Tema: IL MIO ULTIMO CONCERTO. Svolgimento:

Rubata al prode Manicardi.

Oh, i Public Image Limited! Proprio loro! Ti dico, per me sono musica minore, tarata. Vedi, tutti questi gruppi new wave partono da presupposti troppo minimali. È musica da tinello.
(Enrico Brizzi, Bastogne)

Sono stato a vedere i PiL. Non avevo mai visto John Lydon in carne e ossa fino ad ora e ho pensato che fosse arrivato il momento di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Vorrei poter dire essere stato al Filthy Lucre tour nel 1996, non tanto per i Sex Pistols ma perché questo avrebbe comportato vedere i Sepultura con Max Cavalera quando ancora i Sepultura erano i re del mondo, i Paradise Lost in uno stadio alle tre del pomeriggio, ma soprattutto gli Slayer alle prese con un repertorio di cover di pezzi hardcore marcissimi per la prima e unica volta nella loro carriera – perlomeno in Italia (era il tour di Undisputed Attitude); ma mentirei, ero un ragazzino e l’esborso fuori da ogni costrutto e Milano una metropoli da romanzo di Isaac Asimov, lontana galassie, anni luce, nella pratica irraggiungibile. I Sex Pistols mi hanno sempre detto poco della mia vita. Ovviamente questa cosa mi fa sentire colpevole e sporco dentro e profondamente sbagliato peggio di un bambino appena violentato da un ciccione travestito da pagliaccio, ma paragonato all’impatto che hanno avuto i PiL sulla mia vita i Sex Pistols sono stati zero e questo è un fatto. Probabilmente la disgrazia (se di disgrazia si può parlare, ma io direi piuttosto il contrario) è stata aver scoperto, tramite un film – Hardware – che da solo basta a spalancare le porte della percezione come manco Mosè sul Mar Rosso, The order of death prima di God save the queen, e di conseguenza Second Edition, Flowers of Romance e Abum prima di Never Mind the Bollocks (a questo si aggiunga poi la visione di Copkiller prima di The great rock’n’roll swindle e il quadro è completo). Verso John Lydon nutro un rispetto che sconfina nella devozione e vedere per la prima volta l’uomo in una dimensione che non fosse quella di uno schermo fa un effetto strano, come vedere materializzarsi Dio se fosse vero e portasse i capelli come tagliati da Stevie Wonder e un’orrenda tunica a quadri da druido strafatto di metanfetamina e porridge. È la caricatura vivente della vecchia zia completamente andata dopo ripetute sessioni di elettroshock e parcheggiata dai nipoti in una sala Bingo in mezzo al nulla ma lo capisci all’istante che è più acuto e intelligente di quanto tutti noi messi assieme saremo mai, ha le movenze di Satana in una giornata pessima e una voce che non è mai stata così tonante e cristallina e evocativa e arcigna. Sembra Dorian Gray con la pancia da birra. Terrorizza. La musica è un groove alieno che nasce e cresce in non-luoghi tipo l’Interzona di Burroughs, un funk trasfigurato e reso scheletrico dal recente trattamento rivitalizzante, tipo la vecchia liftata di Brazil ma con una pacca che farebbe saltare anche i morti al cimitero, come una jam tra Fela Kuti e uno squadrone di androidi, in mezzo improvvisi squarci angelici di luce pura da far scappare via piangendo i Popol Vuh. Basso e batteria sono una cosa sola e il chitarrista sembra Giovanni Lindo Ferretti con i capelli lunghi e viene da pensare che c’è qualcosa che accomuna John Lydon a Giovanni Lindo Ferretti qui da noi: si può sindacare fino allo sfinimento su scelte che diresti incomprensibili (l’isola dei famosi, la pubblicità del burro da una parte, la deriva baciapile dall’altra), metterlo in discussione fino a rinnegarlo ma tanto alla fine vince lui, ha sempre vinto lui. La differenza è che Ferretti dal vivo dopo i CCCP è ben poca cosa e Lydon invece un caimano che sembra essersi sparato in vena l’elisir di eterna giovinezza: quasi due ore e parrebbe più fresco di prima di cominciare. Non avendo mai visto i PiL dal vivo prima d’ora mi sfugge il senso della presenza fissa a bordo palco, tipo piantone, di un tizio di mezza età in divisa tra il cameriere e il paramilitare; immobile, incombente per tutto il concerto, dopo i bis va via col gruppo applaudendo verso il pubblico come fosse uno di loro. Sto ancora aspettando che qualcuno mi spieghi cosa significa.

