Rapidissima stima della misura del cazzo di Kanye West

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Ok in pratica qui Kanye West sta scopando Kim Kardashian su una moto (il video è quello di Bound 2, verso la fine, virato bianco e nero perchè è la settimana grind ma insomma, giuro di non avere fatto fotomontaggi; il video è una merda, e gli opinionisti si stanno dividendo tra chi pensa che sia una merda e chi pensa che sia talmente una merda da fare il giro). ponendo che non stia solo millantando di farlo e abbia davvero il proprio pisello dentro la ragazza, e mettiamo pure che questo screenshot abbia colto il momento in cui sia Kanye che Kim stanno tirando indietro il culo e quindi Kanye sia dentro solo con la punta, segue una rapidissima stima della lunghezza del pene di Kanye West stesso. Ho contrassegnato con due croci i punti possibili in cui possiamo trovare l’attaccatura dei genitali dell’uno e dell’altra. Viene fuori dall’incrocio una linea retta che ho traslato sul braccio di Kanye, alla stessa altezza. In altre parole la misura del cazzo di Kanye West è la stessa del suo braccio dall’attaccatura della spalla alla parte più grossa dei muscoli dell’avambraccio. Qui purtroppo è possibile vedere anche le mie lacune nel glossario di anatomia.

Kanye West, scopro su internet, è alto un metro e settantanove. Io sono alto un metro e settantotto. Sul mio braccio quello sbarrone che vedete vuol dire CINQUANTATRE CENTIMETRI CAZZO, che a fronte di un possibile errore (per eccesso o per difetto), è appunto la stima per difetto della misura della bega di Kanye West in tiro, MENO la parte che sta dentro a Kim Kardashian nello screenshot in questione.

hai capito Kanye che bomber.

i Cani

igani1 Due anni fa è uscito il primo disco in italiano della mia banda e il primo disco dei Cani, che sono una banda di Roma dove i pezzi però li fa una sola persona. L’anno dopo abbiamo fatto uscire assieme 500 copie di un vinile dove i Gazebo Penguins e I Cani si dividevano i 45 giri al minuto di un 10 pollici. Da quel periodo, circa, e dopo un paio di concerti assieme, è capitato di sentirsi e vedersi ai concerti a Roma e via dicendo. Poi ogni tanto ci si sente. E quando c’erano i rispettivi dischi nuovi in ballo ci si passavano provini e cose così da mercoledì notte. Ora è uscito Glamour, che è il nuovo disco, e ci siamo fatti una chiacchierata.

> Partiamo dalla violenza. Esce un pezzo nuovo dei Cani, e cominciano le molestie. Perché secondo te un gruppo come i Cani ispira violenza? O ancora: perché certa musica ispira violenza? Parlo di violenza prettamente verbale, prettamente schermata, da dietro uno schermo, mai de visu; come se sparare su chi fa musica, o scrive, o quel che te vo’,  sia un bersaglio più nobile, più sensato, più giusto in un certo senso; come se nell’esperienza di fare qualcosa di creativo (intendo tutto quello che crea qualcosa che prima non c’era e non è mera riparazione) fosse obbligatoriamente instillata le possibilità della berlina, molto più che per un meccanico o per un idraulico. Sarà anche che è una “violenza” che fa parte di una porzione di mondo che ci riguarda di più, e quindi su cui siamo più attenti, più perspicaci, perché è quello che facciamo, ergo quello che vediamo meglio, distinguiamo di più. O forse perché c’è un’iper-valutazione del ruolo di chi fa musica, una specie di sproporzione tra quello che viene fatto (canzoni, concerti e qualche altro paio di stronzate) e quello che viene percepito (canzoni, interviste e più di un paio di stronzate). Come vivi questa faccenda che le tue canzoni fanno incazzare? Quanta frustrazione crea e come va vissuta (considerando che per il 90% dei casi viene da persone con cui probabilmente non andresti fuori a cena)?

Il chiedermi perché di tutta questa violenza è stata una questione che mi ha preso tantissimo, fin da quando è uscito il primo disco. Io capisco perfettamente che a uno non possa piacere un disco, che questo disco possa anche suscitargli sentimenti di fastidio (capita anche a me), quello che proprio non mi viene facile da capire è quel passaggio successivo in cui se non ti piace una cosa devi aggredire chi l’ha fatta o chi la ascolta. Poi boh, forse per me è diverso: le persone che ho conosciuto che stanno su un palco e cantano in genere sono molto sicure di sé, gli viene spontaneo e naturale interagire con le altre persone, etc. etc., tutte cose che io non ho moltissimo, e forse per questo quando è arrivata tutta la vagonata di merda che è arrivata (dal complottismo alla più feroce minimizzazione del lavoro che avevamo fatto fino ai puri e semplici auguri di morte) invece che scrollare le spalle e dire “haters gonna hate” ho fatto quello che mi riesce meglio: rimanerci male e pensarci su per moltissimo tempo. Da queste riflessioni sono nate domande tipo “perché c’è automatica ammirazione/interesse/stima/invidia nei confronti di chi fa roba creativa rispetto a chi fa roba più concreta?” (come dici tu, nessuno si mette a fare polemiche su internet sul lavoro di un idraulico), oppure “su internet bastano 40 persone in tutta italia per fare una folla che si azzuffa, non è che stiamo perdendo le proporzioni di quanto sono grossi i fenomeni, di quanto quello che su rockit/facebook/tumblr chiamiamo IPERGRANDISSIMOENORMESUCCESSO sia poi qualcosa che effettivamente ha una rilevanza nel mondo?” (da qui i “quattro poveri stronzi” di Twee, che non avevano nessuna accezione offensiva: qui a Roma quando si dice “quattro poveri stronzi” è sempre con una certa tenerezza, ma capisco che si tratti di un regionalismo che probabilmente avevo calcolato male), fino a “ma perché siamo così ossessionati dalla fama, dal successo, da tutte ‘ste cose qua?” e poi credo che da queste domande, o meglio dallo stato mentale di riflessione su queste cose, siano nati i pezzi del disco. Poi ci sarebbero anche mille altri discorsi da fare sulla questione della violenza: uno, molto semplice, è quello che sintetizzo con “Sò ragazzi”, nel senso che durante l’adolescenza la musica per molte persone (è stato così anche per me) è una sorta di stampella su cui sorreggi la tua personalità non ancora del tutto formata o sicura, quindi i dischi non sono una roba che valuti serenamente, bevendoti un bicchiere di cognac e fumandoti un buon cubano, ma una cosa che ti chiama in causa a livello molto viscerale e profondo. Poi c’è la questione di come la comunicazione su internet (specie quella anonima o semi-anonima) porti automaticamente ad aumentare i toni, a trasformare tutto in insulto o polemica, a evitare le mezze misure, o (cosa che succede in modo particolare con I Cani e che forse è la roba che mi fa girare i coglioni più di tutti) a far vedere che chi scrive è uno che la sa più lunga di tutti: quindi il linguaggio è dominato dall’aggressività e dal dover dimostrare non si capisce cosa a non si capisce chi. Poi c’è la questione del “tanto meglio!”, ovvero: se una roba piace a tutti vuol dire che è sostanzialmente innocua, che non ha niente che arriva direttamente all’ascoltatore e gli fa avere quella reazione di violenza. Se non ci fosse stato nemmeno un po’ di hate rispetto a questo secondo album, mi sarei seriamente preoccupato.  

> Ogni canzone racconta qualcosa, e quindi è un racconto. Quanto conta che un racconto generi altre storie possibili e quanto invece che il racconto sia una bella storia in sé e amen? Voglio dire: penso alle persone reali o ai riferimenti da storia che compaiono (Nabokov, Manzoni, De Andrè, Bianciardi, Pasolini, Jay Z, Piero Ciampi, Thurston Moore, …), che diventano snodi di senso, allargamenti di storie in una Storia più vasta, penso a quanto certi racconti nel disco siano poi il veicolo (per me) per fare altri percorsi, collegamenti. Che magari faccio io perché di certe cose forse c’è il caso che ne abbiamo parlato, o li faccio io perché mi piace farli. Non so se la domanda è chiarissima.

Io ho quest’idea che le canzoni debbano essere una roba un po’ viva, cioè, per me non devono essere un monolite da contemplare nella sua inspiegabile bellezza, ma più tipo una costruzione di Lego che puoi divertirti a prendere in mano, girare, smontare etc. Mi piace l’idea che uno possa ascoltare distrattamente e dire “ah, carino”, ma poi accorgersi che dentro ci sta quella cosa che rimanda a quella cosa che rimanda a quell’altra cosa, etc. etc. Tra l’altro per me, più riferimenti concreti ci sono, e più riesco a entrare dentro quella canzone, farmi coinvolgere. C’è un verso degli Of Montreal che dice “I fell in love with the first cute girl that I met / who could appreciate Georges Bataille / standing at the Swedish festival / discussing Story of the eye”: io quando l’ho ascoltato non ero mai stato a nessun festival svedese, non avevo idea di chi fosse Bataille, di cosa fosse Storia dell’occhio, ma poi mi sono andato a cercare queste cose, e queste poche parole sono diventate un micro-racconto in cui riesco a vedere tantissime cose, uno stato emotivo ben preciso, e quindi sentirmi coinvolto personalmente, molto più che in un verso generico da canzone d’amore tipo “mi perdo nei tuoi occhi”, che, boh, sì, mi sarà pure capitato di guardare a lungo una persona che mi piaceva, però sticazzi, è molto più interessante quell’altra cosa su Georges Bataille! Secondo me è molto più semplice lasciare qualcosa all’ascoltatore raccontando qualcosa di specifico che qualcosa di generico.

