figura chiave per comprendere il nostro tempo, pittore/fumettista di fama ormai mondiale e batterista di lusso convocato alla corte di Bjork, Boredoms e chissà chi altri. Da qualche tempo Chippendale è il tenutario di una one-man-band chiamata Black Pus, la quale esce questi giorni con il suo (credevo secondo e invece) OTTAVO disco, primo su Thrill Jockey, chiamato All My Relations. Al confronto i Lightning Bolt sono i Pink Floyd: filastrocche berciate su pattern di batteria garage-rock stirati fino allo sfinimento, pedali a non finire, tastierine di merda e un’inclinazione a mandare tutto in vacca alla fine del pezzo che persino Kevin Shea avrebbe avuto delle remore morali. La chiave più ovvia in cui vedere All My Relations e (immagino) il resto della produzione Black Pus suona più di quel genere di ossessione e del bisogno di Chippendale di registrare e pubblicare qualsiasi cazzo gli esca dalle mani, in una maniera un po’ Omar Rodriguez o Kawabata Makoto; ma il batterista sembra animato da un’inclinazione più meccanica degli arzigogoli psichedelici dei personaggi di cui sopra, con il risultato che un disco come All My Relations suona più o meno come la cosa meno sperimentale sia mai stata incisa da un uomo. Si trova più tracce (a torto, naturalmente) di una certa ossessività bambinesca alla Chrome, del noise marcio e americano in culo dei dischi griffati AmRep, di certi Suicide (ovviamente) degli anni d’oro di Skin Graft. Sembra stupido dirlo così, ma nell’immediato un disco come All My Relations suona davvero come una delle musiche più brutalmente schierate, dal punto di vista politico, dell’America contemporanea. Avercene, di uomini come Brian Chippendale.
(il disco è su pitchfork advance)
daft-pacchi
La cosa più fica dei Daft Punk dal 2005 in poi, è la dimensione del fanatismo nei loro confronti. Probabilmente è una cosa fomentata dall’idea che il gruppo si muova in più dimensioni artistiche (musica, cinema, iconografia pura, coreografia eccetera) ma una cosa abbastanza tipica dei fan dei Daft Punk è che tutti si sentano in dovere di dire qualche cazzo e/o estendere la visione del duo francese a territori che il duo francese non ha mai avuto lo sbuzzo o la decenza di considerare. In alcuni casi sono venute fuori operette pop al limite del genio tipo iDaft (ho scoperto ora che hanno aggiunto un pezzo) e il video Daft Hands poi diventato ufficiale, ma se avete pomeriggi liberi c’è tutta una serie di persone che ha sentito il bisogno di fare cover caserecce su Youtube o di fare uscire versioni 8-bit di Aerodynamic eccetera. I Daft Punk hanno questa cosa di stimolare le coscienze, questo a prescindere dal fatto che la gente che a loro si ispira abbia qualcosa da dire o meno. Gran parte del merito di questa cosa è da far risalire a Discovery, forse il disco pop più bello e importante degli anni duemila (o quantomeno una risposta più giusta di quella ributtante ciofeca di Kid A al quesito di cui sopra). C’è voluto tutto il decennio dopo Discovery per capire davvero Discovery, comunque. Cioè, Discovery è tutto fuorché incomprensibile, ma molta della roba dentro Discovery sembrava essere fatta con uno scopo più o meno attinente a questioni estetiche legate all’epoca in cui era uscito, e vallo a sapere che cose tipo Digital Love sarebbero state la determinante della musica pop degli anni duemila. (in prospettiva Discovery sarebbe potuto essere anche ricordato per due singoloni tipo Harder Better Faster Stronger e One More Time, che comunque sarebbe stato sufficiente credo). L’avessimo saputo probabilmente l’avremmo considerato un monito e saremmo passati ad altro. Un altro punto da cui partire per parlare di oggi è Sounds of the Animal Kingdom dei Brutal Truth, nella fattispecie la conclusiva Prey (un pattern di tre secondi preso più o meno a caso in mezzo alle canzoni del disco e ripetuto in loop per venti minuti filtrando il mixaggio fino a renderlo inintelligibile, probabilmente il pezzo industrial metal più bello degli anni novanta se non si considerano i Godflesh). In mezzo alle due cose ci sta tutta una cultura millelire della ripetizione che ci ha dato momenti di estasi assoluta tipo Epic Sax Guy 10 Hours o appunto il pezzo di cui parliamo nel pezzo. Vale a dire che la scorsa settimana i Daft Punk hanno piazzato un teaser di una dozzina di secondi in mezzo al Saturday Night Live (che è il nuovo Pitchfork, te lo guardi e vedi cosa succede alla musica. per dire come stiamo messi). Qualche minuto dopo il teaser era online ed è bastata qualche ora perché qualche anonimo sfigato, nel senso di genio, lo ricaricasse sul Tubo in un loop di dieci ore.
