Lou Reed, 1942-2013

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che poi quando muore un eroe assoluto ti accorgi che, nonostante lui abbia parlato a tanti oltre che a te (non particolarmente a te), e puoi quindi essere stato geloso dei Velvet Underground ma fino a un certo punto, e ai concerti c’era il pubblico generico, e talmente tanto ne parlava addirittura Repubblica quando usciva The Raven, ed era in fondo un po’ così essere l’autore senile dell’ennesimo progetto artistico ispirato a Poe; e i greatest hits, i concerti con il pubblico generico, Antony, essere i soli ad aver davvero capito Heroin – nonostante tutto questo, quando muore un eroe il vuoto è improvviso, e più grande. Sono anni che mi dico, e cosa faccio quando muore Bob Dylan?, e in qualche modo ero pronto. Non ero preparato alla morte di Lou Reed (quanto è banale dirlo? Ma non credevo fosse possibile). Cè una foto all’interno del terzo disco dei Velvet Underground, quello omonimo, in cui lui avrà molti anni in meno di me adesso e naturalmente non sa ancora tutto quello che si scriverà e si racconterà su quello che stava facendo in quei giorni – non sa nulla di tutte le band che verranno, e gli onori – tutta quella enorme, vana influenza (nessuno arriverà mai più in alto). Non sa ancora, in quella foto, che il 2013 e lo stava aspettando, e aveva i denti.

Quello che non sappiamo noi, invece, è che cosa ci resta da fare adesso.

Who loves the sun?
Who cares that it is shining?
Who cares what it does since you broke my heart?

Elio Fabbri (è il titolo di un documento google condiviso)

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La canzone è Easy way out, sta in un disco che si chiama Figure 8, figura otto, è del 2000. Tre anni dopo Elliott Smith l’hanno trovato morto con due coltellate nel petto che probabilmente si è dato da solo. Quando gli hanno chiesto perché figura otto, Elliott Smith ha detto I liked the idea of a self-contained, endless pursuit of perfection, ma ho qualche problema con la perfezione, la perfezione non si puà raccontare; eppure c’era qualcosa che mi colpiva nell’immagine di un ragazzo con lo skate che va avanti e indietro e gira e rigira di continuo dentro questo doppio anello, come dentro il simbolo dell’infinito, come dentro una figura a forma di otto. So the object is not to stop or arrive anywhere, ha detto Elliott Smith, non bisogna fermarsi, non bisogna andare da nessuna parte, dobbiamo solo rimanere dentro la figura a forma di otto as beautiful as we can, ha detto Elliott Smith, poi è saltato fuori dal doppio anello dell’infinito otto, che poi sembrano sempre due numeri zero. Intervistare Elliott Smith è come lanciare una palla a un cane.

Ci sono quei giochini stupidi che fanno i blogger, e le altre persone, quello del ricordare dov’eravamo quando è successa una determinata cosa. Per me è una cosa dei blogger perchè un mio amico una volta mi disse che avrebbe aperto un blog su questa cosa, sai, gli eventi tipo l’undici settembre. me lo disse cinque anni fa o forse otto e quindi secondo me ora questa cosa è caduta in prescrizione e l’idea è open-source. Dicevo, nella galleria dei posti possibili cosa stavi facendo il ventuno ottobre del duemilaetredici, nel momento in cui Elliott Smith decise di prendere un coltello e aprirsi il petto e far vedere ai passanti cosa c’era dentro, io ero uscito per la prima volta con Nicoletta. Nicoletta era una ragazza bellissima coi denti storti in via di correzione (hai mai limonato con una con l’apparecchio dopo i diciotto?) e il trip del commercio equo e solidale. Le ragazze sono tutte bellissime quando sei sfidanzato da un mese dopo sei anni di fidanzamento. Non ci fu una seconda volta con Nicoletta, perchè la prima volta che uscii con Nicoletta la mia amica Caterina, la quale era la persona con cui volevo più stare dopo averla lasciata, non Nicoletta, dico la mia ex, quella sera era finita nello stesso posto dov’eravamo noi con un dj molto famoso per i cinque stronzi che ospitava il locale, in elegante ritardo e in tempo per il bis della tribute band di De Andrè che stava intonando forse Il suonatore Jones. Classiche cose che si sentono in giro per Cesena. Io misi il muso e Nicoletta forse se ne accorse e se ne andò. Io venni accompagnato a casa da una persona mai vista di nome Gianni, Gianni si fece volere bene e diventò intimo amico e compagno di un milione di bevute. Mi dicono che Elliott Smith si è ucciso dieci anni fa esatti, ma per il modo in cui ha scelto di andarsene forse è esatto dire che si è assassinato. Ora Gianni è fidanzato con Caterina, dice che tra poco si sposano.