Setlist:

1. Deeper water
2. Albatross
3. This is not a love song
4. poptones
5. careering
5. The order of death
6. Warrior
7. Reggie song
8. Death disco
9. Out of the woods
10. One drop

11. Public image
12. Rise
13. Open up

Tema: IL MIO ULTIMO CONCERTO. Svolgimento:

Sono andato a sentire i Junip. Non è che fossi esattamente convinto di volerli vedere però insomma erano a due passi da casa, non costavano molto e c’era Bill Ryder-Jones in apertura. Soprattutto quest’ultima cosa, e infatti lui ha spaccato, è salito sul palco da solo con una Gibson 335 e ha detto qualcosa che non ho assolutamente capito ma che finiva con “I’ll play some songs and then I’ll fuck off”: massimo rispetto. Poi hanno iniziato i Junip e sarà che non è il mio genere, sarà che è gente fredda ma io mi sono fatto due palle colossali. Non mi ricordo assolutamente nulla dello svolgimento del concerto, quindi o i pezzi erano tutti identici e mortalmente noiosi, oppure devo essermi addormentato in piedi o magari appoggiandomi al tizio spagnolo esaltatissimo davanti a me che comunque era troppo impegnato a fare video con l’iPhone per farmelo notare. Sta di fatto che hanno finito il set dopo neanche un’ora (non che sperassi suonassero più a lungo) con “Line of Fire” che ho concluso essere praticamente l’unico pezzo decente del loro repertorio. Alle loro spalle avevano appeso questa foto di un cerbiatto

 

e notavo che rispetto ai classici teli col nome del gruppo questa era una stampa in quadricromia coi controcazzi, talmente nitida che riuscivo a contare i peli delle orecchie. Fino a che, durante la pausa prima dei bis, mi sono accorto che sembrava così nitida perché non era una foto: era un cerbiatto vero! Lo sguardo denotava chiaramente un fastidio pari al mio per l’inutilità di questo concerto. A un certo punto quando ha visto che anch’io lo fissavo mi ha detto chiaramente col labiale “Ma che cazzo applaudono questi, che poi escono ancora per i bis e devo restare appeso qui altri 20 minuti.” Sicuramente quando aveva accettato il contratto milionario che prevedeva soltanto di restare immobile dietro al gruppo per tutto il loro tour, non si aspettava potesse essere così noioso, non so quante date abbia già fatto ma fossi in lui mi sarei già licenziato.

 

Il gruppo è tornato sul palco molto in fretta, ho dato uno sguardo dietro di me ma uscire dalla seconda fila in cui mi ero improvvidamente infilato sembrava troppo faticoso. Non poteva mancare molto, dovevo solo trovare un modo per far passare il tempo, ma riuscivo soltanto a partorire metafore altrettanto noiose paragonando i Junip a dei caffè di Starbucks (probabilmente uno skinny decaf latte). Fino a che ho cominciato a inventarmi una storia per tutti i membri della band. All’estrema sinistra il batterista era quello che mi stava più simpatico. Sembrava crederci tantissimo, probabilmente sulla sua spia gli avevano messo roba fighissima, tipo un intero disco dei National, e non sapeva nulla di cosa suonavano gli altri sul palco. Ad esempio il bassista al suo fianco, uscito dritto da un gruppo metal e che non ha mai contemplato un altro stile che non fosse quello che chiameremo “Harley Davidson a basso regime”: tamburellare con lo stesso ritmo sulla nota dell’accordo ottenendo un effetto tipo motore di motocicletta ferma al semaforo, dumdumdumdumdumdumdumdumdum. In centro in fondo al palco, dietro a Jose Gonzales, un ex barman di Stoccolma. Dei tempi in cui miscelava drinks ha conservato una collezione di camicie bianche e la capacità di scuotere uno shaker a ritmo per ore senza stancare il polso. Dubito lo stipendio che prende ora sia più elevato, ma probabilmente lavora meno ore, i drink gratis ce li ha comunque e shakera più felice: ha fatto bene. Spostandoci a destra c’è un tizio strambo che sembra poco svedese: capelli scuri e ricci, probabilmente finito a Stoccolma per caso, da sempre dice di volersene andare in un posto più caldo. Suona dei synth, muove le mani velocissimo e scuote la testa come Giovanni Allevi ma a fianco ha anche due bonghi comprati a Cuba e ogni volta che li sfiora sostiene di sentire il profumo dell’Avana. Infine all’estrema destra il mio secondo musicista preferito del gruppo, uno sviluppatore iOS che ha appena fondato la sua terza start-up. Le precedenti due sono andate di merda e si è ricordato che aveva in cantina una Nord Electro, così ha chiamato il suo amico Jose ed è rientrato nella band. Suona anche bene ma palesemente non glie ne potrebbe fregare di meno, però la musica lo aiuta a concentrarsi su come ottimizzare l’interfaccia utente della sua nuova app. Infine c’è lui, Gonzales, e non riesco a volergli male. Ha avuto successo come solista ma non si è scordato dei vecchi amici. In fondo sembra un bravo ragazzo e tra quei capelli e qualche espressione facciale ogni tanto mi ricordo Max Gazzè. Ma, voglio dire, Gazzè è molto più bravo.

(Francesco Negri)

 

Suonare.

Anche se non è live (ma tanto un dj poi mette i dischi ed è sempre live anche se è roba registrata in studio). Al minuto 3:47 compare una scritta “PREZIOSO IS FREDDY MERCURY” (scritto proprio Freddy Mercury) che non fa che confermare che Giorgio Prezioso è leggenda.