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> Sticazzi a me che non traduco mai una fava da chi non canta in italiano. Quel verso degli Of Montreal spiazza. Mai avrei pensato di trovare La Storia dell’occhio in una canzone. Degli Of Montreal poi. A questo punto stiamo un altro po’ sui testi. I primo pezzo uscito è Non c’è niente di twee, che è il pezzo che nel testo si raccorda di più col disco precedente. Che però mi pare si stacchi da quest’ultimo per un affollamento di personaggi  rispetto a una prima persona singolare che invece è portante in Glamour (il lavoro vero, in ufficio mi vesto da adulto, le mie interviste, sotto alla mia giacca sudo, vorrei stare sempre così i soldi per mangiare, i dischi, i videogiochi e basta: dichiarazione di poetica?), che però rientra dalla finestra (il primo disco, intendo) in tantissimi passaggi che c’entrano col successo, col suonare, con le faccende legate alla musica (radio, contatti, interviste), con tutto quanto è partito nella tua vita un paio d’anni fa con l’aver fatto uscire delle canzoni. Volendo potresti farci saltare fuori una domanda.

Dopo aver scritto così tante canzoni sul quartiere, sulla città, sul presente, le uniche strade percorribili erano o guardarsi fuori, ma veramente fuori (e in realtà provo a farlo in “Storia di un artista” e “San Lorenzo”), oppure dentro, ma veramente dentro (praticamente tutte le altre). “Twee” effettivamente è il primo testo che ho scritto (quando ho iniziato a buttarlo giù non era ancora stato pubblicato il primo disco), e infatti come giustamente rilevi è quello in cui ci sono più echi di quella dimensione lì. Poi boh, credo che lo sguardo un po’ distaccato del primo album continui a esserci anche in questo, solo che si rivolge a cose diverse, e che ci sono dei rari momenti in cui molla un po’ la presa e diventa meno distaccato. Nel primo album non avrei mai ripetuto una frase per due minuti come in “Corso Trieste”.

> Quando dici “guardarsi veramente fuori” citi San Lorenzo che, secondo me, assieme ad Introduzione, sembrano staccarsi dalle altre del disco a livello di contenuto e di stile del racconto. Più impersonali, più assiomatiche, meno narrative. Nella prima dici: “l’esistente è anch’esso pane per i nostri denti, non si può correre soltanto dietro ai sentimenti” (Introduzione) e sembra che si crei una dicotomia tra ciò che esiste e i sentimenti (che non esistono?). Cosa intendevi?

Qui invece hai beccato esattamente le due che ho scritto per ultime! Il fatto è che tutte le altre canzoni sono state scritte in una (lunga) fase di grande vulnerabilità e autoanalisi. Se fossi rimasto in quella fase, col cazzo che avrei trovato la forza (e/o il coraggio) di finire il disco, registrarlo, pubblicarlo, etc. Quando ho scritto Introduzione, che è una canzone che suona molto solenne, sicura, assiomatica come dici tu, ho capito che forse in qualche modo ne ero uscito. Comunque: senza addentrarci in discussioni di metafisica, quando dico “esistente” intendo ciò che empiricamente percepibile: in questo disco, anche quando parlo di me, cerco di dare degli appigli concreti all’immaginazione dell’ascoltatore. C’è tanta gente convinta che dire una parola come “Whatsapp” in una canzone d’amore sia una bestemmia, e invece dire una parola come “solitudine” va bene. A me sembra molto meglio dire “Whatsapp”, è una parola meno ambigua. Guardo con sospetto l’ambiguità, mi sembra troppo facile nascondere dietro all’ambiguità il fatto di non avere un cazzo da dire.

Nell’altra tutto il testo è incentrato su una riflessione cosmogonica – che a me ha fatto venire in mente il pensiero di Thillard de Chardin, anche se al contrario (senza cioè senza finalismo religioso) – abbastanza classica per il pensiero occidentale (vd. la piccolezza dell’essere umano rispetto alla natura; vd. Copernico, tutto il Romanticismo tedesco, Pascal, Leopardi, fino alle Cosmicomiche di Calvino) e in certi casi abbastanza cristiana come visione, ma decisamente fuori budget per una canzone pop. Che ci sta a fare?

Credo che guardarsi dentro sia una cosa interessante ma a lungo andare potenzialmente pericolosa. L’autoanalisi portata all’eccesso può trasformarti in un mostro: un mostro di egoismo, di autoreferenzialità, etc. Scrivere quella canzone è stato un po’ come dire “va bene, ci siamo divertiti, però ora basta”. A me personalmente quella che tu chiami “riflessione cosmogonica” sembra molto orientale: la ciclicità, il tempo che non ha inizio e non ha fine, l’individuo che si perde nell’universo, etc. Sicuramente faccio meno fatica a riconoscermi in una visione del mondo del genere che in quella cristiana. Per quanto riguarda il fuori budget: per me “pop” significa “leggero”, e gli artisti che ammiro di più sono quelli che trovano un linguaggio leggero per dire cose complesse, non facili, non ovvie. Io ci provo.

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Dici che tutto ciò che gravita attorno alla tua musica riguarda sì e no un manipolo formato da quattro stronzi (Non c’è niente di twee). In un ritornello dei Gazebo Penguins abbiamo scritto: “Mio nonno per quasi 70 anni è stato in minoranza e sta benissimo”, che di primo acchito, sapendo anche da dove veniamo, ha un chiaro risvolto politico, ma voleva anche essere una veloce riflessione sulla sensazione che si prova ad essere in meno, in una cerchia ristretta, che non coinvolge la maggior parte delle persone NEL MONDO, e che questa limitatezza in realtà non svilisce, non annichila, in certi casi anzi regala un senso più forte. Quanto t’importa che la tua musica arrivi alla maggioranza? Che superi le beghe da quartiere, che arrivi comunque?

Mah, guarda, in questi giorni ho letto sia “I Cani parlano a moltissimi ma non dicono un cazzo, allora è troppo facile, sono come Gué Pequeno”, sia “I Cani parlano solo a pochissime persone, non parlano a gente come mia madre”. All’interno della stessa discussione. Detto della stessa persona. Io vorrei avere un atteggiamento rispetto all’essere minoranza che non sia né di vergogna (perché non c’è niente di cui vergognarsi) né di eccessivo orgoglio (perché le cricche non mi piacciono e non mi piaceranno mai, e credo che il tentativo di comunicare con tutti sia positivo, soprattutto al giorno d’oggi). Quindi provare a parlare a tutti ma senza diluire quello che voglio dire. Non è facile, perché da una parte è molto confortevole l’idea di parlare solo a gente che parla già la tua stessa lingua, e dall’altra quando si provano a superare certi steccati c’è il rischio di fare ragionamenti tipo “hmmm questa cosa forse mi suona un po’ stupidina ma va bene così perché DEVE PARLARE A TUTTI”. Pochissimi riescono a tenersi in equilibrio. Io non so se ci riesco, ma il fatto che mi si muovano entrambe le critiche (parlare a pochi, parlare a troppi) mi sembra buon segno.

> Una domanda che invece arriva dalla redazione di Bastonate è: coi soldi saltati fuori dal primo disco che hai fatto?

Li ho spesi.

> Quando si prepara un disco una parte fondamentale dell’operato è sui suoni. Si passano ore su un basso, su una tastiera, magari su una svisa nell’ultima nota del giro di sinth del ritornello di Vera Nabokov, su cose che importeranno forse solo a noi, assolutamente fregandosene di chi ascolterà, di cosa penserà o se lo sentirà, semplicemente perché vogliamo quella cosa lì, una specie di perfezione molesta la cui assenza ci farebbe dire: così non va. Quanto hai lavorato sui suoni? quanto contano?  In questo c’è una batteria vera e un batterista che la suona e hai lavorato con Enrico Fontanelli degli Offlaga per gli arrangiamenti e il lavoro sui suoni. Perché?

Per un gruppo come I Cani il suono è fondamentale: credo che i pezzi farebbero tutto un altro effetto se suonassero diversamente, così come non potrei mai pensare di affidare l’intera produzione a qualcun altro. D’altra parte non volevo rimanere intrappolato nelle scelte del primo disco, e quindi l’idea di chiedere a Enrico di collaborare alla produzione: oltre ad adorare gli Offlaga in generale, ero rimasto estremamente colpito dalla produzione Gioco di società, lontanissima da quella del primo dei Cani, e proprio per questo ho pensato che collaborare con Enrico poteva aiutarmi a dare più “profondità” al suono del disco, obiettivo che, per quanto mi riguarda, è stato raggiunto in pieno. La scelta della batteria vera (scelta su cui tra l’altro è stato lo stesso Enrico, insieme a Giacomo che ha mixato il disco, a incoraggiarmi molto) è stata dettata da ragioni simili: provare a vedere cosa sarebbe successo uscendo dalla bidimensionalità ipercompressa del Sorprendente (che comunque non rinnego affatto, eh). Poi credo che non esistano punti di arrivo, e che nessuna scelta sia definitiva: per me il gioco è proprio vedere fino a dove riesci a spingere il suono dei tuoi pezzi facendo sì che continuino a suonare come tuoi pezzi.  