Da un mese, le ho detto, ho in testa questo ritornello che dice it’s all about taking the easy way out for you, I suppose, mi sembri uno che preferisce le vie di fuga semplici: mangio e non lavo i piatti e scappo senza salutare, maleducato come un bambino, ma non come un bambino, perché i bambini sono carini, mangiano i biscotti e non si drogano, no: sono scappato come uno che non è abbastanza uomo. Poi sono anche uno che rifiuta il machismo sessista dell’espressione “essere abbastanza uomo”, ma non è una giustificazione: c’è modo e modo, lo so; si può essere uomini senza essere noiosi, si può essere uomini senza fumare, lo so.

Le canzoni sono tutte chiacchiere, mi dirai. E mi insegnerai questo modo di dire francese, Il y a des hommes et des omelettes, ci sono gli uomini abbastanza uomini e poi ci sono gli altri, quelli che non valgono più di due uova sbattute. Magari vivrò un milione di anni e per un milione di anni penserò alle uova dei tuoi occhi bianchi e arancioni e poi tutti gialli spappolati, non ne vale la pena. E io invece di darle ragione, di chiederle scusa, invece di cantare I am the Egg Man, you are the Egg Man, cercherò su internet homme omelette e il primo risultato che troverò sarà un video di quarantasei secondi in cui un ragazzo ubriaco dorme e il suo amico gli rompe due uova in testa e il terzo amico fa il video con il cellulare e ridono, sono francesi; poi dopo le uova gli mettono in testa la nutella e io a quel punto chiuderò la finestra, accenderò la prima sigaretta della giornata e non ti risponderò neanche oggi, che schifo, it’s all about taking the easy way out for me, I suppose.

Due pugnalate nel petto non sono un modo di andarsene. è più tipo il Grande Fratello dell’auto-assassinio. ci sono i manuali di auto-aiuto, giusto? Saranno sei milioni di manuali in tutte le lingue. Di manuali di auto-assassinio ne conosco e possiedo uno solo, è di Maicol e Mirco e si chiama Il suicidio spiegato a mio figlio. Bellissimo, ma ha un’attitudine un po’ isipisi. Isipìsi nel senso inglese della parola. Anche attitudine nel senso inglese della parola. Se qualcuno mi dicesse che la mia attitudine, nel senso italiano, è di saper fare manuali illustrati per uccidersi, probabilmente avrei qualcosa da ridire. Due pugnalate autoinflitte al petto vuol dire che te ne stai andando e sbatti la porta. Poi c’è la metafora della movida milanese, quei diagrammi di flusso che stanno nei tovaglioli trovati casualmente al tavolino di un bar ed è subito meme, nel senso inglese del termine, l’ho scoperto da Pucci l’altro giorno che meme si legge miim e non appunto “meme” come in italiano. è difficile fare i miim sul suicidio. Non so se ero un fan di Elliott Smith, ma quando mi han detto che s’è ammazzato ho messo su Either/Or e solo quella volta (nè prima, nè dopo) ho sentito il sangue uscirmi dal petto e ho pensato “ecco, ho fatto una cazzata”. L’unica altra cosa che so è che una volta Elliott Smith suonò a Firenze verso il duemila e i ragazzi fecero un pullman da Cesena e lo andarono a sentire. Dicono che il pubblico era composto sostanzialmente dal pullman dei cesenati e nessun altro. Ancora adesso ne parlano come di una prova del fatto che i cesenati ne sanno di musica molto più di quanto ne sappiano gli altri italiani. Un sacco di chitarre acustiche a Cesena, quasi tutte in trasferta a Firenze.