Glass Candy / Chromatics @ Bronson, Ravenna (03/06/2013)

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Nella seconda metà del concerto i Chromatics smettono di suonare, tutti a parte Johnny Jewel, il quale sulla base del pezzo che sta finendo fa partire un’altra base più o meno uguale ma spaiata di ritmo, e per un minuto stiamo ad ascoltare questo groove strano e minimale e storto e non troppo danzereccio e pure piacevole. Ok, questo a ragion veduta è l’unico minuto di musica dei Chromatichs (almeno tra quelli suonati stasera) che non si possa trovare identico e meglio confezionato nel primo o nel secondo disco dei New Order. In linea di principio queste cose mi farebbero girare i coglioni, ma

1)      la scarsa originalità e il plagio spudorato sono stati depenalizzati da almeno dieci anni

2)      sono preso bene di mio.

In realtà qualcosa da dire ce l’avrei pure, nel senso che anche al netto di tutta la musica che ci siamo ciucciati dal botto degli Strokes ad oggi è ancora abbastanza difficile dover avere a che fare con concerti-evento che rimasticano roba che ti sei svolto da solo e in tempi non sospetti di fronte alle immaginarie risate dei tuoi immaginari amichetti metallari, ma l’analisi di questo genere di fenomeni e contro-fenomeni non può tener conto del fatto che alla fine il Bronson non è che sia stracarico di gente, e comunque c’è da fare i conti col punto 3 della lista di cui sopra e cioè che

3)      i Chromatics suonano benissimo.

Niente di eccezionale, sia chiaro: batteria, una o due chitarre e qualche macchinetta analogica. Per i Chromatics il fatto di essere vintage si estende alla coscienza che saper suonare in un gruppo pop significhi saper suonare insieme. Un mezzo uovo di colombo: serve esperienza, e questa roba si brucia in fretta. I Chromatics hanno dieci anni di dischi alle spalle e vengono (come tutto il progetto Italians do it Better) da un giro di gente ed etichette dove o facevi roba interessante o non ti copriva un cazzo di nessuno. Per quanto riguarda i concerti che richiamano un pubblico come questo (tagliando con l’accetta: un pubblico in mezzo al quale sono presenti almeno dieci ragazze a cui sareste tentati di chiedere di uscire nonostante sia quasi certo che vi risponderanno a risate e gomitini con le amiche. Non io, uno che conosco), i Chromatics rischiano di essere la cosa più solida con cui avrete mai a che fare: coverizzano Kate Bush, Neil Young e Blue Moon (chitarrina e voce, roba da brividi) e le portano tutte a casa. La cantante somiglia ad Annalisa Scarrone. Da non crederci. S’è fatta quasi mezzanotte e la gente si disperde un po’, è lunedì sera e io mi sento una nuvola di gas nervino nel cervelletto: ipotizzo che Glass Candy abbiano già suonato intorno alle 21,30, ma mi assicurano che non sono ancora saliti sul palco. Rimango indietro senza convinzione, mi dico che se butta male un risultato l’ho comunque raggiunto e posso tornarmene a casa a dormire l’ultima puntata di Game of Thrones.

Insomma i Glass Candy (ho sempre usato il femminile, le Glass Candy) salgono sul palco ad ora tarda e dopo mezza canzone sono a scapocciare a un angolo del palco. Non si riesce a spiegare benissimo cosa succede: sul palco c’è sempre Johnny Jewel, ma senza il gruppo a suonare e con Ida No al posto di Annalisa Scarrone. La  musica sembra la versione non-radical e non-chic di quando vivevo di fronte alla palestra e alle sette di sera iniziavano i corsi di aerobica per le quarantenni: parte la base italo-disco, il volume sale a livello disumano, un’istruttrice criptofascista senza alcuno skill danzereccio muove due passetti ti invita a muovere il culo urlando UNO DUE UNO DUE al microfono. Però il concerto dei Glass Candy non è né un bluff né una cosa sul genere so bad it’s good. Somiglia più al risultato di un esercizio di sottrazione strutturale lungo dieci anni su una musica che ha perso tutti i riferimenti per diventare, più o meno, gioia pura. Forse l’unico paragone possibile è Andrew WK: non è roba per puristi della disco, non è roba che apprezzi solo se hai più di duemila dischi in casa, non è roba per farti sentire figo; sfrondata di tutto, suona come la musica più onesta mai realizzata. Una piastra, un sintetizzatore, qualche effettino, un microfono, dei passi di danza malfermi. Difficile in mezzo a un concerto dei Glass Candy immaginare che questa cosa ha trovato un uso massivo in passerelle e spot pubblicitari: per il tempo che va avanti è più come il sesso anale passivo o una qualsiasi altra forma di celebrazione orgiastica pura e non accettata socialmente. Sulle prime file ci sono le facce più felici che si possano vedere a un concerto senza droghe: fanno i bacini con Ida, alzano le braccia tatuate al cielo, ballano come degli spastici, s’abbracciano, urlano. Tendenzialmente ci si tiene pure il telefonino in tasca. Nel resto d’Italia il Boss tiene una lezione di catechismo di tre ore e mezzo a San Siro, e da qualche altra parte Paola e Chiara annunciano l’imminente ritiro dalle scene. Difficile non pensare che il concerto dei Glass Candy non sia in qualche modo la summa. Per così dire.

