In vita mia sono stato in montagna una sola volta. Ero bambino, non era nemmeno Inverno, non c’era nessuno della mia età, ero con mia madre e mio padre e l’unico gran lato positivo che ricordo è di aver scoperto di avere una fotofobia per tutte le due settimane che ci sono stato: la congiuntivite non mi faceva tenere gli occhi aperti se c’era luce solare e mi sono rimaste un sacco di foto in cui sembra mi piaccia un sacco l’eroina. Non ce n’è una in cui sorrido perchè mi bruciava e mi lacrimava tutto quello che stava sotto la fronte e mio padre mi ha pure ripescato da un torrente perchè ci sono finito dentro da mezzo ciecato.
Non sono più andato in montagna perchè ho paura di finire in un torrente di nuovo o al peggio di venire intervistato dal tizio di Studio Aperto con gli occhiali a culo di bottiglia di grappa Piave che mi chiede se mi sto divertendo e in caso di risposta negativa mi rincalza sul perchè cazzo non mi sto divertendo.
Sei in montagna, ti devi divertire cazzo. Non ti piace la montagna? E allora cosa ci fai qua. E se ti piace la montagna, perchè non ti stai divertendo? Si sta bene qua, non vedi come si sta bene? Scrivi qualcosa di ispirato guardando fuori dalla finestra. No. Allora vai a fare un giro che è bello fuori, non vedi com’è bello? Non mi interessa. Eppoi arriva l’inevitabile commento di qualcuno che ti gira attorno “Fai le tue cose lì, quello che sai fare meglio, tipo lamentarti”.
Come diceva Ugo Illing: se sei in montagna ti devi divertire per forza o qualcuno ti cagherà il cazzo, se invece sei i FBYC e fai uscire la Domenica due pezzi nuovi non urlati qualcuno ti cagherà il cazzo.
Quassù c’è quasi tutto sono due pezzi per sedici minuti di roba che completano l’eclissi e il gran freddo iniziati con Come fare a non tornare, l’estinzione di tutto ciò che erano i FBYC fino ad Ormai, in una svolta che è ancora più grossa di quella che era toccata prima con il cambio di lingua del cantato perchè a sto giro è cambiata la botta e si resta tutti fermi, è ufficiale. A sto giro si passa dal sentirsi vivere addosso i pezzi e a buttarli fuori facendo a gara a chi li canta a voce più alta e a testa più bassa quando c’è il giro di chitarra al “ehi, no, così fa male“. Non è una cosa che deve piacere o non piacere, non ci si deve trovare d’accordo o meno, è la trasformazione di un gruppo che ha dato-detto-fatto tanto in qualcos altro. E’ una cosa che si subisce addosso, fine della storia.
Si fa partire il disco, ci si becca due minuti di silenzio prima di iniziare a sentire quel totem strumentale di dieci minuti piovuto direttamente dal pianeta degli indiani tristi dal muso lungo che è Angoli.
Si è ostaggio di questa cosa che è più lenta e monotona e CAZZO silenziosa, ma non si riesce a fermare prima della fine. Va cambiata l’attitudine con cui ci si avvicina ad ogni loro roba di questa fase e in questo processo di distacco l’hype che avevamo coi dischi precedenti rende tutto più difficile e sì, ci ha fatto più male che bene, a tutti (leggasi “Spegniamo tutto, restiamo soli, non pensiamoci più”).
Jacopo è sempre uno dei migliori a scrivere le cose e gli va dato il merito di essere uno di quelli che sa quali sono le cose che vanno scritte e non quelle che il fan in fotta vuol sentire, che poi le due cose in molti pezzi/situazioni/dischi coincidano in modo così reale che neanche l’effetto Forer degli oroscopi è pura parte della stregoneria che ha reso i Fine Before You Came quello che sono. Meno testi e più mantra tristi, forse. Meno botta e più silenzi sicuro, poi la svolta del cantato alla Enrico Ruggeri in certe parti di Distanze è frutto dell’adattarsi a un nuovo comunicare che è hardcore in un modo tutto suo, che poi non so neanche cosa voglia dire, ma insomma non credo c’entri la figa.