> Paura. Stai per cominciare un nuovo tour, “paura del buio soprattutto su un palco”, l’altro com’è finito, com’è stato, come ti sentivi, quanto era routine e quanta fotta, e quanta fotta hai per il nuovo, come sarà dal vivo questo disco, oppure altro.

Sicuramente non mi sento uno che è nato per stare su un palco, ma ci provo. In questo tour, come in quello precedente, ci siamo sforzati parecchio di trovare una formula che fosse onesta nei confronti del pubblico: quando fai musica elettronica non sempre è facile, e mi sembra che troppi gruppi finiscano per dire “vabbè, buttiamo tutto in base e suoniamoci sopra due cazzate”, ma da spettatore i concerti del genere mi lasciano sempre molto deluso. Preferisco sentire una stecca, un’armonia vocale in meno, o qualche suono diverso/mancante che vedere uno spettacolo perfettamente preconfezionato. La differenza rispetto al tour precedente è che la formazione è leggermente cambiata, abbiamo curato di più il suono (come nel disco), abbiamo dato spazio a strumenti analogici in aggiunta al digitale (come nel disco), e usiamo solo strumenti “veri” (niente più computer con Mainstage!). Spero che la differenza si sentirà.

Ho dato una spulciata a qualche conversazione su skype che abbiamo avuto nell’ultimo anno, e a parte il fatto che ogni 3 mesi mi facevo vivo per chiederti consulenze informatiche, c’era scritto che un tuo amico doveva andare in Thailandia a registrare i rumori per un pezzo del disco. L’ha poi fatto?

Cris X ha registrato il vociare di ristorante che si sente in Theme from Koh Samui, appunto sull’isola di Koh Samui in Thailandia (o forse a Bangkok, non ricorda più bene, ma suonava più fico Koh Samui). Lì il punto era proprio mettere qualcosa che fosse il più lontano possibile da Roma, da tutte le cose comunemente associate al primo album, etc. Tra l’altro quel pezzo è uno dei miei preferiti del disco a livello di suono, e gran parte del merito va al mix di Giacomo.

> Il disco finisce con la parola FELICITÀ. E poi parte una ghost track in totale anomalia.

Mi piaceva l’idea di finire l’album con un pezzo (Lexotan) in cui fosse veramente difficile rintracciare qualsiasi traccia di cinismo. Poi parte una ghost track anomala, come dici te (tra l’altro presente solo nelle copie fisiche! CD e vinile): una sorta di frullato di tutto quello che era stato detto riguardo ai Cani all’epoca del primo disco (la romanità, i sintetizzatori, gli hipster, i giovani, etc.), però ribaltato. Boh, mi faceva ridere.

> Oh ciccio, divertiti eh. Cinque alto.

STRATEGIA DELLA TENSIONE EVOLUTIVA #3 – Amadeus imita Jovanotti a Tale e Quale Show (con gli ovvi richiami ad Amedeo Minghi)

(pezzo a quattro mani, Franci + Accento Svedese)

Francesco F Senti scusa, mi hai girato un video di Amadeus che canta Ragazzo fortunato di Jovanotti al Tale e Quale show e ora sarò di cattivo umore per tutto il giorno nonostante qui abbia potuto vederlo soltanto senza audio. La prima cosa a cui ho pensato è che diocristo con quella barbina e quei capelli lì Amadeus è davvero la  copia un po’ sciapa di Costantino della Gherardesca, il che tutto sommato implica che uno dei massimi intellettuali italiani della nostra epoca è fisicamente il mashup tra Amadeus e Lorenzo Cherubini con la vergogna che basta a non vestirsi come uno dei due. C’è altro? Dimmi dell’audio, ti prego. Dimmi perchè. Dimmi perchè Gabriele Cirilli che parrucca PSY e Gangnam Style non è -evidentemente- un punto d’arrivo. 
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Accento Svedese Pensa se avessi sentito l’audio. Amadeus è stonatissimo ed in sovrappiù per imitare Jovanotti fa la zeppola, con l’unico risultato di somigliare più a Max Tortora che imita Silvio Muccino che imita Amadeus che imita Jovanotti – una cosa psichedelicissima e pericolosa, insomma – che a Jovanotti stesso.
Poi canta Ragazzo fortunato, il cui testo, se applicato alla triste figura di Amadeus, si trasforma all’istante in un delizioso ossimoro. Amadeus, che ormai è talmente alla frutta da ridursi a partecipare a quel fantasmagorico carrello dei bolliti che risponde al nome di Tale e Quale Show (a proposito, ci sono anche Fabrizio Frizzi, Riccardo Fogli e financo Gabriele Cirilli, che l’ultima volta ha imitato Wanda Osiris ma quando dalla regia hanno fatto partire Gangnam Style ha iniziato a ballare come PSY – meglio dei barbiturici con l’alcool, insomma) perchè artisticamente parlando non si è mai più ripreso dal suo jumping the shark, il litigio con Pedro all’Eredità, che istantaneamente ha trasformato Pedro in una celebrità sotterranea ed ha rappresentato l’imbocco del viale del tramonto per il buon Amadeus.
Amadeus, che a Deejay Television quando ero piccolo veniva sfottuto da tutti (Fiorello compreso – ricordo una puntata estiva all’Aquafan in cui Fiorello canzonava Amadeus perché si era ustionato naso e faccia) e che continuo a chiedermi come abbia fatto ad arrivare così in alto, in quell’imitazione ha stonato tantissimo, si è rotolato per terra, ha baciato Loretta Goggi, ha entusiasmato la sua compagna Giovanna Civitillo, ha imbarazzato perfino quel gran maestro di classe & stile che risponde al nome di Claudio Lippi ma ci ha fatto assistere a quella che nel suo complesso è stata una delle scene televisive più tristi ed imbarazzanti di sempre, e questo basta. Quell’imitazione di venerdì sera in prima serata – che più che un’imitazione è un autentico rip-off – sta lì a certificare che Jovanotti è diventato uno dei più grandi intellettuali pop italiani senza nemmeno rendersene conto, anche se spiegare bene il perché è molto difficile.

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appunti per una rubrica pop di Bastonate che tolga Miley Cyrus da quel catenone e la inchiodi alla croce per pagare i nostri peccati.

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La prima cosa che si nota una volta smaltita l’incazzatura per le prime inquadrature del viso di Miley che piange, è che Miley ha tatuaggi. Tra i diciannove tatuaggi (secondo l’internet) di Miley Cyrus, quasi tutti bruttini e non troppo significanti, scopro esserci anche un quote di Teddy Roosevelt. TEDDY ROOSEVELT. So anche qual è il quote (una roba sulla purezza di cuore in odore di destra storica), ma non è importante tanto quanto il fatto che sia di Teddy Roosevelt. Mettiamo in fila i Roosevelt dal punto di vista della simpatia: primo Franklin Delano, secondo Theodore, terza la serie televisiva sui ragazzi e gli alieni demmerda che davano sui Raidue nei primi anni duemila. (scherzo) Pare che anche Liam Hemsworth si sia tatuato un quote di Ted Roosevelt, ma non lo stesso di Miley Cyrus. Liam Hemsworth che, en passant, ci piace ricordare ucciso da un calcio rovesciato di Van Damme (con aggiunta di pugnale) a pochi minuti dall’inizio di Expendables 2. Mentre inizio a pensare che la conversazione in questo bar abbia preso una piega che non gradisco, su Vine gli spoof del video iniziano a moltiplicarsi come l’ebola. Nessuno è divertente. Nessuno specchia niente. In una scala della moralità che va da zero a meno dieci, Miley Cyrus aveva già stravinto ai lontanissimi tempi (tre settimane fa?) dell’esibizione ai VMA con Robin Thicke e il ditone di gomma sul cazzo di lui e la fica di lei. Considerato il contesto generale, Wrecking Ball è semplicemente una prova di forza. Poi ti torna in mente l’inizio: perché Miley piange? Chiede preventivamente scusa per quello che sta per succedere? È una metafora dello stupro? Ti vuole spingere a non credere a ciò che sta per succedere? Ha una più pallida idea del fatto che sta facendo musica pop? Quanto di tutto questo è colpa di Terry Richardson? Sapete che se cercate Terry Richardson su google per prima cosa viene fuori il suggerimento TERRY RICHARDSON CHIARA FERRAGNI e appunto Chiara è stata fotografata da Richardson e con Richardson indossando un giubbotto con la faccia di Richardson a mo’ di stencil e senza (ironicamente) la scritta OBEY sotto? (magari sono due richardsoni diversi) A che pro mettersi a contestualizzare, o decontestualizzare, quando da una parte c’è comunque qualcuno che morde le briglie per poterti snocciolare il curriculum di Terry e certificare il suo genio (erroneamente, tra l’altro: voglio dire, guardati il video di Miley Cyrus) e dall’altra quelli che abbaiano meta ad ogni costo e la loro cazzo di esigenza fisiologica di far cadere tutto sul morbido? Io da parte mia ho deciso che me ne frego, ma qualcuno prima o poi dovrebbe mettere insieme una tesi di laurea, o almeno un tweetbook, sull’uso salvifico della lacrima nei video pop. Accettare le lacrime, non accettare le accette. Analisi ricalibrata della grammatica documentaristica del video pop. Relatore: Carlo Mario Calabroni (Semiotica III). Dentro ci metti la morte del Settimo Sigillo e di fianco la foto di Lady Gaga nel video di Applause. Alla discussione una troia supponente della commissione ti chiede se hai sentito mai parlare di Blixa Bargeld e tu gli rispondi con il testo integrale della prima traccia del disco con Teho Teardo. Forse sto sragionando. Non vi sentite ingabbiati dal fatto che tutti riconosciamo le citazioni di tutti? Che tutti i libri che abbiam letto li abbiam letti solo per metterci in pari? Stamattina l’amico Accento Svedese ha giustamente scritto su Twitter

Il vero segno del declino della civiltà occidentale è il ritorno del bomber e degli anfibi Dr. Martens nel 2013.