Firenze, non mi ricordo più quale motociclista giovane e famoso prima di morire si lamentava al microfono di un giornalista sportivo e gli diceva: Giro il mondo, ma vedo solo i circuiti, le piste, gli alberghi e gli aeroporti, e certo che ci sono circuiti più belli di altri, gli alberghi non sono tutti uguali, nemmeno gli aeroporti. E invece sì: alla fine gli aeroporti sono tutti uguali, anche gli alberghi, anche i circuiti, cosa giro a fare se non vedo niente? Passare da un non luogo a un altro è la definizione precisa di non andare da nessuna parte e io, diceva il motociclista al giornalista, io sono tre anni che non vado da nessuna parte a trecento all’ora.

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Elliott Smith è morto dieci anni fa esatti. i corsivi sono di simone rossi, gli stampatelli e il disegno di Francesco Farabegoli. Alcune cose vengono da opere precedenti. Sempre nostre.

Il disco più bello di sempre.

Quando dico “il disco più bello di sempre” non mento mai, però in realtà il disco più bello di sempre è più di uno. Ci sono tre ragioni per cui lo faccio: la prima è che mi permette di dare un’altra sfumatura a “uno dei miei dischi preferiti”. “Uno dei miei dischi preferiti” posso dirlo di centinaia di dischi. The More Things Change è uno dei miei dischi preferiti,  Zen Arcade è il disco più bello di sempre. La seconda è che mi permette di non scegliere tra Zen Arcade e, non so, End Hits o SxM. La terza è che le ragioni devono sempre essere tre. Il febbraio del 1993 credo sia stato freddo come di solito a febbraio, quando i Nirvana (la formazione è la stessa che ha inciso Nevermind, due anni prima, e che è esplosa in giro per il mondo) entrano in uno studio in culo al Minnesota per registrare il loro secondo disco di inediti su Geffen. il nome degli studi è Pachyderm. Un paio di mesi prima PJ Harvey ci ha registrato Rid of Me (uno dei miei dischi preferiti). Fuori c’è aspettativa. Kurt Cobain è già in down: ha sposato Courtney Love e avuto una figlia, viene massacrato dalle associazioni, divide il mondo tra pro e contro, è già diventato il simbolo di un’inclinazione che non ha idea di cosa sia. Vorrebbe stare bene, ma sta male. Se li ascolti nella provincia romagnola a quindici anni i Nirvana sono un gruppo rock. Magari un gruppo rock grandioso, che piace a tutti e che sta cambiando le cose ed è dappertutto, ma è –di base- un altro gruppo rock. La cosa della musica indipendente e dei Flipper e degli altri duemila gruppi preferiti di Kurt Cobain (il più grande critico rock americano) e di tutto quello che ci sta dietro la sai se hai qualche anno più di me sulle spalle, se leggi i giornali, se hai fatto il primo giro negli anni ottanta e magari racconti con nonchalance di avere visto i Nirvana al Bloom assieme a un altro centinaio di persone. La frase our band could be your life l’ho ascoltata per la prima volta a diciotto o diciannove anni. Odio arrivare dopo.

Per registrare In Utero i Nirvana possono scegliere il produttore che vogliono. È una specie di informale invito a una guerra civile: Kurt Cobain odia Nevermind, il modo in cui è uscito e quel suono così pulito: vuole qualcos’altro che forse sia solo suo, o forse vuole ributtarsi sul mercato dichiarando in faccia al mondo quali siano le sue origini, o forse vuole sabotare la propria carriera con un disco inascoltabile, tornare a suonare nei club e rimettere in piedi la propria vita. Forse vuole solo fare un disco che lo faccia stare bene mentre lo realizza. Difficile dirlo, e in fondo poco importante. Steve Albini lavora con chiunque, ma quando lavora per una major chiede più soldi. Per i Nirvana spunta un compenso di centomila dollari. Non prova alcun affetto per il gruppo. Di loro ha detto cose tipo “REM with a fuzzbox” e per lui non è un complimento. Il disco, secondo i piani, sarà registrato in due settimane al massimo. Albini lavorerà con il suo secondo, un ingegnere del suono di nome Bob Weston. C’è una foto con i Nirvana, i due ingegneri del suono, la figlia di Kurt Cobain e un cane.