(la foto è di Giulia Quintabà)

The Knife @ Milano, Alcatraz (29/04/2013)

(il report è scritto da Fede, amico/sostenitore/possibile futuro membro della ballotta)

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Lunedì sera a Milano hanno suonato (per modo di dire, poi lo vedremo) i The Knife.

I The Knife sono un due svedese, la loro vera e propria hit è del 2003 e si chiama Heartbeats. È una canzone pop molto bella ma anche molto carina e educata, ed è nota soprattutto per una cover di Jose Gonzales, che sta anche nella pubblicità della Sony con le palline rosse.

Dopo quel disco lì ne hanno fatto uno, il loro migliore, che si chiama Silent shout. È un po’ la via pop a quell’elettronica oscura che si porta molto, e ha avuto un successo clamoroso (anche di critica).

Poi la tipa ha fatto un disco solista a nome Fever ray e uno che ne capisce (il quale figura anche su Bastonate a nome technoiglesias) dice che è il disco più bello degli anni zero. Io ogni tanto per qualche mezz’ora ci credo.

Tre anni fa han fatto una cosa minore su commissione, ispirata a Darwin, ma in sostanza sono spariti per un bel po’.

Quest’anno è uscito Shaking the Habitual. Un doppio, lunghissimo, con alcune cose estenuanti, molto duro e angoscioso, molto influenzato dalla techno. Un bel disco, meno peso di quanto loro stessi vorrebbero far credere, con alcuni difetti (tipo che non finisce mai e c’ha vari pezzi sui 10 minuti e uno sui 20), ma tutto sommato un bel disco. Dicono di essere praticamente un altro gruppo rispetto agli inizi, ed in effetti fanno tutt’altra roba. Dicono che non hanno cambiato nome perché va beh sono sempre loro, però ammettono che di solito quando un gruppo cambia così tanto in genere cambia anche il nome.

Credo che rispetto a certo pubblico paghino soprattutto il successo, e la cover di un pallemosce come Jose Gonzales, ma che se un disco con gli stessi suoni fosse uscito a nome di qualche oscuro fattone su un’etichetta tipo Modern love o Tri angle sarebbe molto apprezzato da tanti che li disprezzano. Mentre i tanti che li ascoltano probabilmente non se lo inculerebbero di pezza.

Comunque a loro sembra non fregare molto, sono molto presi da altre questioni e lo hanno presentato con comunicati e interviste noiosissimi, tutti basati su prese di posizione politiche su temi quali gli studi di genere, la messa in discussione delle norme sociali, la lotta al capitalismo… A leggerli sembra di stare negli anni 70.

“Son svedesi, son fatti così”. Al che una ragazza mi fa notare che pure Avicii e gli Abba sono svedesi. “Gli svedesi politicizzati son fatti così”.

you bet

Il concerto milanese è la terza data del tour, la terza data in assoluto da non so quanti anni. Va sold out in prevendita ai Magazzini, lo spostano all’Alcatraz (grazie a dio, che vedere un concerto sold out ai Magazzini è l’esperienza più simile alla tortura militare data da vivere oggi nel mondo civile, tra gente che sviene, corpi schiacciati, aria irrespirabile e non vedere un cazzo di quello che sta succedendo) e va sold out in prevendita pure lì (ma è un ambiente molto più vivibile).

Un comunicato parla di

“Absurdist Aerobics class taught by a master-teacher-guru-shaman-dictator-aerobics instructor- new age workshop leader, Tarek Halaby.

Participatory/interactive absurdist warm up for anybody who wants it.
Death Electro Emo Protest Aerobics… DEEP AEROBICS

DEEP AEROBICS is a workout form invented and shamelessly disseminated by Miguel Gutierrez, who hopes to soon destroy the technique, because it’s just too hard to teach, and really the world is going to hell in a hand basket anyway. It is the communal/political/conceptual/imaginational workout experience you always wanted but never could embarrass yourself enough to find or do in public. It is for anyone who has ever had any interest in combining the joie de vivre that is the vigorous bouncing of one’s anatomical/spiritual/energetic molecules with the existential absurdity that is living in a world/country/economic system of injustice, war-mongering, and cultural ineptitude. Oh wait, that’s you. If you feel like it: come in your own crazy aerobics costume, whatever that means to you. Taste the sweat”.

E in effetti le danze si aprono con una mezz’ora in cui un tizio conciato in modo strano urla incessantemente cose (“Say yes! Say no!”) sopra a musiche tipo Heavy cross, invitando la gente a unirsi a lui nel ballo. Dà più che altro fastidio perché urla come un forsennato, ma nessuno se lo caga più di tanto.

È solo l’inizio, letti un po’ di commenti in giro sulle due date precedenti sapevo cosa temere, e si è rivelato tutto vero.
Alle 9 e 30, anziché in due, salgono sul palco in metà di mille (non è vero, sono tipo sette), e alla seconda canzone ogni tanto smettono di suonare, ma la musica va avanti. Perché stavano facendo finta.