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DISCONE: Bachi da Pietra – Festivalbug
Longiano è dove lavoro. Io in realtà lavoro nella via Emilia, Longiano è un borghetto che sta sulla prima collina e il pezzo di via Emilia attribuito a Longiano sta lì ad abbassare la media delle cose belle. Sali da Budrio sullo stradone e vedi più o meno tutto quello che c’è da vedere: la via Emilia che in quel punto è terra di mangimifici e puzza di scorreggia vecchia e poi dietro il mare, già quando stai guardando l’avvallamento a Balignano. Ci sono più ulivi del solito, parlando di Romagna, e poi continui a salire e c’è il borgo, lo chiamano proprio il borgo, tipo non so, la città vecchia. È costruito su un cucuzzolo con una rocca e una piazza in cima. Una volta nella piazza ci suonò Ludovico Einaudi (l’Eluvium italiano), in cambio di un periodo di tempo in cui aveva occupato il teatro Petrella per fare un disco. Sopra la piazza c’è la rocca, è un’altra piazzetta minuscola con un pozzo e una statua che forse è di Leonardo Lucchi e un parapetto da cui godi della vista più bella al mondo. Ci sono dei vetri sul palazzo e dentro la fondazione Tito Balestra. Tito Balestra era un poeta figo, ho letto una raccolta di poesie, si chiamava Se hai una montagna di neve tienila all’ombra. Una vita fa. Ieri mattina, invece, sentivo il nuovo disco dei Bachi da Pietra. Tre tracce tre stampate da Corpoc: la seconda si chiama Madalena ed è un blues malatissimo, quando dico BLUES lo intendo acustico ma penso sempre a Henry Rollins che urla you got my boss man’s a bastard and i wanna kill him blues. Tra le loro migliori cose. La terza si chiama Baratto – Resoconto esatto ed è il resoconto di quello che è stato dato ai Bachi da Pietra in cambio del download a scrocco del disco precedente. Tra le varie cose il disco è stato barattato con un pasto a casa della modella di Bastonate, la quale (non del tutto a caso) lancia messaggi positivi via cartello una decina di righe qui sopra. Ciao Amal.
La traccia 1 del primo disco dei Bachi era Primavera del sangue. Presente? Voglio scopare la vita nel sangue sborrare sulla fine del mio essere di carne. E via col resto.
La traccia 1 di Non Io era Casa di legno. Presente? Scendi all’automatico col bancomat, dieci litri di benzina in una tanica, saluti un conoscente e sali in macchina, sorridi alla tua soluzione drastica.
La traccia 1 di Tarlo Terzo era Servo. Presente? Se non avete presente Servo mi chiedo anche che cazzo ci stiate a fare qua dentro.
La traccia 1 di Quarzo era Pietra della Gogna. Presente? Che sì era un pezzone in generale ma è difficile già solo uscire vivi dal primo minuto di batterie.
La traccia 1 di Quintale era Haiti. Basta un angolo diverso nella traiettoria di un destino, un angolo diverso un grado nello spazio mai finito e avresti me in quell’angolo. E lui al posto mio.
La musica positiva e sgarzolina* spesso è musica migliore di quella partorita dal dolore o dalla negatività, perché in qualche modo quando non esprimi lo schifo e il disgusto puoi concepire soluzioni musicali che diano soddisfazione all’orecchio in sé. Non è una regola fissa, non è nemmeno una regola anzi. La musica negativa e dolorosa tende ad essere un mezzo per esprimere, appunto, dolore e negatività. Molta gente si costringe a superare le crisi con un’overdose di miele e di pallini colorati, ed è un modo. Qualcuno cerca musica che parli di come si sente con parole più belle e spaventose e cattive e che penetrano l’anima di quelle che sarebbe trovare lui. Ci sono i giorni in cui la roba scritta da Succi è roba che non hai voglia di sentire, e ci sono i giorni in cui la roba scritta da Succi è la roba che ti esce dal cervello. Sono giorni in cui non hai particolarmente voglia di esistere e in qualche modo la musica dei Bachi in quei giorni diventa l’aria che respiri. Oggi è uno di quei giorni, e io ho il nuovo disco dei Bachi da Pietra in cuffia. Si chiama Festivalbug. La traccia 1 di Festivalbug si chiama Tito Balestra. Dovreste sentire che roba, ragazzi.
*sgarzolino: termine romagnolo che indica uno stato d’animo di gioia immotivata, manifestato da scelte estetiche estremamente pop e –appunto- sgarzoline, tipo indossare un cappotto giallo canarino o mettere lenzuola con i maialini disegnati nel risvolto. Credo che anche il risvolto sia un concetto romagnolo.
Corrections House – Last City Zero
Giampiero cor disco
Forse dovrei essere onesto e dire che da quando è uscito Apocalypse di Bill Callahan, la traccia numero 3 è uno dei pezzi che ho suonato con più frequenza nel mio stereo. Ne ho parlato qui. Il punto è che insomma, America! è un giro di giostra singolo e quindi niente, lo accetti. Qualche mese fa ho saputo da qualcuno, cioè da internet, che Bill Callahan avrebbe cacato fuori un disco nuovo, il quale si sarebbe chiamato Dream River e non avrebbe contenuto America!, la quale appunto era nel disco prima. A volte basta questo.