Giusto per rimanere sulla destra storica, ecco. Mentre da noi escono foto di Giovanni Lindo Ferretti abbracciato a Giorgia Meloni, registriamo la curiosa coincidenza per la quale il bomber è tornato in auge (o no) dopo essere stato vestito da Ryan Gosling in Drive, due anni prima che Miley Cyrus inizi a sfondar muri vestita solo d’anfibi rossi, e formuliamo una teoria un po’ traballante secondo cui le declinazioni più evidentemente postfasciste del fashion attuale siamo appunto da far risalire al club di Topolino. Per motivi che non tutti conoscono, vi regaliamo in chiusura una foto di Sidney Sonnino, il quale da centosedici anni più o meno esatti ci invita energicamente a tornare allo Statuto.

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STRATEGIA DELLA TENSIONE EVOLUTIVA #2 – Jovanotti intervistato da Gramellini

e sangue nelle vene

Nell’intervista di Gramellini a Jovanotti pubblicata ieri sulLa Stampa non c’è solo l’appassionato ritratto di una delle maschere più tragicomiche della cultura pop italiana, ma anche la fredda cronaca della risurrezione di un sistema di valori che a dispetto di tutti i nostri peraltro modesti sforzi (due tweet al giorno) di arginarlo alla sfera di influenza di un sistema morale dove il danno è già stato fatto (la solita trimurti Saviano/Fazio/Gramellini, niente di personale e massimo rispetto ma gli unici con una fanbase meno scopabile della vostra sono Geova e Casaleggio). Nonostante io sia un tossico da internet certificato e piuttosto grave, ho sempre qualche problema con le dinamiche base di queste cose -nel senso, più  castronerie contiene più click genera più l’ufficio stampa è contento. Voglio dire, un demente è un demente, giusto? Un brutto pezzo è un brutto pezzo. Nella fattispecie, uno a cui viene chiesto

Non ti spaventano otto miliardi di persone?  

e che a prescindere dalla stupidità della domanda risponde

«Il mondo è vuoto. Sorvolalo in aereo e te ne accorgerai. È bello dove c’è un sacco di gente, ci sono più opportunità. Un giorno, in una megalopoli, guardavo con orrore la favela cresciuta accanto a un quartiere ricco, ma chi era con me disse: crescere con un quartiere ricco accanto è l’unico modo in cui un ragazzo povero può pensare di cambiare la propria vita. La vera povertà è sempre povertà di visione»

e sangue nelle vene

ecco, a me questa più che un’opinione sembra un grido d’aiuto, come quelli che si fotografano le vene già tagliate su instagram mettendo #countdown come hashtag  (immagino che qualcuno l’abbia fatto in passato, il mondo è sempre un gradino sotto i miei down della domenica sera). Il resto dell’intervista contiene punti di luce devastanti, tipo un momento in cui Jovanotti paventa Baricco al ministero della Cultura dando a intendere che questa sarebbe una cosa a qualsiasi titolo positiva. Da questo punto di vista Gramellini prova pure a fare il giornalista, a non abbassare del tutto il livello e a buttare uno sfottò ogni tanto, ma si ritrova con le mani legate e di fronte al più mastodontico powertrip della storia del pop italiano a parte forse Zucchero Filato Nero e la prima volta che Al Bano fece partire l’acuto di  È la mia vita a Sanremo (1995 e 1996, rispettivamente).

È difficile concentrarsi su un singolo passaggio nell’intervista e additarlo come male puro. È difficile anche rendersi conto, diciamo così, del quadro generale: è sicuramente un altro sampietrino a lastricare la via della beatificazione anzitempo di un musicista pop morto e sepolto (da questo punto di vista ci prendiamo il merito di aver parlato prima di chiunque altro di strategia della tensione evolutiva), orchestrata dall’ennesimo personaggio che gravita attorno alla claque di questo Sai Baba del multiculturalismo pop italiano. Tra l’altro varrebbe la pena di dare un’occhiata alla claque in questione, uno degli insiemi peggio assortiti di addetti ai lavori, simpatizzanti e gente che non rompe le palle per questioni che vanno dal buon vicinato al cattivo gusto musicale, ma più che altro per non tagliarsi dei ponti nella prospettiva di un giro di giostra in futuro: musicisti e giornalisti (alcuni anche rispettabili, mica solo al livello di Mollica) che escono dal trattamento-Jovanotti con una macchietta sul curriculum e la fama del cazzaro, o anche detta sindrome di Giovanni Allevi. Non mi voglio dilungare: dicevo di Jovanotti, della sua intervista, di un certo evoluzionismo darwiniano pre- e post-fascista d’accatto, perché ai nostri tempi puoi citare Gurdjeff ed essere sia post-comunista che post-fascista, il tutto all’interno dello stesso capoverso, e poi lamentarti del fatto che tutti quanti abbiano paura di muoverti e magari lapidarci con slogan del tenore di “bisogna essere”. Tra l’altro che cazzo vuol dire BISOGNA ESSERE? Contrapposto a quale situazione? bisogna essere invece di…fare? non-essere? possedere? limonare duro? cambiare? No, cambiare è escluso perché Jova è un fan del cambiamento, lo dice sia nell’intervista che nell’ultimo singolo, quello copiato dalla cover di Somewhere Over The Rainbow di Israel Kamakawiwo’ole (sia benedetto il copia-incolla) o qualsiasi altro pezzo per ukulele, il pezzo che dice sia l’eternità è un battito di ciglia che se non avessi voluto cambiare ora sarei allo stato minerale, e sia detto fuori di scherzo che di tanto in tanto io mi masturbo pensando ad un Jovanotti allo stato minerale. Bisogna evolversi per poter morire democristiani. Ecco, l’intervista a Jova è questo e altro e molto peggio. Fosse stato Povia e avesse dato più o meno le stesse risposte, probabilmente oggi sarebbe sfottuto da chiunque in quanto Povia. Con Jovanotti staremo a metà tra la controversia, un imbarazzato silenzio (assenso) e persino qualcuno che si avventurerà nel definire coraggiose opinioni tipo definire umanamente simpatico Berlusconi e quattro o cinque tappeti rossi stesi a Matteo Renzi in giro per l’intervista. E la mia segreta speranza è di vedere davvero Renzi sbancare il Festivalbar 2014 con un disco di cantautorato etnico/becero alla Safari, primo in classifica e suonato negli stadi, a togliere consensi a Jovanotti spolpandolo dall’interno tipo vespa icneumone. Jovanotti, che sorvola il pianeta Terra e si prende di merda quando non vede una megalopoli. Jovanotti, il cui pezzo di Jovanotti preferito è Bella, il cui testo recita “mentre ti allontani stai con me forever” e io penso tutte le volte a uno che ai tempi de L’Albero aveva scritto FOREVER MERDA con la bomboletta in un sottopassaggio pedonale alla stazione di Cesena.

la rubrica pop di Bastonate che spinge Gaga a prescindere.