Dalla terza canzone non fanno neanche più finta, mollano gli strumenti e diventa un balletto, tipo villaggio turistico. La musica è quella dei dischi, ma nessuno suona e nessuno canta.

Questa rimane la costante più o meno per tutto il concerto, e realizziamo di non stare assistendo a un concerto dei The Knife ma, di volta in volta, a “uno spettacolo di danza su musiche dei The Knife”, a “giochi di luci (nessuno sul palco) su musiche dei The Knife”, a “gente che sta ferma (ferma) sul palco su musiche dei The Knife”, a “gente che sventola glowstick su musiche dei The Knife”, a “gente che fa finta di suonare (anche strumenti finti) e di cantare su musiche dei The Knife”, a “improvvisi momenti di giocoleria su musiche dei The Knife”, e così via.

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La cosa più sconcertante è che nessuno (a parte un tizio di fianco a me che a un certo punto mi chiede “ma non suonano mai?”) ha niente da ridire. La reazione del pubblico è costantemente quella della totale presa bene. Balli forsennati, battiti di mani, grida come se stesse succedendo qualcosa.

In vari punti capita che parta proprio quell’”wuuuh” tipico di quando c’è una sorpresa inaspettata, io ogni volta mi aspetto che sia salito sul palco Gué Pequeno o qualcosa di simile ma invece non succede mai, e ogni volta mi chiedo per che cosa stiano esultando.

Lo spettacolo ha i suoi momenti, tipo alcuni giochi di luce molto belli, ma in definitiva fa abbastanza cagare e sembra sempre al limite del ridicolo o della provocazione (le parti in cui fanno finta di suonare e poi smettono mentre la musica continua, tipo Elio e le storie tese o Fausto Rossi al Festivalbar, sono emblematiche – cercando conferme alla cosa di Fausto Rossi ho scoperto che esiste una sua cover fatta da Massimo Boldi e ci tenevo a farvelo sapere), ma la provocazione non viene raccolta mai.

O è il pubblico più avanti di sempre, che apprezza il gioco, la scoperta presa per il culo, e si esalta e partecipa all’“installazione”, o è del tutto inconsapevole e sta dimostrando che si sarebbe bevuto allegramente qualsiasi cosa – infatti un po’ spiace che, e quello sarebbe stato interessante, il gioco non sia spinto oltre, con parti più lunghe con nessuno sul palco, o con i ballerini immobili per tre canzoni di fila e non per una sola. Invece la provocazione è comunque abbastanza bilanciata, i momenti più vuoti si alternano comunque a quelli che simulano effettivamente un concerto, o a nuove trovate che riescono comunque a compiacere il pubblico (l’ingresso di un monitor, nuovi costumi, l’uso dei nastri da ballerina…).

Nell’oceano chiamato “commenti su internet”, riguardo le due date precedenti, molti si chiedono come mai la gente non li abbia presi a bottigliate. La sensazione tra il pubblico è opposta, è euforia.

Perché la musica comunque è verosimilmente quella di uno dei loro gruppi preferiti? Perché ormai che ho pagato mi voglio divertire (o mi devo divertire)? Perché in fondo non è troppo diverso da un djset (anzi: costa anche meno di una serata all’Amnesia, la scaletta è conosciuta, l’animazione è più coinvolgente)? Qualunque sia il motivo il pubblico apprezza.

L’animazione punta quasi troppo scopertamente a quell’effetto: a incitare il pubblico, a farlo ballare. E restano un sacco di dubbi e di discussioni possibili. È tutta una grande presa per il culo, e l’euforia ne sancisce il successo? È effettivamente uno spettacolo “diverso”, ma comunque percepito come bello? È da vecchi rincoglioniti pensare che si era venuti a vedere un concerto e cazzo questo non so bene cosa sia ma è tutto playback e comunque sia non è un concerto?

Dopo un’ora e mezza scarsa (scaletta con poca roba vecchia, anche dai primi ma non Heartbeats, e molto dal nuovo) lasciano il palco ma la musica non si ferma, e tutti continuano a ballare.  Chiedo a un tizio di fianco, che sembra contento, “ti è piaciuto?” “che cosa?” “il concerto” “ma mica è finito” “credo di sì” (avevo letto i report delle date precedenti) “no, no, figurati. Adesso tornano”.

E invece non tornano, si accendono le luci ma la musica continua (un set techno, non più roba loro) per almeno un’altra mezz’ora. Man mano molti se ne vanno, ma tanti restano a ballare.

Uscendo sembrano tutti soddisfatti, e per tutta la durata dello spettacolo ci sono stati applausi convintissimi.

Solo sulla pagina facebook della band leggo grande incazzatura e grandi ridatece li sordi. Uno scrive “You are thiefs like the politicians . Fuck i want my money back . You are a fucking capitalist”. In mezzo a molti commenti del genere ce ne sono anche un po’ che dicono “non capite un cazzo, cosa volevate da musica elettronica, chitarre acustiche e violini?? È stato bellissimo, grande adrenalina, grande energia, grandi tutine, mi sono divertito da pazzi wooooo”.