Ai tempi di Vitaminic scrivevo con un tizio che si chiamava Giampiero Cordisco. Abruzzese, tipo, ma credo viva a Roma. A un certo punto eravamo a pensare alle rubriche nuove, con certa gente, e qualcuno era saltato fuori di fare Giampiero cor disco. Si sarebbe dovuto fare una foto col disco e parlare del disco. O qualsiasi altra cosa. Ecco, ok, era un’idea stupida, ma ieri pomeriggio stavo cazzeggiando su twitter ed è arrivato Giampiero cor disco. Vedi di spacchettare ‘sto coso, mi fa. L’ho ascoltato la prima volta ieri sera, uscito di qui.
Al terzo minuto di musica sono innamorato perdutamente da due minuti. Da lì in poi la trama diventa triste e noiosissima e si compone di aggettivi usati un milione di volte. È un bel disco. Ti lacera l’anima. Non so se sia meglio del precedente. Lo amo.
DISCONE: Boniface – Christianity (Mass Suicide Cult)
Oh comunque alla fine il nuovo Papa ha messo d’accordo tutti tranne gli haters, l’unico leader del mondo è in effetti Francesco (Papa Kekko) che, con le recenti prese di posizione umili e Cristiane nel senso più evangelico del termine ha restituito alla Cristianità il ruolo di Forza Positiva e Guida per l’Umanità Intera, non più istituzione chiusa in se stessa e lontana, ma di nuovo Madre che abbraccia e accoglie i peccatori, soprattutto i peccatori, nella luce della fede.
VAFFANCULO!
Direttamente da un posto migliore, cioè un Inferno lisergico e violaceo (come avrebbe scritto Metal Shock negli anni ’90), il probabile gruppo-scherzo Boniface (perché sì, è uno scherzo, lo si capisce dalle foto in cui quello dietro so’ chiaramente io. Mindfuck. Io comunque scrivo qui questa eventualità, così non potrò essere troppo lollato dai metallari sgamati) viene in un colpo a far piazza pulita di: quanto di buono fatto dalla Chiesa in questi mesi; i Liturgy e la nuova tendenza dell’hipster-black metal; Miley Cyrus e le sue stronzate pedofile; le nostre vite in generale.
Che alla fine, poi, il disco è (non) uscito in gennaio: ma noi non facciamo compromessi, per niente e per nessuno, disprezziamo la quotidianità, l’ordinario e, come Famine dei Peste Noire (a proposito: altro DISCONE di cui parlerò se mai dovessi scendere al compromesso di mitigare la mia elitaria misantropia parlando di qualcosa a qualcuno), tutte le reti sociali di internet. E quindi, a spiegare alle merde che osano chiamare se stesse UOMINI perché Christianity dei Boniface è un discone ci arriviamo soltanto oggi.
I Boniface hanno le intro. La copertina bianca e nera. Un nome che si fa beffe della cristianità, le outro, e soprattutto hanno magnato durante il digiuno di papa Francesco, con il disperato (ma disperato in modo glaciale e trattenuto) scopo di mandare in merda i tentativi della Madonna di evitare la guerra in Siria. Ogni oliva ascolana, una bomba in più sugli innocenti. Morte, distruzione, male. Per ora, hanno evitato la liberazione del prete . No, davvero, che mostro che sono: ho un senso di colpa grande come una casa. Sabato avevo deciso di digiunare, ma poi alle sei e mezzo-sette fingendo di dover bere (bere si poteva) ho voluttuosamente aspirato un cocktail di frutta. Lussureggiante, tipo con le frutte sopra, coi cocchi, co l’OMBRELLINO! Poi uno dice che Satana non esiste e non ti tenta. Così, ho mollato il patetico tentativo di cristianità – ne esistono di non patetici? – e ho digitato di nuovo
BLACK METAL
nella barra di ricerca di Google Chrome.
Boniface, grazie di esistere, Lucifero, grazie di aver indirizzato le mie ricerche, Lucifero, grazie di esistere. Che poi, in questi giorni, tutto per me sta convergendo nel diavolo, Horns! I see horns!, come dice quella canzone dei Watain (che se fossero napoletani direbbero “Cuorn! Veco e ccuorn!”), i gusti nel vestire, nel mangiare, un po’ tutto il mio modo di essere, dunque perché non perdere l’anima del tutto.
Vedete, l’altro giorno questo ragazzo gentile dall’aria di un mezzadro ha superato una linea di confine che, forse, non doveva essere superata – e non mi riferisco a quando mi sono informato del prezzo di una bicicletta arrivando quasi a introdurmi in un ben noto negozio hipster di biciclette hipster. No, alludo a quando sono andato a fare colazione da quei burini di Rosti indossando una maglietta dei Bathory, e l’ho fatto tranquillamente perché tanto tutti ritenevano che fossi solo un altro alternativo spiritoso. Il più grande inganno che il diavolo abbia mai fatto all’uomo è fargli credere di non assumere mai l’aria di un tranquillone: ma siamo in molti, qui dentro, e stiamo già affilando le forchette per il prossimo digiuno.