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Questa foto l’ho vista per la prima volta due settimane fa, in un pezzo su Rolling Stone. Grazie Chiara. Per la maggior parte della gente immagino sia la foto dei Nirvana con quelli che gli hanno registrato il disco. Per me ha un valore speciale: contiene tutta la mia musica preferita. L’anno successivo uscirà il primo disco del progetto musicale di Steve Albini con Bob Weston, assieme a un batterista del Minnesota di nome Todd Trainer (categoria “il disco più bello di sempre”). Albini e Weston, anche separatamente, produrranno i più sensazionali dischi degli anni novanta e oltre. I Nirvana hanno i nervi a pezzi e sono al loro apice creativo. Le session di registrazione secondo le cronache sono tranquille, con un momento di frizione quando arriva Courtney Love e inizia a metterci il becco. Steve Albini consegna i nastri al gruppo, Cobain fa sentire i nastri alla casa discografica e ai tizi viene un colpo. Si tratta di roba grezzissima, tutt’altro che in bassa fedeltà ma incentrata su un’idea di suono totalmente diversa da qualsiasi standard del ragionevole si possa pensare per un disco pop rock -anche oggi. Le voci non sono doppiate, quasi inintelligibili in certi sfoghi strumentali, le batterie sono piene di echi, come se fossero state registrate dentro l’hangar di un aeroporto. Le tracce parlano perlopiù di tante sfumature diverse per cui l’esistenza fa schifo; i tizi della Geffen non si fanno pregare troppo e decidono di rispedire i nastri al mittente. Delle tracce viene detto “non all’altezza degli standard del gruppo”. Del disco in sé viene detto “impubblicabile”. Kurt Cobain passa dall’euforia dei primi giorni a un’insicurezza cronica; si parla di remixare il disco, Steve Albini s’infuria e rifiuta. Il lavoro di Andy Wallace su Nevermind sembra bruciare ancora un bel po’, finisce con una disputa e la soluzione di compromesso di rimettere le mani sui pezzi che diventeranno singoli. Lo farà il produttore dei REM Scott Litt. e il disco uscirà nel settembre del 1993. Il titolo voleva essere Odio me stesso e voglio morire, ma qualcuno fa cambiare idea a Kurt Cobain.

Nella maggior parte dei casi le situazioni in cui ti ascolti un nuovo disco sono sempre più o meno le stesse, quindi non è facilissimo ricordare cosa hai provato e quando e cosa pensavi fuori dalle orecchie. Questo per i sedici anni: quando sei più adulto semplicemente non hai più quel genere di spinta emotiva e ti occupi di cose che hanno un senso. Però molta gente che ascolta musica ha dei rituali: chi se l’ascolta in cuffia da solo in un viaggio in treno, chi spegne la luce, chi si prende in mano un libro e tutte quelle perversioni lì. Io avevo un mangianastri e facevo quel che potevo. Alcune cose dei dischi che ascolti si perdono nel tempo, alcuni dischi la prima volta manco ti piacciono. Anche quelli belli. Ce ne sono alcuni fatti apposta per non piacerti al primo giro, anche se sono meno di quelli che pensa chi li produce, i dischi. Di In Utero non ricordo dov’ero o con chi o a che volume, no, il volume me lo ricordo, era tutto a destra e io il pomeriggio ero quasi sempre da solo in casa. L’inizio del disco invece è come un film, tutte le volte: ci sono tre colpi di bacchette e poi uno SBRANG terrificante caciaronissimo e poi parte uno dei riff meno carichi della storia del gruppo. I primi due versi li conoscono pure i bambini ma fanno male tutte le volte. E Kurt Cobain li canta e sembra ubriaco. È il più bell’inizio di disco che io abbia ascoltato e il gruppo per ora sta scherzando. Uno se ne accorge quando inizia la traccia due, che invece è la cosa più violenta a cui i Nirvana abbiano mai messo mano e uno dei massimi capolavori di Steve Albini. Da lì in poi ognuno ha la sua classifica. La mia contiene quasi tutte le tracce del disco: persino i pezzi remixati da Litt sono anni luce avanti da certi scempi perpetrati dalla coppia Vig/Wallace su Nevermind. Saltuariamente i ricordi si legano a pezzi di tracce e linee di testo portandomi alla mente il viso di una persona che ho amato o un posto dove stavo o qualcosa che ho detto o non detto a qualcuno, ma per la maggior parte del viaggio, dentro In Utero, sei nella testa di qualcun altro. Di dischi che fanno questo effetto ce n’è pochini, se togli quelli che suonano falsi rimangono cose tipo World Coming Down, metà della produzione di Alan Vega, Life Time, Fausto Rossi e non so nemmeno io che altro. O forse esistono dischi che succedono nella testa delle persone e non suonano come la lettera di un suicida o un grido d’aiuto e magari qualcuno parla di se stesso anche quando parla di lacrimogeni che ti esplodono in faccia e poliziotti che ti prendono a manganellate, ma soprattutto di questi ultimi dubito abbastanza.