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Born This Way esce nel maggio del 2011, anticipato dal singolo omonimo che dà già modo di schierarsi (perlopiù contro) la nuova incarnazione di Lady Gaga. Il secondo disco dell’artista newyorkese è atteso come una specie di secondo avvento. Non lo è. è un disco pop più o meno normale, un po’ matto in culo e un po’ rispettoso dei canoni del genere, tendenzialmente più vintage della roba che sfonda le classifiche nel periodo di cui parliamo. Un disco estremamente onesto, se vogliamo, senza nessuna traccia del vampirismo ossessivo di Madonna (ancor oggi considerata quella da cui Gaga ha rubata praticamente tutto). Born This Way è molto più buono di The Fame ma molto meno buono dell’EP Monster: non basta. Le critiche all’album sono tendenzialmente positive ma non abbastanza. È una fase in cui qualcuno s’aspetta qualcosa di importante e Born This Way ci scaraventa in una situazione di stallo senza precedenti nella quale per evitare di dover pensare a qualche problema reale ci ritroviamo a cercare con il lanternino la nuova Lady Gaga in giro per il pop. Questo è più o meno quello che ci siamo beccati nel frattempo. Il disco più cagato dell’anno 2011 è quello di Adele. 21 è uscito a gennaio e sta spingendo abbestia. Adele è brava ma non ti manda nell’iperspazio, è brava di quel bravo tipo Premio Bravo dei 400 Calci (“all’espressività in un ruolo inutile”). E comunque annuncia il ritiro dalle scene appena cacato fuori il brano per la colonna sonora di Skyfall. Beyoncé pubblica 4 un mese dopo Gaga. A fine agosto, per la cerimonia dei VMA, canta Love on Top facendo vedere il pancione: Gaga è vestita da uomo ma semplicemente sparisce. Il miracolo della vita. D’altra parte la Beyoncé di 4 è già adelismo di ritorno, o più verosimilmente una seria e ragionata rimasticatura whitneyhoustoniana di bassissima lega a cui prestare ascolto è da una parte irragionevole e dall’altra apertamente offensivo. Poca ciccia. Più o meno contemporaneamente Beyoncé prende parte a Watch the Throne, la joint-venture Jay-Z/Kanye West che dà alle stampe uno dei dischi più barocchi della storia del rap. Sembra roba destinata a sconquassare il mercato, ma a conti fatti sembra già più il ciao ciao mare di un’epoca della black music che se ne va per sempre. Magari per finire in mano a certi revivalisti black alla Frank Ocean, che almeno lo è in senso positivo (spirito sì musica anche no) e  si fa passare il testimone cantando la migliore canzone del disco, No Church in the Wild. Peccato per il video di quel cioccolataio di un Romain Gavras in perenne indecisione se buttarla in politica o in caciara. È anche la fine di Romain Gavras come regista di videoclip, almeno fino ad ora: magari tornerà per il disco nuovo di MIA, ma a MIA abbiamo dato l’addio da un bel pezzo. È stato in occasione di /\/\/\Y/\, ma poi è andata solo peggio. Apice del disgusto e pietra tombale la collaborazione in veste di cheerleader e coautrice nel video di Give Me All Your Luvin’ di Madonna, epoca MDNA, assieme a Nicky Minaj; è già il 2011 e le cose vanno male. Pochissime star provano ad unire grandeur barocca e white trash alla maniera di Lady Gaga. La migliore è Katy Perry, il cui ultimo disco lungo comunque è del 2010 (a ottobre uscirà il nuovo, in sfida diretta con Gaga): un’opera comunque abbastanza viva e pulsante da essere ristampata in edizione espansa due anni dopo con singoli aggiuntivi di pregio tipo Wide Awake. Il peccato per Katy Perry è che dal film Part of Me in poi, e forse anche prima, viene venduta implicitamente come una specie di Daniel Johnston del pop da classifica che crede solo a metà delle cose che dice –perlopiù la metà sbagliata- e subisce costantemente la pressione di essere sempre sotto i riflettori, con il risultato che a non cagarla ti senti che le stai facendo un favore. Il problema del white trash d’altra parte è quasi sempre che abbracciarlo in toto per qualcuno non è una buona scelta: si veda l’altra artista, che si chiama Ke$ha e che nel primo singolo dichiarava di lavarsi i denti col Jack Daniel’s. Ke$ha è un esperimento in provetta a tema abbassare il livello, una popstar sfiatata e stonata che canta tipo Yeastie Girlz e vedi se due beat grassi sullo sfondo non rendono vendibile qualunque cantante in terra. L’ultimo disco di Ke$ha è del 2012 e si chiama Warrior. Musicalmente sembra mostrare un’artista in crescita, ma incappa in un brutto infortunio: il primo singolo si chiama Die Young e arriva al n.2 della chart di Billboard una settimana prima della sparatoria a Newtown. Il testo incita a passare la notte come se dovessimo morire giovani, il video mette insieme pentacoli e redneck come se Gaga avesse commissionato un video a Rob Zombie. Alcune radio decidono di boicottare la canzone, Ke$ha twitta ufficialmente solidarietà alle vittime e aggiunge d’impulso che il testo non è suo e di essere stata costretta a cantarlo. Non che sia una gran sorpresa sapere che gente come Ke$ha non ha il controllo artistico dei propri album, ma vale comunque la pena di fermarsi un secondo, darle del coniglio e dimenticarsi per sempre della sua esistenza. Al contempo il white trash, sempre lui, arriva a lambire nuovi orizzonti di abbrutimento con qualche estemporaneo ritorno di gente come Britney Spears, quindici anni di buttarsi via e non sentirli, che firma un nuovo standard dello stare male in Scream&Shout di Will.I.Am (nelle efficaci parole del collega Accento Svedese“il prossimo passo è un featuring di Britney Spears su un brano a caso cantato da Eugene Robinson degli Oxbow – con Britney strafatta di crack che urla “Britney bitch” ed Eugene Robinson che filma con la videocamera”). Poco altro e sparso in giro talmente a cazzo da non creare manco il vario rumore di fondo una volta uscite dalle radio le Carly Rae Jepsen e gli PSY. Ci sarebbero i vari Bieber/One Direction, ma è una scena che non ci ha dato un cazzo se non qualche fanfic che comunque ci fa fatica leggere e la versione rallentata di U Smile  a cui -ci dispiace constatare- il mondo ancora fatica a credere. Il nemico del mio nemico è mio amico, come dice Jovanotti in Tensione Evolutiva: il decollo di Lana del Rey per dire sembra una barzelletta tirata per le lunghe ed esplode in tutta la sua tristezza all’ascolto del pallosissimo Born to Die, il cui principale pregio è quello di far dimenticare i pregiudizi sull’artista e passare da un odio di forma a un odio di panza e ad un odio di sostanza. Video cotti nella grana tra le braccia di A$ap Rocky e poco altro: basta a diventare testimonial per H&M e colonne sonore per lo spot del profumo, lo spirito del tempo è più lontano di Saturno. Qui ovviamente si rimane al palo, ma è fisiologico: nel nostro paese viene celebrata come una conquista culturale la vittoria di un rapper scarso ad un reality, mentre il mondo si sgretola sotto i nostri piedi  ed Anna Tatangelo può permettersi di rientrare a bomba e gettarci in faccia grossi rotoli de sordi in Occhio per occhio (curiosamente intitolata come la prima traccia del primo disco di Max Cavalera dopo lo split coi Sepultura), una Womanizer all’amatriciana stracarica di simbologie forse massoniche e forse a cazzo, pescate più o meno in blocco, pure queste, da un certo gagaismo d’accatto –abbastanza paradossale pensando a quanto sia profondamente italo certa roba di Gaga, Dance in the Dark in primis ma pure la stessa Pokerface. Poco importa, la periferia dell’impero. Di che altro è rimasto da dire? La più grossa popstar dell’epoca in cui viviamo si chiama Rihanna: smaltita la voglia d’esser Gaga con il video di S&M, si fa carico del peso dell’assenza altrui e costruisce il suo mondo da zero: un’etica del lavoro più mostruosa di quella di Greg Ginn ed una carriera di continui rimbalzi sui network, dischi belli a getto continuo e singoli che quando va male sono ai livelli di Diamonds.

Non mi basta e ci voglio credere. Nel video nuovo Gaga è vestita come la morte nel Settimo Sigillo. ArtPop esce tra un sacco di tempo.

La rubrica pop di Bastonate che oggi si intitola speciale Blur live @ Milano, 28/07/2013

ho scelto la foto più brutta, tanto per infastidire l'eventuale lettore.

Ho scelto la foto più brutta, tanto per infastidire l’eventuale lettore. Ed il pezzo qui sotto è pure fastidioso ma me ne sbatto. Mica si paga per leggerlo, no?