Surgical Steel
Pensare che a un certo punto della loro vita i Carcass abbiano fatto soldi e siano finiti sotto contratto con una major ti fa pensare bene della razza umana. Poi le cose sono andate come sono andate e forse ai Carcass è mancato mezzo disco, solo mezzo, per entrare nel giro dei gruppi che hanno fatto il metal negli anni novanta. Non è vero: sono comunque tra i dieci-dodici più grandi di tutti i tempi e ci rode solamente che sia finita tutta d’un botto. Surgical Steel è rimasto lì per un po’. SoloMacello urla qualcosa su twitter, gli scrivo in privato e mi fa, beh, lo sapete come fanno quelli di SoloMacello quando ci sono di mezzo cose come l’ultimo disco dei Carcass. OAHAHAOA GAYNA P**C*****IIO PETTINATO e ti manda una traccia via mail e allora stai lì inebetito e pensi, diobono ANCHE NO. Aspetta. Passo indietro, di cinque o vent’anni.
La reunion dei Carcass è stata abbastanza pulita, tutto sommato: Jeff Walker ha rimesso insieme la baracca, il gruppo ha iniziato a suonare per i festival, la lineup si è aggiustata (Amott è uscito), le condizioni del batterista storico sono quelle che sono e il gruppo ha un disco nuovo. Quello che spaventa è che i Carcass sono la precisa cristallizzazione di un momento storico, un momento in fieri per giunta, in cui la musica rock stava chiedendosi da che parte andare e ha avuto le palle di darsi delle risposte prima di pensare se fossero giuste o sbagliate. Se ascolti Necroticism e Heartwork, tuttora, esce fuori uno spirito che ti lacera la pelle. Il bistrattatissimo Swansong, con tutte le sforbiciate e i compromessi e le ri-registrazioni, è quasi più intenso.
Surgical Steel è così. La recensione di SoloMacello è sufficientemente buona da poter essere linkata e non discussa. Quello che ti devasta di Surgical Steel è che abbiamo un gruppo ai livelli: è difficile dire a quali livelli, perché la carriera dei Carcass è fatta di mutazioni e compromessi. Surgical Steel li inchioda in un periodo e nel farlo definisce per la prima volta il genere musicale del gruppo. Nega la fondamentale verità sul gruppo per cui ognuno ha il proprio disco preferito (il mio è Reek of Putrefaction perché sono banale). Ridefinisce la nostalgia come cut-paste su un periodo storico difficilissimo da decodificare con gli occhi e le orecchie di oggi: un momento in cui l’estremismo, per quanto possa sembrare banale scriverlo, era soprattutto una necessità e si sviluppava sia punendo gli altri che spezzando la schiena a stessi. Il fatto che Surgical Steel possa essere fatto risalire sostanzialmente all’incarnazione carcassiana che produsse Heartwork sembra una contraddizione in termini. Non lo è per tre motivi: il primo è che non è lecito aspettarsi un salto nel buio da gente che sciolto il gruppo s’è barcamenata tra stoner, Skynyrd e musica country. Il secondo è che Surgical Steel trabocca amore di musica assoluto ad ogni solco. Il terzo è che i motivi sono sempre tre. Limitiamoci al punto due, che poi è l’unico che conta: la capacità di analizzare il nuovo album dei Carcass da un punto di vista storico/critico/globale sparisce più o meno a metà del primo giro. È la stessa cosa che capita con i film di John Carpenter: c’è troppo amore e ti arriva tutto in faccia. Così che Surgical Steel, per una volta, diventa l’incarnazione della retorica pelosa del vecchio che ti rompe il culo e ti insegna a suonare. Perché, di fatto, non è altro che questo.
Gente che torna a usare le parole giuste, ovvero COME FARE A NON TORNARE e i FBYC
Non sono dentro a nessun giro, come si sa, non ne sapevo un cazzo e quindi mi viene da pensare che da un paio di anni a sta parte questo sia il periodo FBYC anche se i miei sensi di ragno non hanno funzionato e non mi hanno fatto vedere gemelle con la maglietta dei Mineral che si tengono per mano in corridoi con un sacco di porte; la Zona Cesarini delle maniche corte e di quei pezzi lì che suonano in quel modo lì che sappiamo, il Pitturato da cui vanno tagliati fuori un paio di concetti della nomenclatura abusata tipo SCENA, GENERAZIONALE e INVECCHIARE BENE, perchè si è speso troppo e male di tutto in quella direzione. Riguardo ad altri dischi dello stesso filone sono arrivato a leggere, sì proprio su quel sito lì dai che si capisce, che questi dischi punk qua cantati e suonati e raccontati in un certo modo stanno diventando derivativi e ripetitivi, che è un po’ come andare ad un concerto dei SunnO))) e lamentarsi del fatto che non si capiscono gli accordi. Ma andate affanculo.