Quando finisce All Apologies sono sempre allo stremo delle forze. Questa cosa è difficile da spiegare a qualcuno perché presuppone che la persona con cui parli abbia vissuto da adolescente un periodo in cui la musica più eccitante veniva prodotta da un gruppo che non era pronto, emotivamente, a gestire l’attenzione di così tante persone. E che i cui dischi erano troppo buoni per buttarli fuori dal cono di luce sotto cui stavano così scomodi. Kurt Cobain riuscì a suicidarsi nell’aprile del 1994. Fosse vissuto per sempre, non avrebbe mai scritto e registrato un disco più bello di In Utero. È impossibile. Qualche anno dopo l’internet ci sputerà i confronti coi mix originali delle canzoni. Pezzi sfilacciati. Sono migliori. Suonano verissimi. Odio arrivare dopo. Non ha alcuna importanza.

C’è qualcosa di profondamente disonesto nel continuare ad ascoltare In Utero, c’è qualcosa di personale e non-nostro dentro, che averlo pagato soldi all’epoca non basta a scaricarcelo dalla coscienza. C’è qualcosa di disonesto anche nel prendere un album così figlio dei suoi compromessi e ributtarlo sul mercato in versione super-deluxe, remixato agli Abbey Road da un tizio (lo stesso Albini) che all’epoca non voleva sentirne manco parlare e completato di decine di tracce extra ad allungare il brodo e rendere il viaggio imperfetto e troppo lungo dopo la fine di All Apologies, che già la traccia nascosta in fondo, quando inizia dopo tutto quel silenzio, è troppo da gestire. Un disco che forse era già il massimo che potevamo avere: la testimonianza ultima di un’etichetta che voleva il disco pop e s’è trovata in mano un baccano infernale, di un chitarrista che voleva fare solo un baccano infernale e non riusciva a non buttare fuori le più belle canzoni pop della sua epoca, di un ingegnere del suono che voleva sparire dietro il suo lavoro e che nessuno lo cambiasse. Non ha alcuna importanza: l’altro lato è un mito troppo grande per starci lontani. Ci ha definito nelle sue mancanze e ci ha tenuto svegli. Abbiamo pazientato vent’anni, ora basta: il più bel disco dei Nirvana, il disco più bello di sempre, esce il 23 settembre a celebrare il compleanno in versione ipertrofica. Il menu lo trovate qui. C’è anche un teaser trailer sul tubo, ma è troppo anche per me.

SUPER SCHLECHT! Mancarone Mo-Do :’-(

(foto trovata cercando "Negro nazi" in Google Immagini)

(foto trovata cercando “Negro nazi” in Google Immagini)

Ja ja ja
Vussissùs bussissàs
(Dal testo di Eins, zwei, Polizei, come cantato onomatopeicamente dai regazzini nel 1994)

Was ist los? Was ist das? Ecco che la presa a male irrompe nel mio allegro venerdì pomeriggio fancazzista liefernandomi la notizia della morte di Mo-Do.

Mo-Do, nome d’arte di Fabio Frittelli (LULZ Frittelli) derivato dalle prime due lettere del luogo (MOnfalcone) e dal giorno (DOmenica) di nascita – il che rende me Ro-Sa, il che mi manda ai matti – è stato ritrovato morto nella sua casa di Udine.

Il Gazzettino (LOL ROTFL IL CAZZETTINO), tradotto con Google in tedesco e poi di nuovo in italiano, lo ricorda così:

Bello era bellissima e la gioia che lo ha reso ancora più interessante trasmissione. Per aggiungere fascino al fascino del lavoro di un imprenditore nel mondo colorato di locali notturni. A Fabio Pordenone la Royal, che ha “guidato” per diversi anni, aveva scelto con la dominazione del mondo, che lo conosceva bene e ha vissuto da protagonista. Poi il “Charlie”, una discoteca Pineta di Lignano, dove tutti i giovani hanno trascorso almeno una notte circondato. “Ho lavorato con lui e lui sempre – dice incredulo Pordenone dj Massimo Armani – era una di quelle persone che possono trasmettere positività Sempre sorridente e in grado di stimolare la sua morte si era … Non riesco ancora a credere sempre .. . sembra impossibile di rivederlo. “