Sarebbe stato meglio se fosse stato un live canonico? Lo show è volutamente brutto ed è tutta una presa per il culo? Anche solo stupirsi che non ci sia gente che fa delle cose live sul palco significa essere fuori dal tempo? Il gioco è fare una merda e godere del fatto che qualcuno, proprio capendo che è una merda, la troverà geniale, fottendo così due tipi di pubblico (gli entusiasti e gli intellettuali) in due modi diversi?

Non lo so, alla fine non sono stato in grado di farmi un’opinione. L’amica che era con me dice che che preso a momenti singoli era una merda e spesso ridicolo, ma che forse alla fine tutto insieme non è stato male, e che ha preferito averlo visto che non essere stata a casa.

Forse il senso di tutto è che, alla fine, non sai bene che cosa hai visto e se l’hai capito, e che quantomeno si esce con qualcosa di cui parlare e su cui fare mille speculazioni e magari anche litigare, e non con quella tipica sensazione di aver visto l’ennesimo concerto medio che tra 3 mesi ti sarai dimenticato. È qualcosa.

– L’idea iniziale era di scrivere “quantomeno danno la possibilità di scrivere un report interessante”, ma arrivato alla fine non ne sono più così sicuro.

Stick your knife in me: SWANS @ Circolo degli Artisti, 22 marzo 2013

Il vecchio coi capelli sudici

Il vecchio coi capelli sudici

Non mi aizzavo così a un concerto dai tempi in cui vidi qualcosa di ugualmente pesante e sudicio e lungo, direi forse i Royal Trux, qualcosa come quindici anni fa. Uno di quei concerti che, in pratica, dura una cosa come due ore e mezza e te la fa prendere bene perché quando alla fine sei lì che muori, e non ne puoi più di vedere il vecchio che saltella, alla fine uno dei saltelli – ci sono stati ventisei saltelli e su ogni saltello tutta la band faceva SBRANG nel momento in cui lui toccava terra, e per ognuno dei ventisei ti sei detto FORZA, questo sarà l’ultimo e non lo era mai e così hai mollato e hai perso il conto e la tua mente è andata altrove (io per esempio pensavo alla città di Pereta dove sono capitato per sbaglio tempo fa), e poi all’improvviso uno dei saltelli si trasforma davvero nell’ULTIMO SALTELLO e tu torni in te tutto di un botto – tipo quando sei in motorino e ti fai i cazzi tuoi e a un certo punto uno non si ferma allo stop e sta per travolgerti, uccidendoti, e d’un tratto sei di nuovo quello che eri sempre stato, ragazzo, un falco nel cielo, un lupo in caccia con tutti i cinque sensi (tatto sudore puzza vista dito) svegli e pronti a farti scattare, dicevo? Ah sì, c’è questo saltello finale e tu all’improvviso RISORGI come un CRISTO TRIONFANTE IN GLORIA, la stanchezza ti passa di botto, sei lì che applaudi e dici a uno lì dietro, oh, è stato GRANDE e nel tuo GRANDE c’è già una promessa di letto, di RIPOSO, la maison de mon reve, amici miei, e sei talmente felice di avercela fatta che addirittura sciali questa adrenalina gratuita in cui non credevi più e ti trattieni in cortile a salutare tutti prima di andare (tutti? Tutti chi? “Tutti” cioè “nessuno”, due tre bruciati che hai incontrato lì per sbaglio quando sei arrivato SOLO alle ventuno e trenta, SOLO come SOLO nascesti e vivesti, fratello, eri SOLO, ti ricordi, a chiamare PAPà e lui non c’era). Insomma, questo è stato il concerto degli Swans, l’altra sera a Roma, un concerto glorioso per i motivi che ho detto, e spero di avervi trasmesso almeno in parte le sensazioni di amore e vittoria che ho provato, per una volta, davanti a un palco. Che alla fine, a che servono le recensioni dei concerti? A un cazzo di niente: io, quando ero piccolo (cioè avevo sui 28 anni), rosicavo a bestia per i concerti a cui non ero stato e c’era la recensione beffarda e quindi non la leggevo, al massimo buttavo lì un’occhiata scanner per vedere se riuscivo a cogliere che era stata una cacata, e naturalmente la prima e unica riga che beccavo era è STATA UNA FICATA MADONNA JEEZ NON SARò MAI Più LO STESSO;  succedeva questo, oppure c’era il caso che al concerto c’ero stato e non mi fregava poi molto di leggere le banalità di un altro, o c’era infine il caso del concerto di cui non mi fregava nulla e perciò mi fregava ancor meno di leggere la recensione.                 Quindi, non pretendo che a qualcuno freghi di leggere questa peraltro tardiva recensione di uno show che alla fine per lui/lei ha significato poco (questa frase non finiva così nel progetto mentale che faccio di ogni frase sette millidecimi prima di scriverla: però a volte mi va in merda il cervello e non riesco a concludere le frasi come avevo progettato, semplicemente perché mi dimentico in tempo reale ciò che voglio dire. In casi come questo, uso delle conclusioni di frase del tutto generiche e banali. Di norma la gente mi fa i complimenti proprio per queste frasi: MI CI SONO RISPECCHIATO UN SACCO IN QUELLO CHE HAI SCRITTO QUANDO HAI SCRITTO CHE GLI SWANS NON HANNO SIGNIFICATO UN CAZZO PER NESSUNO). Comunque, il concerto era iniziato male, c’era il tizio degli Xiu Xiu tutto solo che si lagnava, ma la cosa più devastante era che indossava un completo del tutto uncool, cioè era vestito come un impiegato povero o come un deputato grillino, quella eleganza STAZZONATA, capite. “Stazzonato” non so che vuol dire ma l’ho  letto in un libro di Ellroy dove “Stazzonato” era una parola su cinque (le altre quattro erano: “si scrollò le spalle”. No, davvero lo trovate fico, Ellroy?). Insomma, era cominciata male ma è finita bene. Sì, avete indovinato, questa era un’altra di quelle frasi che dicevo. Ma in linea di massima, sono abbastanza soddisfatto di me stesso, e se siete arrivati a leggere fin qui, GRAZIE: questo è davvero l’ultimo saltello.