L’avete capito che è uscito, fuori dal nulla come i nei dopo troppo lampade, il disco nuovo dei Fine Before You Came e che non chiamerò EP perchè è un disco punk e non esistono EP punk, ma solo dischi punk con un certo numero di pezzi-pochi-o-tanti. Questi sono cinque pezzi nuovi che ho ascoltato più volte mentre percorrevo in bicicletta la tratta Adria-Fasana-Cicese-Pezzoli-Lama-Gavello-Magnolina-Adria, sono circa trenta kilometri di campagna e vento contrario che ti gasano abbastanza. Qua sotto metto una gif animata che lo dimostra.
Finalmente anche i FBYC hanno fatto il loro disco zeppo di neri e grigi, che va digerito con i quattro stomaci delle mucche e solo dopo che sono stati presi a pugni dal didentro tutti e quattro si inizia ad intravedere qualcosa arrivando a dare un senso anche a quel progetto che è stato VRCVS, capendo anche l’influenza liminale e fluida che ha avuto quel disco di HAVAH che si chiama Settimana (io dentro a questa roba nuova dei FBYC sento che quel disco lì a loro è piaciuto particolarmente, non so, potrebbe essere una cazzata). Mi era sfuggito a suo tempo il quadro entro cui andare a collocare VRCVS, mi era rimasto lo spazio vuoto nel muro col contorno della polvere (semicit.). Voglio dire, mi era piaciuto, ma non lo capivo, non l’ho capito, sto iniziando ora dopo averne ascoltato l’appendice completa in questi cinque pezzi. Che sono spessi, sono pesanti e ti si schiantano sulla groppa: non sulla gobba o sulla schiena, proprio lì sulla groppa, e ti fanno piegare un sacco. E trascinare i piedi e dimenticare di quando si urlava della gente che ti cerca a Settembre, del vecchio sulla spiaggia e di Dublino. COME FARE A NON TORNARE cestina gran parte di tutto quello che c’era prima, non è un disco generazionale che parla di generazioni di giovani vecchi che si incontrano ai concerti, non è un disco che parla di nostalgia con immagini del volersi bene, non è un disco che serve a istruire ed avvicinare gente. E’ un disco che torna a usare le parole giuste, come si diceva lassù nel titolo: lividi, essere stanchi, non sapere, non essere soddisfatti ma fortunati. Inverno a Giugno, riffoni e quella batteria alla fine che pesta un sacco, ma per davvero.
Francamente è un esperimento che mi garba parecchio, era ora di fare il singalong da tristoni veri e ingobbiti ai concerti.
disco dell’anno.
Ultimamente l’indie rock va considerato come un gioco di sottoinsiemi e sbucciato come una cipolla. Non è proprio una metafora ma ci andiamo vicino. Prendi quello che viene definito indie rock e togli tutti quelli che è definito così per convenzione, la roba major, la roba indie distribuita major e tutto il resto. E questa è la discriminante di base, poi si va a pescare nei sottoinsiemi in maniera arbitraria: ci sono quelli che tendenzialmente scendono a compromessi e quelli che tendenzialmente no; scegli quelli che non, dividi tra gruppi storici e gruppi di nuova formazione, scarti questi ultimi, rimane una ventina di nomi. Di questi prendi quelli che non si sono riuniti negli ultimi dieci anni ma hanno continuato sempre –a fasi alterne, coi loro ritmi e quant’altro- a lavorare. Dopodiché decidi di considerare quelli che (nonostante non siano major, non scendano a compromessi col mercato, non si siano mai sciolti e lavorino con costanza) ogni volta che li vedi salire sul palco sono contenti come dei bambini. A questo punto ti ritrovi in mano (se non erro) due sole carte: Nomeansno e The Ex. Non a caso fanno parte più o meno dello stesso giro: hanno fatto il punk, hanno superato il punk, hanno iniziato a imparare a suonare, sono diventati musicisti della madonna, hanno collaborato con un sacco di gente e stanno ancora a scaricarsi il furgone in posti improbabili di provincia, poco prima di salire e dare la paga a qualunque altro gruppo abbia mai suonato una chitarra in pubblico. C’è anche da dire, comunque, che i Nomeansno non pubblicano un disco da sette-otto anni, mentre gli Ex continuano a sparare sul mercato dischi bellissimi nell’ordine di uno o due all’anno. Quella di cui andiamo a