Lo aspettavo da almeno dieci/dodici anni, lo aspettavi anche tu o forse no, in formazione originale con Coxon fuori e dentro dal tunnel della depressione, magari un cartonato di Coxon come a Sanremo nel 1996, un roadie al posto di Alex James idem come sopra, il documentario Ho sniffato un milione di euro ed il momento in cui Alex James diventa paonazzo perché vede un pusher stendere le piste di coca sul tavolino di vetro, Damon Albarn che pare invecchiato male ma in realtà è invecchiato benissimo anche se è senza un dente/ha un dente d’oro, Dave Rowntree non pervenuto ora come allora, però che palle è a Milano, con questo caldo Milano se avesse il mare sarebbe il Salento, Milano vale un giorno di ferie ed una maratona in autostrada, ci sarà sicuro gente che li ha conosciuti per Fifa ’98, gente che li conosce da sempre, gente che non li conoscerà mai ma che è lì perché è lì che bisogna essere, speriamo si mangi bene o almeno non ci si becchi un virus intestinale che poi se devi scappare in bagno durante il concerto è un casino, a me non è mai capitato ma ad un mio amico sì e non è stato per niente bello, speriamo facciano pure He Thought Of Cars che per me è la più bella, chissà se ci sarà qualche vip o al limite qualche twitstar che passerà tutto il tempo a postare cose senza vivere un attimo dell’evento, ho prenotato un albergo talmente vicino all’ippodromo che mi sento il soundcheck direttamente dalla stanza, oggi è domenica e non si pagano i parcheggi, andiamo lì presto che tanto c’è caldo ed entriamo in temperatura subito, tappa McDonald per un gelato gonfiabile, i ragazzini che al McDonald consumano tutto l’ammontare di connessione internet mensile per cercare di portarsi a letto tipe mostrando loro video musicali truzzissimi, coda chilomentrica, all’entrata regalano un magazine musicale dove all’interno viene pubblicizzato un European Tour di Nek con solo date italiane, che tamarro Nek, Nek che suona al campo sportivo di Papozze (RO) nel 1999 e dopo il concerto vomita negli spogliatoi, chissà se a Nek piacciono i Blur, chissà se ai Blur piace Nek, le note sono sette ed il mondo è bello perché è vario per cui potrebbe anche darsi di sì, sul magazine parlano pure di uno screzio pesante tra Robbie Williams ed Liam Gallagher ma a quel punto il mio cervello ha già mollato gli ormeggi, vorrei proprio una reunion degli Oasis ma mi pare praticamente impossibile, gli scazzatissimi promoter della Samsung che forse manco conoscono i Blur, c’è un tipo vestito da cartone del latte di Coffe&Tv ed io mi faccio una foto con lui prima che lo scoprano anche gli altri, andiamo nella bolgia o forse no, c’è puzza di sudore, due tipe parlano di status di Facebook e di un tipo che pubblica status di Facebook che fanno ghignare tantissimo, il 3G non funziona e molta gente è in crisi d’astinenza, scende il buio e ciò che vedi da lontano è solo il bagliore degli schermi degli smartphone in assetto-foto, mamma mia che schifo la camicia indossata da Damon Albarn, mamma mia che figo Damon Albarn, per me non è vero che si faceva di ero, Graham Coxon è iper-depresso e non ride mai, Graham Coxon era il vero genio dei Blur, Alex James ride sempre perché c’è rimasto sotto con la coca, Dave Rowntree è un batterista della madonna anche se non lo diresti, il tipo vestito da cartone del latte di Coffe&Tv è stato chiamato sul palco durante Coffe&Tv ed ora è una star, speriamo che almeno riesca a rimorchiare qualche tipa, i Blur si divertono tutti tranne Coxon, la scaletta è semplicemente perfetta e This Is A Low è qualcosa di superiore, ho visto uno con la maglietta dei Pooh, The Universal è sempre The Universal, Out Of Time con Coxon alla chitarra ti fa rimpiangere il suo addio ed è superiore alla versione su disco, Beetlebum stessa è decisamente superiore alla versione su disco, mamma mia Trimm Trabb e Caramel, Girls & Boys è stata un po’ sgonfia ma era il primo pezzo e sai il caldo, la birra, forse era solo questione di aspettative troppo alte, io i Blur li ho conosciuti con Girls & Boys, i Blur ad Un disco per l’estate 1994 dove c’erano Nikki che cantava L’ultimo bicchiere-gli Otierre-Ice MC-Jam&Spoon-tanta eurodance da autoscontri tipo Eins Zwei Polizei (Mo-Do R.I.P.), Popscene ha risollevato le sorti del live o forse ero solo io, durante To The End mi sono commosso parecchio, Tender l’ho cantata a squarciagola nonostante l’abbia sempre ritenuta un corpo estraneo nella discografia dei Blur, oggi non ho più voce Song 2 mi ha gasato a tal punto che ho voglia di giocare a Fifa ’98, il mio disco preferito resta sempre Parklife ed il live non ha fatto che confermarlo, una vita per uscire dall’ippodromo e poi ancora tappa al McDonald per un milkshake sintetico, spero non facciano mai un disco nuovo perché potrebbero rovinare tutto, dopo un live del genere sono talmente gasato che potrei anche digerire un brutto disco nuovo ed andare a dire in giro che mi piace tanto. Decideranno i Blur visto che siamo in democrazia.

La rubrica pop di bastonate che oggi urla MATANGI facendo il gesto delle pistole con le mani alzate

matangi

Non saprei dire esattamente quando ho iniziato a sentir dire -e poi a dire io stesso- quanto MIA era fondamentale alla comprensione dello spirito del (nostro) tempo. MIA, nella sua migliore versione, è un corrispondente cinghione di Lily Allen con l’electropunk e le congas al posto del pop e del pianoforte. Se il tuo modo di porti è abbastanza alieno puoi avere l’occasione di scavalcare il momento in cui tutti iniziano a darti dello sfigato. Avere un bel disco in uscita può aiutare, ma alle volte non basta; nel suo caso ne sono serviti due, ma quando Paper Planes ha iniziato a girare per film e spot e servizi di Studio Aperto (circa un annetto dopo l’uscita di Kala, sto sparandola ma credo siano tempi abbastanza corretti), il personaggio della giovane etno-abbestia che viene dal ghetto e spara minchiate a raffica senza soluzione di continuità è diventato una sorta di appuntamento fisso dei tabloid di musica/fashion in tutto il mondo. In queste fasi di stallo culturale non è mai ben chiaro se l’hype sul personaggio sia una sorta di tributo fuori tempo massimo al valore artistico del disco prima o se non sia piuttosto una lunga maratona di attese che montano in merito all’uscita di un nuovo lavoro. Nel caso di MIA, essendo così brava a rappresentare i nostri tempi, è semplicemente successo che il mondo stesse cercando qualcuno di cui parlare (qualcuno che POSSIBILMENTE non fosse uscito da Youtube o da qualche talent-show per gente bollita con la botta per il multimediale), ha trovato una tamil che viveva a Londra e l’ha adottata come una specie di figliol prodigo perenne a cui si perdona un po’ tutto come se fosse un peccato veniale. Prima di riuscire a dimostrare musicalmente qualcosa (oltre a saper fare un buon disco, una cosa di cui tutto sommato è stato capace persino Chris Martin), tuttavia, il fenomeno-MIA ha raggiunto quel punto di rottura dopo il quale, per una zona franca temporale che può durare anche molti anni, puoi permetterti di produrre segnali a caso e farli sembrare come tappe di un eccitante work in progress e/o una serie infinita di metafore la cui comprensione è negata ai più MA appannaggio di una serie di eletti coi piedi per terra e la puzza sotto il naso (probabilmente gli stessi che storcono il naso quando lo pronunci Mìa invece di Emaiéi e sanno scrivere correttamente il cognome senza cercarlo su google), un circolo ristretto di cui quasi tutti quelli che sono arrivati a leggere fin qui credono con tutta probabilità di fare parte. In realtà il gioco di specchi di MIA somiglia più da vicino a un certo qual protoberlusconismo o a quando gioco a indovinare l’animale con la nipotina della mia morosa. Ha quattro zampe? Sì. Vive in Africa? Sì. Ha il pelo? Sì. A questo punto provi a indovinare e dici “tigre”. La bimba ha pensato alla tigre ma dice comunque di no per non fare la figura di quella che l’ha fatta troppo facile. Dopo “tigre” e “ghepardo” le risposte alle tue domande perdono attinenza col reale, perchè è troppo presto per fare finire il gioco -e lei ora sta pensando al pollo. “Ha quattro zampe?” “no” “ma avevi detto di sì” “mi ero sbagliata a contarle”. Comprendere MIA nella fase artistica di /\/\/\Y/\ significa essere in grado di sapere quando una bambina smette di pensare a ghepardi leoni tigri e pantere e inizia a pensare ai polli. E il post-/\/\/\Y/\ in realtà ancora non ci è dato di conoscerlo, ma così a naso ci staran dentro solo i curiosi (beh, son tanti) e quelli  che ascoltarono Pull up the People in piena crisi dell’electroclash e finirono, va detto, col cervello scoperchiato. Ve lo ricordate /\/\/\Y/\? Conteneva una dozzina di pezzi, perlopiù messi assieme con perizia da panzer nel non-così-disperato tentativo di fare sembrare il nuovo album di MIA un album di MIA. Il punto massimo era il primo singolo uscito fuori, si chiamava Born Free ed era una cover stupidissima di Ghost Rider con MIA al posto di Alan Vega (la cosa, vi giuro, non aiuta) e una batteria accacì a spingere sotto. Piuttosto vi conviene avvezzare il remix scranno con Slip It In al posto di Ghost Rider che confezionò Pikkiomania ai tempi, fomentato da chi scrive. Il singolo era venduto assieme all’apposito video-shock girato da quel cioccolataio del figlio di Costa-Gavras, un Chris Cunningham dei poveri con la poetica dello stare male ad ogni costo in un contesto indie-figo (e il dopo-Born Free è andato ancora peggio, immagino ci arriveremo). Il resto faccio fatica a ricordarlo: era robetta alla MIA di MIA senza nessuno dei guizzi di genio/idiotsavanteria che diedero i natali a roba tipo Jimmy o Paper Planes. Vi siete mai trovati ad un party con Paper Planes e la gente (beh, voi stessi) che ballava facendo la mossa delle pistole? Anche io. Credo sia stato a una di quelle feste che mi è arrivata addosso la sensazione di averne avuto abbastanza: era già difficile ricontestualizzare quella cosa lì in posti generici, ma quello poteva essere ancora snobismo. Due anni dopo avevamo somatizzato /\/\/\Y/\ e ci eravamo beccato la MIA-attivista (Tamil, violenza sulle donne, bambini poveri, Wikileaks etcetera) appena sotto la MIA con i leggings dorati che faceva il segno delle pistole, senza che nessuno facesse una piega perché (immagino) il valore iconografico di qualsiasi incarnazione di Maya Arulpragasam a questo punto era già non-negoziabile. E poi l’abbiamo dovuta sommare alla MIA mezza matta che ventilava pubblicamente plagi della sua musica da parte di Lady Gaga (la gigantesca scritta WTF) e alla MIA madre di famiglia che viveva a Brentwood col figlio dell’amministratore delegato di Warner Bros. Non ci fossero state occasionali sfuriate pubbliche contro questo e quest’altro, sarebbe stata un’altra tristissima storia americana, ma anche in quel caso l’avremmo dovuta mettere in coppia con una musica che fino a Kala voleva essere (o forse no ma sembrava) una critica ferocissima a tutto questo mucchio di minchiate. Voglio dire, anche per un fan terminale sarebbe stato meglio avere un altro disco di scarti alla /\/\/\Y/\ piuttosto che due anni di MIA nei rotocalchi.