Quest’anno suoneranno in posti ove la loro musica non è apprezzata

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Livorno 30 aprile, Mezzago primo maggio. Niente date in Emilia-Romagna. Peccato. La consolazione è che non sono più in giro con due batterie e portano ancora in giro Freak Puke (a conti fatti forse il peggior loro disco). Tra un po’ però esce un cover album. (la locandina è rubata da gigposters)

Bachi da Pietra @ Ravenna (Bronson) 15/02/2013

l'unica foto che ho scattato quella sera. sorry.

l’unica foto che ho scattato quella sera. sorry.

Dorella mena, Succi fa il cafone. Volumi devastanti, tecnica strumentale precisissima, la voce va e viene. Poca risposta del pubblico. Il miracolo di riprodurre il capolavoro di Quintale riesce solo a metà, l’altra metà un po’ ci si annoia un po’ me ne vado a casa prima della fine un po’ è stata una settimana pesa per i cazzi miei.

suonare.

Son giorni che sono tentato di scrivere qualcosa su questa cosa della diatriba tra rap anni novanta e anni duemilaedieci. Se ce la faccio a trattenermi ve la evito volentieri.

Il listone del martedì: CINQUE COSE SUL CONCERTO DEI REFUSED DOMENICA SERA

Domenica sera i Refused hanno suonato a Bologna il loro primo reunion-show da headliner. Io ho pisciato il concerto per via del prezzo del biglietto. Il nostro amico Capra, persona bella e fiancheggiatore di lungo corso, era presente e ci manda un report fedele ed esaustivo.


1.
Parlare del concerto dei Refused a Bologna non può esimersi dal trattare la questione gordiana del “È-giusto-che-i-Refused-facciano-una-reunion-e-che-si-debba-pagare-30-euro-per-vederli?”
La questione non mi tange granché. Se sia giusto che i Refused tornino a suonare sarà una roba che penso riguardi solo loro. Se sia giusto pagare 30€ per andarli a vedere all’Estragon, penso non sia un problema esageratamente intricato, e l’alternativa che si pone è di una banalità lapalissiana: se pensi ne valga la pena, li paghi. Se pensi non ne valga la pena, non li paghi.
Il discorso, per quanto mi riguarda, si può estendere alla musica intera.
Star lì a maramaldeggiare il fianco scoperto di quelli che, come me, erano in fotta per vedere suonate dal vivo alcune delle canzoni più ascoltate negli ultimi 10 anni, facendo filippiche su tematiche varie tipo “lo fanno solo per i soldi”, “non sono più quelli di una volta”, “lo fanno per i soldi perché non sono più quelli di una volta”, etc, mi par cosa sgraziata e impietosa.

1 bis.
Era da tanto che volevo iniziare un live report usando almeno quattro parole entrate nel linguaggio più o meno comune che derivano da nomi propri. Nella fattispecie:
GORDIANA: dal nodo inestricabile che era nel carro del re Gordio: un oracolo prometteva i dominio di tutta l’Asia a chi lo avrebbe sciolto. Si dice di qualsiasi questione intricata e difficile a sciogliersi se non tagliando risolutamente, come appunto fece Alessnadro Magno col nodo gordiano.
LAPALISSIANA: di verità evidente, che è inutile o ridicolo enunciare; e dicesi dal nome di un guerriero, La Palisse, francese, alla cui morte fu pubblicata un’ode, per esaltarne i valore, che conteneva appunto una di tali ridicolaggini.
MARAMALDEGGIARE: infierire sui deboli o sui vinti; da quel Fabrizio Maramaldo che, dopo la battaglia di Gavinana (1530), uccise di propria mano Francesco Ferrucci già gravemente ferito.
FILIPPICA: nome delle orazioni di Demostene contro il re Filippo di Macedonia; invettiva, discorso violento di accusa contro qualcuno