parlare, in ogni caso, è un’occasione speciale: la formazione che incide il disco è la stessa che abbiamo visto l’estate scorsa in giro per l’Italia e si chiama THE EX & BRASS UNBOUND (obbligatorio il caps lock). È composta dagli Ex, ovviamente, nella nuova formazione con Arnold de Boer che canta e suona una chitarra in più; e da un quartetto di fiati composto dalla miglior gente sul mercato: Ken Vandermark, Mats Gustafsson (il quale per il secondo anno a fila suona nel disco dell’anno: nel 2012 era quello di Neneh Cherry & The Thing), Roy Paci (che emenda in un solo colpo tutto una decina d’anni di Puglia Sounds e Concertoni del Primo Maggio) e Wolter Wierbos. È un disco degli ultimi Ex, molto solare e al contempo molto politico nei testi, che tira botte in faccia dall’inizio alla fine. Fate conto di ascoltare un disco tipo il primo con Getatchew Mekuria ma composto solo di otto variazioni della prima traccia. È roba che sprizza amore per la musica e presobenismo in qualunque solco si metta la puntina del disco: suona dritto per tutto il tempo, con Katherina Bornefeld sempre più in primo piano rispetto al resto del gruppo. Enormous Door è esaltante soprattutto per come riesce a devastare ogni pregiudizio sul mefistofelico incrocio tra punk e fiati, svilito da vent’anni di ritmi in levare e terzomondismo a poco prezzo: sentite come si intrecciano nel sensazionale Theme from Konono n.2 (alt-version di una jam uscita originariamente su Turn) e nella reprise di Bicycle Illusion da Catch My Shoe. Roba che ridefinisce il concetto di classe, puro e semplice.
Quello che più preoccupa è che di fronte agli Ex cadono le credenze più basilari che abbiamo. Gli Ex sono in giro da quasi trentacinque anni, io li ascolto assiduamente da quindici e sono assolutamente sicuro di non averli mai considerati più in forma di oggi. Nessun altro che produce musica oggigiorno, siano vecchi arnesi del rockenroll senza data di scadenza o giovani punk senza radici ma con un sacco di fotta, NESSUNO suona così fresco e concentrato su disco. Come sempre, ha ragione Steve Albini:
STREAMO/TrueBelievers/StareBene/DISCONE e altre cose sul nuovoWolf Eyes
La prima volta che ho letto il nome Wolf Eyes, come quasi tutti in Italia, è stato su Blow Up. Erano i primi anni duemila e si parlava con un certo entusiasmo di qualche uscita a loro nome, poi collegata a tutto un discorso di nuova musica wave e nuova musica industriale, che tuttora mi ronza nelle orecchie. Ho letto e sedimentato, un momento in cui Blow Up e la musica sembravano nutrirsi a vicenda di questa sorta di energia che li spingeva tutti nella stessa direzione. Ho scoperto abbastanza presto che i Wolf Eyes erano, effettivamente, uno dei gruppi più interessanti del periodo: registrazioni carbonare licenziate sul mercato a botte di venti o trenta l’anno, nei formati più disparati e con in calce nomi di etichette assurdi che negli anni a venire avrebbero ossessionato un intero immaginario. Anche solo metterne in condivisione i dischi su Soulseek ti faceva sentire un punk di prima categoria o una specie di grande diffusore della Cultura, a cui un certo punto persino il mondo esterno prima o poi sarebbe arrivato riconoscendo implicitamente il nostro ruolo di teste di ponte (c’era già arrivato, ovviamente, due minuti prima di noi). Ho scoperto abbastanza presto che essere fan dei Wolf Eyes e del NOISE richiedeva una dedizione ed uno stipendio assolutamente maggiori di quelli di cui disponevo ai tempi. Dischi in vinile colorato stampati su un lato solo e tirati in poche decine di copie; cassette a tiratura ugualmente limitata smerciate più o meno a caso ai banchetti di qualche festival europeo a tema in cui era possibile assistere alle performance; amici che risparmiavano per mesi prima di quell’evento e si portavano a casa edizioni immancabilmente limitate e scrause pagando trecento euro a botta; si fa presto a sentirsi inadeguati, uomini non-nuovi, adepti di seconda o terza categoria destinati a una più che prevedibile abiura del NOISE una volta che quei suoni fossero passati di moda.