Cos’altro aggiungere a quanto già scritto dalla stampa friulana, se non lo sconforto dato dalla consapevolezza che il mondo e noi giovani (noi perlomeno che abbiamo trascorso almeno una notte circondato) perdiamo oggi l’alfiere della musica adottata dai fascistelli solo ed esclusivamente perché cantata in tedesco? Aufwiedersehen Frittelli  (HOT LOL), e che nel posto migliore dove sei ora, possano mille dobermann tenuti al guinzaglio da esse-esse inguainate in pelle leccare per sempre le tue ferite house.

Una per lo split dei Mars Volta

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A ripensare ora alla carriera dei Mars Volta mi immagino istintivamente un unico lungo pezzo di improvvisazioni rock’n’roll ipertecniche. Che poi è più o meno come la questione è iniziata, sull’onda lunga degli scazzi tra i membri degli ATDI in seguito all’esplosione di Relationship of Command: Cedric Bixler e Omar Rodriguez hanno già un side project di nome De Facto assieme a gente del giro, la cui line-up aumenta e si stabilizza in un nuovo gruppo di nome The Mars Volta. L’idea è simile a quella di certa psichedelia anni settanta: le jam session iniziano a durare svariati minuti, le droghe continuano a circolare indisturbate e nel giro di qualche tempo il gruppo è in giro a promuovere il primo EP intitolato Tremulant e uscito per GSL (di cui Rodriguez è diventato comproprietario l’anno precedente). Una cosa manco brutta anche sicuramente noiosa rispetto al tanto vituperato –dal gruppo- Relationship of Command, ma ancora piuttosto paragonabile agli ATDI nei suoni. La critica e il pubblico, in ogni caso, si dividono: il 50% dei fan mollano i Mars Volta armi e bagagli dopo aver sentito la prima nota, l’altro 50% inizia a sospettare che l’evoluzione da At The Drive-In a The Mars Volta sia la cosa più bella e importante successa alla musica rock nei primi anni duemila. Per parte mia sono riuscito a vedere il gruppo due volte dal vivo: un concerto abbastanza sciagurato al vecchio Estragon, di spalla un clamoroso avant-rapper di nome Subtitle di cui non sentirò quasi più parlare, anche lui su GSL, e un gruppo postpunk di ragazze chiamato Radio Vago (bellissimo live, non altrettanto il disco), prima di ascoltare Tremulant, e qualche tempo dopo ad un Independent Days, incastrati tra la reunion dei Radio Birdman e l’ultimo concerto italiano dei Cramps. Il gruppo in questo periodo ha già scoperto le carte: nel primo disco De-Loused in the Comatorium le svisate trasversali di Tremulant sono diventate il piatto forte, il suono degli ATDI si riduce a due schitarrate qua e là e tutto l’impianto procede all’insegna di quel genere di noia devastante tipica dei dischi che è molto più divertente suonare che ascoltare. La stessa cosa sembra succedere dal vivo, appunto, i concerti ridotti a seriosissime jam session di musicisti in botta e davanti un cantante (altrettanto in botta) che lancia il microfono in aria e fa capriole come se sotto stessero suonando Pattern Against User.