2.
Il pubblico che c’era l’altra sera si poteva dividere tra:
– i deboli, quelli che non potevano fare a meno di vedersi i Refused dal vivo almeno una volta nella vita
– i curiosi, generalmente attorno al mixer o dietro quest’ultimo
– i giovani
– gli ignoranti, quelli che pensano che i Refused siano una band come un’altra che quest’anno sta suonando abbastanza e una capatina forse la meritano

3.
Cosa ha dato fastidio al concerto dei Refused a Bologna?
3A) Il volume del master, roba del tipo che sentivi il cellulare se suonava. Quando sono andato a 2 metri dalle casse la storia diventava quasi onesta. Nel mezzo davanti al mixer al minimo dell’accettabilità. Ma chi va a vedere un concerto all’Estragon negli ultimi anni sa cosa aspettarsi. Se mi citi il concerto dei Cannibal Corpse all’Estragon non vale un cazzo.
3A bis) Da qui alcuni dettagli quali non si sentivano i piatti, i suoni della batteria erano mosci, etc.
3B) Le filippiche (sic!) del cantante tra un pezzo e l’altro.
Voglio dire: il cantante dei Refused al suo concerto può dire quello che gli pare. Semplicemente quello che dice in gran parte non mi tange. Se si vuole dissertare sul fatto che fare discorsi tipo “La nostra rabbia in Nord Europa non veniva compresa, ci si chiedeva spiegazioni. In Germania veniva capita e ne volevano sapere di più. Ma qua voi la capite benissimo, perché è anche vostra etc”, oppure “Rimanete curiosi nella vita. Rimanete affamati, specialmente a Bologna”, oppure “Ribellatevi a chi vi impedisce di essere liberi etc Free Pussy Riot etc”, possa risultare fuori luogo, parliamone.
Sentire parlare bene in inglese comunque è sempre un piacere per me.
La mia opinione a riguardo comunque è questa: mi sono sembrati sinceri. Se dici cose che non mi interessano non significa che stai mentendo. Se dici che le tue idee sul capitale e quant’altro non sono cambiate da quando eri venuto a Bologna nel 1994, posso anche crederci. Non vedo un conflitto insanabile tra il fatto di essere anti-capitalisti e fare una reunion per tirare su un po’ di soldi. Se il biglietto fosse costato 15€ sarebbero stati più coerenti? Se non avessero affidato la gestione a LiveNation sarebbero stati meno immanicati? Può darsi, ma non possiamo sapere con quanti soldi ognuno di loro se ne ripartirà da Bologna dopo il concerto dell’altra sera. Quello che penso io? A vedere dal numero di persone che lavorava per loro, dal pullman dietro il backstage, costi di agenzia, affitto locale, etc, direi non più di 1.000€ a testa.

4.
Il concerto.
Andare al concerto dei Refused è una di quelle cose che ti fanno sentire vecchio perché in macchina non devi ripassare niente. Qualsiasi pezzo faranno lo sai alla perfezione, potresti quasi suonarlo. Io per esempio mi sono ascoltato l’ultimo dei Converge lungo il tragitto, sia all’andata che al ritorno.
Il concerto è stato perfetto. Non mi aspettavo nient’altro. Ogni nuovo brano in scaletta era il benvenuto. Se a 40 anni suonati sarò così anch’io mi faccio erigere un busto di marmo in giardino. La cosa che mi ha lasciato un po’ così, è stata una discreta sensazione di apatia una volta finito il live. Una via di mezzo tra l’andare di corpo e compilare un bollettino della SIAE. Una sensazione come di qualcosa di necessario, che andava fatto, ma che subito dal mio stomaco veniva rubricato come burocrazia.
A distanza di 24 ore la sensazione è cambiata.
Ora so che quando, tra un paio di settimane o poco più, riascolterò qualcosa dei Refused, non saranno solo canzoni incastrate in qualche ricordo di quand’ero più giovane, non saranno solo dei pezzi che dopo 10 anni ancora non mi stancano; avranno delle facce di quarantenni sorridenti, avranno camice bagnate indosso, avranno un concerto che rinnova il ricordo, avranno un ricordo in più che rinnova il sentire.

5.
Note di costume
5A) “Per la prima volta in vita nostra abbiamo un banchetto con le magliette non originali fuori da un nostro concerto. Siamo una vera band”
5B) il gruppo spalla ha paccato. Dal palco il cantante ha detto che hanno provato a chiamarne un altro da Bologna (ditemi chi) ma non era in regola con le tasse. Il che probabilmente significa che non avevano una posizione ENPALS aperta come musicisti. Personalmente non conosco nessuno che suoni che ha una posizione ENPALS come musicista; oppure lo conosco ma non me l’ha mai detto
5C) l’unico paninaro presente ha fatto un fracasso di dollaroni
5D) la media di persone che suonano o hanno suonato in gruppi con le chitarre era altissima
5E) la lista degli invitati stilata dai Refused era così lunga che quei simpaticoni di LiveNation hanno cancellato un sacco di accrediti all’ultimo minuto
5F) la fila era al bagno degli uomini