L’unico modo di continuare a quei livelli, nel noise, è di diventare artista. Ovviamente a un certo punto lo faccio, un po’ lo facevo anche prima ma ora lo faccio con uno spirito. Lo stupore intrinseco alla scoperta che certa musica può interessare a qualcuno che non sei tu. Registro cose con un mangianastri, aggiungo stronzatine fatte con una strumentazione rimediata e composta (vado a memoria) da tre pedali, un mixer, una tastiera, qualche microfono a contatto piazzato ovunque, un vecchio lettore CD dotato di un tasto per i loop e via; il pezzo forte era un Kaoss Pad 2 comprato a un centinaio di euro ad un amico, utilizzato un paio di volte e ributtato nel cestino. Il valore artistico della musica oscillava quasi sempre tra il ripugnante e l’inascoltabile, e le cassette/gli mp3 sono giustamente rimasti in un cassetto finchè la vita è andata necessariamente avanti e mi ha imposto di buttare le macchinette e ricominciare, boh, a disegnare; la mancanza di dedizione alla CAUSA ci ha imposto di rivedere il nostro asse critico ed abbiamo più che volentieri declassato l’harshnoise a un baraccone di idioti che (a parte pochi nomi, dei quali peraltro manco eravamo così convinti) sfruttava l’hype intorno a Wolf Eyes e simili come un trampolino di lancio per fare cagnara con macchinette autocostruite invece che con le vecchie autoghettizzatesi chitarre, senza alcuna idea alla base della musica stessa a parte il puro casino e a qualche cicatrice autoinflitta nei fortunatamente rari concerti dal vivo. Per poi bollarlo come una sega mentale artsy-fartsy non appena abbiamo visto comparire (tipo ai tempi dell’esplosione di un Prurient) il sospetto che la musica di qualcuno si fosse estesa oltre le bestemmie sputate in faccia a un pubblico di dieci stronzi con un microfono effettato a boia. Le storie di ascesa e caduta, nel rock e derivati, sono tutte riscritture apocrife della rivoluzione francese. Nel periodo di monomania riesco persino a farli piacere a qualche collega di lavoro, con il risultato di ritrovarmi di lì a un anno in discussioni in cui è LUI a raccontarmi per filo e per segno progetti di secondo e terzo grado di gente che ha suonato il corno in una cassetta dei WE uscita nel 2004 su American Tapes dicendomi cose tipo questa te la devi assolutamente sentire ti faccio un disco di mp3 mentre tu pensi quanto tempo da perdere ha ‘sto tizio. E poi? Boh, più niente. Circa un lustro fa smettono di uscire dischi a nome Wolf Eyes e i membri si fanno vivi solo in proprio.
È abbastanza commovente riascoltarsi oggi i dischi dei Wolf Eyes. L’ho fatto la scorsa settimana: ho iniziato per caso trasferendo dischi da un appartamento all’altro e ripescando dalla pila dei disastri sfilati a qualche distro una delle collaborazioni con i Black Dice. Bello, per niente noioso, per niente gratuito. Ho ricominciato così, un po’ alla volta: Burned Mind che continuo non-originalmente a pensare sia il loro disco definitivo, Human Animal di qualche anno seguente, sempre su Sub Pop, sempre bellissimo. Slicer che forse era uscito su Hanson qualche anno prima, il disco (bellissimo anche questo) con Anthony Braxton. Al momento sono fermo qui. Probabilmente sono partito dai miei preferiti, ma è difficile guardare indietro a quegli anni e trovare un gruppo così amato allora che ancor oggi suona così dentro i tempi. Gran parte del merito è da darsi ovviamente all’eleganza formale dell’estetica del gruppo, oltre ovviamente alla capacità di Nate Young di ottenere un risultato specifico e peculiare a partire da qualsiasi suono. O alla sua capacità di selettore della propria musica capace di buttare sistematicamente nel cestino la roba non interessante o comunque riservarla ad uscite che finisco per non ascoltare. Resta il fatto che il nome Wolf Eyes continua ad essere –parlando di America- la pietra miliare del NOISE così come lo conosco io: al nome Wolf Eyes è associabile quasi tutto quel che so di questa musica, a partire dai padri fondatori per arrivare alle deviazioni freejazz a cui in qualche modo sono giunto ascoltandoli, a una manciata di etichette con nomi tipo Bulb o Hanson o Hospital o American Tapes ma anche Important e Troubleman che li hanno fatti uscire, a duecento side-project dei membri del gruppo, duecento gruppi con cui sono usciti split o dischi in formazione allargata e via di questo passo. Parlando di NOISE, in quella accezione, Wolf Eyes è quasi un genere musicale in sè.