Frances The Mute è il punto d’arrivo dell’esperienza Mars Volta. Fino a Frances The Mute si tratta di accettare o meno la nuova direzione degli ex-ATDI; Frances The Mute è la versione per adulti di De-Loused, la forma compiuta del gruppo e il punto di non ritorno di uno stile musicale. Per certi versi è davvero una delle opere più importanti degli anni duemila: le composizioni iniziano a venire stirate anche oltre la mezz’ora (la sfiancante Cassandra Gemini, forse il pezzo più palloso della storia del pop) irridendo a spron battuto ogni opinione ragionevole sul gruppo. La sensazione più violenta quando ascolti Frances the Mute è la tua inadeguatezza come ascoltatore, o l’impossibilità di capire a che pro il gruppo si sforzi così tanto per raggiungere un risultato così modesto. I Mars Volta da Frances The Mute in poi sono davvero una delle sfide più violenta alle logiche di base del rock (in)dipendente, portata avanti da musicisti rock indipendenti a uso di consumatori rock indipendenti. Frances The Mute assegna vita natural durante ai Mars Volta (e in particolare a Rodriguez) un ruolo simile a quello del tizio antipatico che ti tocca invitare perché hai invitato tutti gli altri, pur sapendo che cercherà di tener banco con discorsi maleducati volti a dimostrare che lui è MEGLIO di tutti voialtri per questa, questa e quest’altra ragione. Un annetto dopo è la volta di Amputechture, che segna più o meno il passo della carriera dei Mars Volta: un continuo avvilupparsi su un’idea di suono che vorrebbe essere libera da tutto e diventa in questo patetica e noiosa in culo, mentre i fan continuano in numero sempre maggiore a perdere di vista le ragioni per cui comprare/ascoltare un loro disco. Rodriguez è sempre più evidentemente l’uomo al comando, Cedric Bixler ha perso la voce squillante degli esordi in favore di una via di mezzo tra vocalizzi classici e Paperino (giuro). La carriera solista di Rodriguez procede con una vera e propria diarrea discografica, dischi che non riesco a distinguere e che continuano ad uscire imperterriti nell’ordine di decine. La sua attività solista si evolve in un gruppo chiamato Bosnian Rainbows, a cui il chitarrista decide di dedicarsi a tempo pieno causando il “momentaneo accantonamento” del progetto Mars Volta e infine (è notizia di ieri) lo split con Bixler, che pone di fatto fine al progetto. Il tutto più o meno un anno esatto dopo l’annuncio di una reunion degli ATDI che non ha (fortunatamente) portato a nuove uscite discografiche. Viene da pensare a quali saranno le prossime mossime di Bixler, probabilmente un reboot di qualche progetto con gli ex-Sparta facilmente derubricabile alla voce post-punk in barba agli ultimi 12 anni di carriera. Sulle prossime mosse di Rodriguez invece non abbiamo dubbi: venti dischi da qui al 2015, uno più brutto ed insensato dell’altro, tranquillamente considerabili come l’unico flusso di quella ininterrotta jam session che è la vita dell’artista, la folle corsa di un solitario che solo si fosse fermato dieci minuti a riflettere su cosa stava facendo, probabilmente sarebbe diventato un eroe minore della musica dei nostri anni. Anche per questo, massima stima.