Il teaser in sé potrebbe non avere alcuna attinenza con il nuovo disco dei Punks. Sono dieci secondi di swag funkettone anni settanta ad altissima fedeltà (nel senso di fedeltà al suono che copiano) e nell’immediato suonano come lo spot di un dopobarba qualsiasi o un art-porno pieno di capelloni coi baffi, chiedo peraltro scusa per aver usato la parola swag, a cazzo per giunta. La versione di dieci ore sembra più una cosa spaziale e sospesa nel tempo nella quale è possibile leggere al negativo quasi tutta la musica uscita da Thriller in poi, o in alternativa uno stato mentale irrimediabilmente compromesso tipo il porno di Sara Tommasi o il twitter di Flavia Vento (roba a cui guardiamo in parte perché siamo stronzi e sadici e in parte per un grottesco revisionismo storico contemporaneo stile lo dicevo io che eran tutte idiote). In un caso o nell’altro, probabilmente la cosa migliore successa ai Daft Punk dai titoli di coda di Electroma in avanti. Forse è il caso di puntare più su un presente matto e laterale che sull’iper-esaltato nuovo disco del gruppo francese, da cui stiamo aspettandoci così tanto (e da così tanto tempo) che una delusione cocente sarebbe solo l’ennesima e giustissima punizione.
Paradossalmente, il lato peggiore dell’influenza dei Daft Punk lo vedi non tanto negli (pseudo-) scrausi che fanno il filmino di Harder Better Faster Stronger con le manine, ma nei professionisti glorificati urbi et orbi. Che poi i cloni dei Daft Punk sono quasi un genere a sé (perlopiù triste e vuoto) la cui legittimazione sta più nell’effettivo bisogno di aver bisogno di continuare di qualsiasi cosa nel pop –che è un altro modo per dire che io ricordo abbastanza distintamente che a un certo punto nella storia della musica si è davvero sentito parlare di French house o French touch. Un caso macroscopico di fronte ai nostri occhi, senza volere con questo metterci ad elaborare chissà che teorie, è quello del disco di Kavinsky in uscita in questi giorni. Kavinsky è un dj francese balzato a fama e gloria imperitura per via di Drive, un film di Refn di un paio d’anni fa. La scena più suggestiva sono i titoli di testa: una macchina che gira per le strade di Los Angeles a notte fonda con i beat pesi di Nightcall a fare da contrappunto e i credits scritti con quel font corsivo rosa. Non quel che si dice il film del decennio, ma abbastanza suggestivo da inchiodare Kavinsky al ruolo di ideale colonna sonora per guidare un’auto vintage indossando jeans skinny e giubbotti da ultras. Il credito di cui gode Kavinsky per quell’unico momento suggestivo (le sue cose testimoniano già fin troppo bene il fatto che l’uomo ha senz’altro il talento sufficiente a farsi includere in una compilation Ed Banger o Kitsuné a caso, ma non abbastanza da svettare tra gli altri nomi coinvolti) ha tenuto accesa la curiosità nei confronti dell’artista fino all’arrivo di OutRun, che già dalla copertina cerca di allontanare con decisione ogni parentela con Drive. Un disco orribile, per inciso: figure AOR-daftpunkiane da karaoke, momenti drugapulco imbarazzanti e quella tipica incapacità di comprendere il tempo -non dico il proprio, ma almeno quelli in cui la tua musica avrebbe avuto ancora un senso- che ammazza il fiato dei dischi come questo. La sindrome dei Justice, sostanzialmente: buono per un paio di video fighetti girati da quel cialtrone del figlio di Costa-Gavras, buono per lo spot di un’automobile per tamarri, buono per mettere qualcosa nella colonna destra di Repubblica che non sia Gaga o Rihanna (e tra un anno manco più per quelli, che già ora siamo in un ritardo imbarazzante). L’estemporanea apparizione di tali e tanti fenomeni da baraccone rende da una parte inaccettabile l’esistenza dei Daft Punk per il solo motivo di aver generato mostri come questo; dall’altra chiama come indispensabile il ritorno dei due padroni di casa con un lavoro che ci porti in una zona che sia più gradevole per riposare –o che almeno serva a stanare gli stronzi. E quando andremo a riprendere le fila del nostro percorso musicale ci ritroveremo probabilmente a ricordare Kavinsky con un briciolo d’affetto e l’imbarazzo di chi per un brevissimo periodo l’ha considerato come qualcosa di anche solo un pochetto sufficiente, con l’aggravante di avere già trent’anni e passa sulla groppa e -almeno in via teorica- il dovere morale di assumerci la responsabilità di quello che stiamo ascoltando.
MARK KOZELEK – Like Rats (Caldo Verde)
Ennesimo cover album di pezzi scrausi riarrangiati per lagna salmodiante e chitarrina plin-plon, c’è anche Ted Nugent. Sì, il titolo è preso dalla canzone dei Godflesh. Sì, c’è anche quella canzone dei Godflesh. Preferisco il rumore del traffico.