E certo è una notizia che stranisce quella che una nuova formazione del gruppo senza Aaron Dilloway (presente come ospite su una traccia), quattro anni dopo le ultime uscite a nome Wolf Eyes, torna sul mercato con un disco nuovo intitolato No Answer: Lower Floors e viene ospitata su Pitchfork Advance –quindi per certi versi esce con lo stesso hype riservato ai nuovi Strokes* o Yo La Tengo. Siamo ai primi ascolti ma il disco sembra comunque buonissimo: NOISE di sapore molto industrial (in senso buono), per nulla gratuito, costruito su un equilibrio impossibile e su un profilo bassissimo, quasi ad elemosinare nella sua estrema eleganza un posto qualsiasi ai margini dello spettro musicale. Ancora una volta familiare ma al contempo non allineato, ed animato da questo senso di necessità che anche spento il player non accenna ad andarsene: un disco il cui solo essere uscito è una dichiarazione politica che ci colpisce dove fa più male: io ho mollato, i miei conoscenti hanno mollato, il NOISE in molti casi ha mollato. Wolf Eyes è ancora qui in forma smagliante: non sembra potersi permettere di essere altrove.
*mi chiedevo tra l’altro se nel caso di un disco come Comedown Machine sono gli Strokes a pagare per finire su Pitchfork Advance o se è Pitchfork a pagare gli Strokes per l’esclusiva. Quante cazzo di cose che non so.
DISCHI STUPIDI: Black Pus – All My Relations (Thrill Jockey)
Non credo di dover spiegare a nessuno di quelli che sono qua dentro a parte quelli che sono entrati cercando Maria Nazionale nuda su google (MI FATE SCHIFO, stiamo qua a leggere libri e sentire dischi e guardare film indipendenti sei ore al giorno e diocristo state ancora a cercare su internet le tette grosse) chi siano i Lightning Bolt. Lo faccio lo stesso: i Lightning Bolt sono un gruppo basso-batteria che replica dal punto di vista industrial-noise l’assetto di base di un pezzo cock-rock anni ottanta alla Van Halen. Tapping selvaggio e batteria che rulla all’infinito, il tutto scomposto e ricomposto in un formato che rasenta l’inudibile –incidentalmente, la cosa più bella che fosse dato vedere su un palco negli anni duemila, anche se la band dal vivo suona in mezzo alla gente. I Lightning Bolt ci hanno dato una manciata di dischi, tutti sostanzialmente identici l’uno all’altro e perlopiù pleonastici (il mio preferito è Ride The Skies per via del fatto che è quello che ho ascoltato per primo): la si potrebbe definire un’esperienza fisica pura, una cosa di quelle che vanno fatte dentro a qualche squat e poi archiviate vitanaturaldurante al giusto status di blow-up-sensation, nel senso della rivista, che ha nutrito i nostri sogni per fin troppo tempo.
Il che non toglie che noialtri Blow Up continuiamo a leggerlo. È così che siamo rimasti più o meno informati di tutte le vicende dei due musicisti che compongono la band: Brian Gibson, bassista, figura come membro di diversi progetti quasi tutti in capo a Load e sembra occupare (tra le altre cose) un posto di rilievo in una casa produttrice di videogame; il batterista Brian Chippendale è una specie di figura chiave per comprendere il nostro tempo, pittore/fumettista di fama ormai mondiale e batterista di lusso convocato alla corte di Bjork, Boredoms e chissà chi altri. Da qualche tempo Chippendale è il tenutario di una one-man-band chiamata Black Pus, la quale esce questi giorni con il suo (credevo secondo e invece) OTTAVO disco, primo su Thrill Jockey, chiamato All My Relations. Al confronto i Lightning Bolt sono i Pink Floyd: filastrocche berciate su pattern di batteria garage-rock stirati fino allo sfinimento, pedali a non finire, tastierine di merda e un’inclinazione a mandare tutto in vacca alla fine del pezzo che persino Kevin Shea avrebbe avuto delle remore morali. La chiave più ovvia in cui vedere All My Relations e (immagino) il resto della produzione Black Pus suona più di quel genere di ossessione e del bisogno di Chippendale di registrare e pubblicare qualsiasi cazzo gli esca dalle mani, in una maniera un po’ Omar Rodriguez o Kawabata Makoto; ma il batterista sembra animato da un’inclinazione più meccanica degli arzigogoli psichedelici dei personaggi di cui sopra, con il risultato che un disco come All My Relations suona più o meno come la cosa meno sperimentale sia mai stata incisa da un uomo. Si trova più tracce (a torto, naturalmente) di una certa ossessività bambinesca alla Chrome, del noise marcio e americano in culo dei dischi griffati AmRep, di certi Suicide (ovviamente) degli anni d’oro di Skin Graft. Sembra stupido dirlo così, ma nell’immediato un disco come All My Relations suona davvero come una delle musiche più brutalmente schierate, dal punto di vista politico, dell’America contemporanea. Avercene, di uomini come Brian Chippendale.
(il disco è su pitchfork advance)