O forse no: la parte musicale dell’ultimo periodo è quasi peggio che tutto il resto. Si limita peraltro ad un paio di canzoni uscite in contemporanea: il primo è un inedito intitolato Bad Girls, uscito con l’ennesimo video di Romain Gavras ad accompagnare la cosa (di lì a poco Gavras firmerà l’inqualificabile clip di No Church in the Wild e tanti saluti a tutti); una roba che più MIA non si potrebbe e senza un briciolo della botta che rendeva irresistibili cose tipo Bamboo Banga. Poca roba. Il secondo pezzo è molto peggio: si chiama Give Me All Your Lovin’ ed è un pezzo di Madonna scritto da Martin Solveig. In linea con la media delle produzioni dell’uomo, fa sostanzialmente accapponare la pelle. MIA, di suo, non aiuta un cazzo: entra in scena vestita da cheerleader canticchiando L.U.V. MADONNA, rappa per venti secondi nel ruolo di apposito etno-rappusa e si agita sorridente e maliziosa come se fosse a casa sua. Per dire, al confronto nel pezzo viene fuori l’altra ospite Nicki Minaj, una che ha avuto quest’aura un po’ da leccaculo dal giorno uno. Madonna sembra esteticamente la copia di Blake Lively, è tutto orribile, è tutto sbagliato. la gente in giro si scatenò con improbabili peana stile Gaga torna a succhiare il cazzo di Giuda, soprattutto in seno alla cerchia di chi ne capisce di musica; sembra comunque chiaro che si tratta di una roba di livello infimo anche considerati gli standard della Ciccone –il disco che contiene il singolo si chiama MDNA ed è robaccia.

Dicono che quando Madonna ti prende a collaborare vuol dire che è finita. Oddio, in realtà lo dico solo io, ma sono d’accordo con me stesso. Parlando di inversione della moralità nel pop contemporaneo Madonna è il passo uno: ai vecchi tempi un produttore d’avanguardia imponeva il proprio suono e continuava a fare la sua cosa a testa bassa, incrociando di straforo qualche generatore automatico di quattrini tipo film, spot pubblicitari o locali di tendenza; oggi collaborare con Madonna è diventato un obiettivo più che una marchetta, una specie di celebrazione dell’eterno ritorno che a conti fatti ha ucciso artisticamente quasi chiunque abbia provato a remar contro. Questa cosa al cinema è sempre stata abbastanza evidente, ma nei dischi si dà per scontato il contrario (ma magari William Orbit e Timbaland sono ancora sulla cresta dell’onda e io sono in malafede).  MIA sembra già ad un altro livello. Le danze sgraziate da poppettara DIY sembrano le stesse del video di Paper Planes, come se l’avessero piazzata a calci davanti a uno schermone verde urlandole DAI, FAI QUALCOSA DI NORMALE mentre qualcuno lavorava da dietro per capire come infilarla in un contesto qualsiasi e qualcun altro consultava il Necronomicon per togliere di dosso a Madonna i venti anni in eccesso. Sorpresa: tutto funziona a meraviglia, nel senso che tutto sembra medio e fine a se stesso, qualunque cosa sia quel che succede. La musica diventa un artificio spontaneo (cit.).

 

Da qui in poi MIA più o meno scompare. Bad Girls sembrava l’assaggio per il disco nuovo, ma il disco nuovo ha cannato tre o quattro date di uscita già annunciate. Si chiamerà Matangi ed è stato registrato da diversa gente in diverse parti del mondo. La prima anticipazione (seconda se vogliamo contare Bad Girls) è un pezzo intitolato Bring the Noize, come quella dei Bon Jovi che illustra cose di MIA di cui già sapevamo: fosse il livello medio del nuovo disco, croppato di tutte le minchiate, potremmo conviverci (persino il video è non-girato da Romain Gavras). Rimane il fatto che siamo una quindicina di passi indietro anche solo a Born Free: fosse (com’è del tutto probabile) la cosa più buona contenuta dentro Matangi possiamo pure prenderci il disturbo di non ascoltarlo nemmeno e vaffanculo.

 

(nota: questo pezzo contiene numerose cose che avevo scritto in passato, purgate dalla scomparsa di un paio di siti)

La rubrica pop di bastonate che oggi s’intitola RISPETTIAMOLI IL RAP o ANCH’ESSA È UNA CULTURA

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“Il pubblico del club è cambiato: adesso, vi sono più punk e rockettari, più negri, meno gente di Wall Street, più ragazze ricche e annoiate che vagolano qua e là. Anche la musica è cambiata: non più Belinda Carlisle che canta I Feel Free, bensì un negro che latra, se odo correttamente, una roba intitolata Her Shit on His Dick.” Avete mai ascoltato i dischi di Neffa dopo il rap? Io sì, i motivi sono due. Il primo motivo è che Neffa fino a Chicopisco ha dato semplicemente troppo alla musica pop italiana: potremmo fare una sommaria stima e concludere che, eccezion fatta per le chitarre e la gente che ha collaborato con lui fino al 2000, la somma del valore artistico di ogni artista italiano in attività non arriva al valore artistico della discografia di Neffa. Più o meno. Il secondo motivo è che lessi qualche recensione di Arrivi e partenze all’uscita del disco e sembravano tutte abbastanza d’accordo sul fatto che si trattasse del disco più cool che fosse  dato ascoltare al momento tra quelli cantati in italiano. La discografia anni duemila di Neffa non è una gran cosa, comunque: Arrivi e partenze è un disco decente ma nulla di più in cui qualche buon momento affoga in mezzo a mezza dozzina di figure arenbì all’italiana, costruite su skill inesistenti e alle spalle di una fanbase che forse non si meritava tanto odio. Il successivo I molteplici mondi di Giovanni forse l’unico momento in cui Neffa dice qualcosa di interessante, anche se non abbastanza da diventare una pietra miliare: bei singoli, bella tenuta d’insieme, una bella sensazione di lungo periodo che assegna ad Arrivi e partenze un meritatissimo sentore di disco-prova. Alla fine della notte è pura accademia e pane per i denti di qualcun altro, possibile macchina da singoli e motore per una carriera ad inerzia. Parliamo già di qualcosa come sette anni fa: da lì in poi Neffa esiste come una specie di dogma a cui non prestiamo troppa attenzione per non incazzarci, cosa francamente inevitabile ai tempi dello scivolone Due Di Picche; tra l’altro va anche messo agli atti il nostro, nel senso di mio, dissociarsi dall’attuale rivalutazione critica di J-Ax e degli Articolo 31 in generale (rivalutati dopo quindici anni di giustissimi sfottò perché avevano una mezza dozzina di pezzi hardcore sparsi in giro per diversi dischi e/o avevano anticipato l’andazzo attuale, come se questa non sia la peggior colpa degli Articolo 31 e come se J-Ax abbia realizzato qualcosa di rilevante dallo split a oggi). L’unica volta che ho visto Neffa dal vivo è stato in piazza a Ravenna nel 2007: cantò solo pezzi da Arrivi e Partenze in poi, più Aspettando il Sole nel bis ma senza la parte rappata.

Non dico che sia bello quando una storia come quella tra Neffa e il rap si chiude, ma è difficile negare il fascino malato di un artista affermato che ricomincia da zero e parte per una guerra non sua, senza manco assicurarsi di avere le armi. È stato difficile, insomma, non tifare per l’artista Neffa anche dopo Arrivi e Partenze.  Il che non toglie che a nessuno verrà mai in mente un contributo di Neffa alla musica pop italiana che non sia quello di aver preso il rap da piccolo e averlo fatto diventare grande. Non proprio da solo ma quasi: assieme a lui una legione di sociopatici di cui ai tempi del primo disco solista diventò alfiere, più qualche gruppo sparso in giro per l’Italia.

Poi non lo sapevamo cosa sarebbe successo al rap in Italia dopo quella storia, e uno ha pure il diritto di dissociarsi. L’avevo letto, o più probabilmente scritto, da qualche parte: negli anni ottanta l’immagine era diventata immaginario. Il rap in italia gli anni ottanta se li è persi quasi in blocco, quindi si è dato una conformazione anni novanta. Negli anni novanta è l’immaginario a diventare immagine, così si viveva in un periodo in cui tutto era street e sdrucito e oversize e il rap ha avuto modo/tempo di essere hardcore prima che tutto andasse in vacca. Poi l’hip hop ha questa sua natura omnicomprensiva che si mangia tutto e diventa altro rimanendo se stesso e bla bla bla, in sostanza qualsiasi cosa preveda o abbia previsto hip hop diventa hip hop. Più quello che l’hip hop si mangia per conto suo. Tra i risultati più evidenti c’è pure il fatto che uno può fare rap, vincere un reality show ed avere i featuring di Clementino e Fibra nel disco. Non è nemmeno chiaro, a questo punto, se Moreno sia un bene o un male per l’hip hop italiano (voglio dire, in ogni caso a questo punto il pubblico s’è mangiato talmente tanta merda che il prossimo disco di Guè Pequeno potrebbe essere scritto da Morandi e nessuno noterebbe le differenze). A capo senza motivo.