P.S. (di Ashared Apil Ekur): Aggiungo – non richiesto, non voluto e approfittando proditoriamente della paternità di kekko che lo tiene lontano da internet nei momenti cruciali della settimana – un P.S. a questo pezzo geniale. Un P.S. del tutto personale (e in questo irrilevante): ho un botto di ricordi relativi ai Mars Volta, quasi tutti brutti, cioè, tutti belli ma quasi tutti incrinati dal rumore di fondo di una latente psicosi che sarebbe emersa anni dopo con violenza, portandomi a diventare BOZZOLO di me stesso da cui  poi rinascere a FARFALLA DI SUONO (=la visione disturbante e riccardona è ovviamente un omaggio a Cassandra Gemini, che – ci giurerei – in realtà sul disco è scritto sgrammaticato, tipo Geminni o Gemmini, come il cartello PANNINI che vedevo tutte le mattine nel periodo inglese che come tutti gli italiani ho avuto, e che mi faceva rosicare abbestia perché sentivo dentro che mi avrebbe posseduto per tutta la vita   – e così è stato. Voglio un PANNINO, cazzo). I Mars Volta mi hanno dato, oltre a sfiancanti assolo, perlomeno diversi intensi momenti di terrore o comunque disagio: un violento concerto a Weeze, in Germania (tra l’altro sono anni che ovviamente ripenso a quel posto chiamandolo “uìzer”, come il gruppo: ma come cazzo si legge in tedesco? Vezze? E se sì: perché allora non è in provincia di Latina?), passato temendo per la mia incolumità perché ero alla transenna davanti a centinaia di tedeschi inferociti, che si aizzarono ancora di più quando Cedric in persona si arrampicò sulla transenna esattamente davanti a me, catalizzando su di me tutta la catarsi della rabbia provocata da un cinquantennio di non-accettazione del fatto che JAWHOL, siete gli ASSASSINI di milioni di innocenti!; un altro feroce concerto ad Amburgo, un paio di giorni dopo, in un piccolissimo locale in cui pogavano anche i muri, ANCHE LE DONNE, ed io scappavo ondeggiando fingendo di pogare per mostrare che ero anch’io, in fondo, un omm’; un folle concerto a Milano, dopo il quale io e i tre amici con cui ero (uno era DJ PIKKIO dei RAINBOW ISLAND che all’epoca aveva esattamente il look di Aphex Twin era Richard D. James Album, look che lo ha influenzato molto di più della musica che ha ascoltato, comunque sopraffina perché io ritengo DJ PIKKIO il più grande genio musicale d’Italia, nonché l’unica persona che ne capisca più di me di musica: ti voglio bene Marco) passammo non so perché la notte a casa di persone che non conoscevamo (bè, almeno non io: non ho mai capito chi di noi li conoscesse), ed era una casa DEMMERDA piena de Polvere, de Peli de Gatto, e de Cartoni de Pizza, ma nun c’avete idea de Quanti: tipo c’erano ZOLLE e ZOLLE de Polvere, c’erano cumuli de Peli de Gatto che a loro volta si assembravano a formare altri gatti ingrifoni e aggressivi, c’erano TORI – cioè torri in romano, non gli animali – de Cartoni de Pizza, ma tipo CINQUANTA a botta, capite? Insomma, chiunque voi eravate, visto che gira che ti rigira siamo sempre gli stessi e quindi leggete Bastonate, vi ho DISPREZZATO, capite? Facevate schifo, voi e Milano), e dopo questa notte ovviamente insonne, alle cinque rinunciammo a dormire e ripartimmo per Roma in macchina, una follia devastante, noi stronzi sbarbi inghiottiti dalla nebbia, con un colpo di sonno generale che ci colse tipo a Perugia, lasciando sveglio da solo il povero PIKKIO alla guida, e ci svegliammo tutti riposati con lui bianco e terrorizzato che diceva tutto gentile: Regà no daje nun ve dovete addormentà! Io temevo che me veniva un colpo de sonna e morivamo!; e poi non so perché, non entrammo a Roma nord, ma facemmo il giro completo del raccordo – forse a richiamare un assolo dei Mars Volta – e completamente scoppiati e incazzati l’uno con l’altro arrivammo a Roma ormai ridotti a spettri;  a spettri che, poco dopo, avrebbero ripreso la vita quotidiana, fatta cioè soltanto di dischi e di chiacchiere e di gruppi rock tutti effettivamente IMPORTANTI. Quella sera, all’Init, c’era il concerto dei Black Eyes, ma non riuscimmo ad andarci, tanto era il sonno; e così, grazie ai Mars Volta, ci perdemmo per sempre il vero miglior gruppo degli anni zero. Grazie Mars Volta. E’ stato bello avere vent’anni.

RIP Tony Scott reprise – Mancarone Goose

Goose

 

Con l’austero necrologio di stamattina, Kekko informava il mondo della morte del grande Tony Scott. Tony, ci mancherai, questo è certo, ma il vuoto lasciato da te oggi non è che il drammatico accrescimento del lutto che tutti noi portiamo da ventisei anni, quando morì tragicamente Goose, dopo un incidente con il suo F-14.

Goose, eroe rock’n’roll del più grande film degli anni ottanta (bè, uno dei, come minimo), compagno sgamato del più introverso Maverick, faccia vaffancula del bene supremo che, all’epoca, ancora gli Stati Uniti rappresentavano per tutti noi e che quel cazzone di Gorbaciov non poteva fare a meno di provare a distruggere, scompariva tra i flutti lasciando a Tom Cruise il coraggio per far fuori qualche Mig, e a noi una clamorosa fotta per gli aerei da guerra americani.

Tipo che, nella mia infanzia, devo aver disegnato molti più F-14 che Topolini:

(questo l’ho fatto dieci minuti fa)

 

Tony, le cose non vanno bene, i comunisti hanno cambiato nome ma ancora oggi sono nemici di noi giovani e arrestano i gruppi rock; ma sono sicuro che da oggi attraversi i Cieli su un F-14 d’oro e di smeraldo, con Goose come copilota, per ripulire il Paradiso dalle poche anime russe capitateci per sbaglio. Take my breath away, Tony. Once a top gun, forever a top gun.