Un altro risultato evidente è che per quanto mi riguarda, e non credo di essere l’unico, Neffa in qualche modo non ha mai smesso di essere un artista hip hop. In qualche modo, quindi, non ho nulla da dire sul fatto che la bonus-track a fine corsa nel suo ultimo CD sia un pezzo di due minuti che contiene il primo rap di Neffa dalla fine di Chicopisco ad oggi. Piuttosto divertente, tra l’altro, che la cosa non sia stata pubblicizzata più di tanto, della serie che la traccia è presente solo sul disco fisico e quindi se n’è avuta notizia solo due/tre giorni dopo l’uscita (per i tempi di internet è un’era geologica). La gente è semplicemente uscita di testa e si è divisa abbastanza equamente tra colpevolisti e innocentisti. I primi lamentano la tempistica e il principio: in fin dei conti Chicopisco è stato venduto come addio al rap, l’ha detto lui, mica io, e proprio ora che il rap è diventato LA COSA, insomma è quantomeno sospetto. I secondi sono dei cazzoni nostalgici che hanno ascoltato due volte e deciso che Jeff Pellino è ancora un guaglione e la manda, o anche più o meno testualmente “dà ancora la merda a chiunque”. È ovvio che un minuto e mezzo di (quel) rap in fondo a un disco non-rap è un argomento invalido sia per chi accusa l’Uomo di essersi svenduto (non si sa a cosa, e come se poi fosse la prima volta) sia per chi si precipita a confrontarlo con i nuovi e con le nuove incarnazioni dei vecchi;  quel che non è ovvio è se dobbiamo augurarci o meno altro rap di Neffa, un EP o qualcosa del genere, che ci dia modo di schierarci pro o contro.

Personalmente, in ogni caso, il mio tuffo al cuore l’ho avuto. Il disco intero si chiama Molto Calmo, non l’ho ancora ascoltato ma qualcuno di cui mi fido mi ha detto che non è malaccio.

la rubrica pop di bastonate che oggi chiameremo BIRRA E CAMOGLI RELOADED

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L’ondata di riletture (non riabilitazioni, né rivalutazioni, né sdoganamenti: riletture) che ha seguito il ventennale di Hanno Ucciso l’Uomo Ragno, celebrato non si sa bene per quale motivo in pompa magna, aveva bisogno di un necessario riflusso. Quindici anni di internet mi hanno reso abbastanza sgamato in queste cose da riuscire a decodificare le dinamiche di base secondo cui la vicenda. Amo gli 883 e ne ho più volte ripercorso la carriera, in termini quasi sempre di autoanalisi. Non voglio convincere nessuno del fatto che gli 883 sono il più grande gruppo di musica italiana mai esistito, non lo sto sostenendo, non credo che ogni cosa scritta e incisa da Max Pezzali valga i soldi. Alcune cose sì. Mi piace pensare esista una ridottissima bibliografia essenziale che fissi le coordinate di quel che è il discorso di rilettura dell’opera degli 883: partire con un pezzo di Zingales su Blow Up (#86/87, luglio 2005) che racconta a grandi linee l’epopea di Repetto e Zucchero filato nero, completare con un pezzo sempre su Blow Up firmato da Massimo Balducci (#169, giugno 2012) in occasione del ventennale. A questi aggiungere Matteo Cortesi  qui sopra, (immodestamente) chi firma sempre qui sopra. Colasanti su Rolling Stone (il numero sui 100 dischi italiani), un lucidissimo articolo del Collettivo Carmine miracolosamente sopravvissuto alla scomparsa di Vitaminic per via di un innocente reblog integrale su MaxPezzaliBlog. E naturalmente lo straordinario Mattioli su Vice, il cui salvifico intervento in zona Cesarini rimette tutto sul piano cognitivo del verosimile dopo una sostanziale esplosione di pareri (per buona parte stupidi e offensivi) nel giro indie ai tempi del ventennale di HULUR.

Lo stesso Collettivo Carmine per certi versi disse molto quando decise di chiamare un articolo Tutelare il Pezzali dal ventennale. Non necessariamente sarebbero d’accordo, ma tutto quello che c’è di buono nell’opera degli 883 può essere riscalato e contenuto nel lato B di Hanno ucciso l’Uomo Ragno: la title-track, Con un deca, Jolly Blue, Lasciati Toccare. Il lato B di HULUR è come i Talk Talk che intitolano il primo disco The Party is Over.  Il lato A di Hanno ucciso l’Uomo Ragno non vale manco un terzo del lato B, il successivo Nord Sud Ovest Est, nel suo complesso, vale ancora meno. Dalla fine del lato B di HULUR la scrittura di Max Pezzali si fa viva solo in alcuni episodi sporadici: nel successivo Weekend e Rotta per casa di Dio, il maschilismo forse-repettiano appena celato in Sei un mito, poco altro. Sprazzi di genio in mezzo a un mare di cafonaggine e crisi creativa già nel successivo La donna il sogno e il grande incubo: Ti sento vivere, secondo le parole di Cortesi “in assoluto uno dei pezzi più terrificanti di sempre, al contrario del titolo, un sentore di morte come manco nel backstage dei Mayhem quando dead inalava il fetore di carogne di animali prima di cantare”, e naturalmente Gli anni, forse la massima espressione dell’uomo Pezzali e del Pezzali uomo. L’ultimo bicchiere per Nikki, La dura legge del gol, La regola dell’amico (per un bizzarro momento daftpunkiano nell’ultima strofa), la straordinaria Nessun rimpianto che si rigioca la partita di Ti sento vivere al negativo. Dopodichè si va a cercare le cose col lanternino e più in virtù della simpatia che si prova per l’Uomo che per effettivo interesse dei pezzi in catalogo. A conti fatti, dove la rivalutazione degli 883 genera mostri, la rilettura genera quantomeno una buona compilation. Naturalmente solo se siete quel genere di persone; vi è consentito odiare a spada tratta gli 883 e Pavia e tutto quello che viene messo sulla bilancia se si parla di queste cose. È una posizione critica del tutto rispettabile che ha a che fare con scelte importanti e perentorie (rifiutare la poetica del titanismo, abbracciare il lato oscuro, sbattersene della musica italiana, concepire sistematicamente l’extragenere come trash). Non sono d’accordo con voi, ma sono scelte che rispetto.

La rivalutazione degli 883 ha generato mostri, dicevamo. Tre episodi in particolare hanno posto fine ai termini di ragionevolezza entro i quali rileggere gli 883 nella storia del pop: il primo è Con due deca, compilation-tributo messa insieme da Rockit (in sede di recensione scrissi “Un album di cover indierock degli 883 che negli episodi migliori è insufficiente (Colapesce, Dargen d’Amico) e si completa di rendition che passano da triste (I Camillas, Egokid) a sbagliatissimo (I Cani, Carpacho) a insultante (Casa del Mirto, Amari), poi c’è una cover di “Weekend” fatta da Maria Antonietta. A conti fatti, l’unico che non ne esce con la reputazione a fettine è Max Pezzali: solo De Andrè è stato omaggiato in maniera così squallida.”). Il secondo è la reissue di HULUR per il ventennale con tutti i pezzi rappati e l’aggiunta dell’inedito Sempre noi con J-Ax (uno che ci aveva già provato e fallito miseramente con l’inqualificabile scippo di Deca-Dance): nel migliore dei casi una L.H.O.O.Q. a buon mercato, nel peggiore una rapina di immaginario o ricontestualizzazione non richiesta e portata a termine senza alcuna cura per le eventuali vittime della cosa (primi tra tutti i pezzi originali). Il terzo è la ricomparsa di Repetto che “spiega” gli anni dell’assenza dalle scene e torna alla ribalta come attore di teatro indipendente, businessman di successo e possibile palla al centro per la reunion di una fantomatica “formazione originale” degli 883, non si capisce nemmeno –anche in questo caso- sulla pelle di chi (come del resto fu il passaggio della sigla da 883 a Max Pezzali, dieci anni dopo l’uscita di Repetto; a un certo punto su Wikipedia stava pure scritto che gli 883, dopo l’uscita dal gruppo di Max Pezzali negli anni duemila, avevano deciso di sciogliersi; magari c’è ancora).

L’ultimo atto di questo processo di ricontestualizzazione è l’uscita, appena qualche giorno fa, dell’ultima compilation degli 883. Ultima sia in ordine di tempo che nel senso di disco d’addio alle scene di Pezzali, sempre a dar retta a certe voci, e quindi interessante nel suo voler essere in qualche modo testamento spirituale della vicenda (immagino che il fatto che ultimamente gli artisti escano dalle scene e si rimangino puntualmente la parola dopo tre anni non tolga drammaticità al gesto in sé). Il disco si chiama Max 20 ed è composto da venti brani: cinque sono inediti, due dei quali scritti con Repetto; gli altri sono pezzi del repertorio Pezzali/883 reinterpretati assieme a nomi di spicco della canzone italiana. Questa che state leggendo, in linea di principio, è la recensione del disco traccia per traccia. Per quanto mi riguarda, in ogni caso, è l’occasione per regolare dei conti personali ancora in sospeso. Finita la moda del rivalutare quei dischi e quegli anni, rimane l’idea che per NOI (un gruppo di appassionati di cui decidete voi se far parte o meno) il ripescaggio indie degli 883 ha affiancato al nemico di sempre (chi li tratta con sufficienza e senza il dovuto rispetto un Max Pezzali in quanto sfigato) una nuova razza di amanti acritici e incapaci di comprendere una Jolly Blue qualsiasi. Continua a leggere