Abbassare il livello: BRUTAL TRUTH/BASTARD NOISE – The Axiom of Post Inhumanity

I Brutal Truth sono una delle cose più belle successe alla musica dall’invenzione dell’elettricità a oggi; implosi dopo una breve serie di dischi che dire monumentali è sminuire la categoria dei dischi monumentali, hanno capito che non era il caso e da qualche anno sono tornati, e per qualche miracolo che evidentemente non è dato comprendere ma solo accettare muti e grati i dischi nuovi sono buoni quasi quanto quelli vecchi. I Bastard Noise all’inizio erano i Man Is The Bastard che cazzeggiavano coi rumorini, poi i Man Is The Bastard si sono sciolti, Eric Wood ha continuato e sono rimasti loro; l’ultima volta che li ho visti c’era una tipa alla voce (devo essermi perso qualche passaggio nel frattempo). The Axiom Of Post Inhumanity documenta l’incontro tra questi grandi spiriti (sia detto senza la minima ironia). Sulla carta qualcosa di epocale, mastodontico, definitivo, roba che ha a che fare molto da vicino con il concetto di history in the making e che solletica l’immaginazione prefigurando scontri titanici alla Thor contro Galactus, Alien contro Predator, Godzilla contro Gamera; nella pratica una cosetta neppure troppo fastidiosa e men che meno ostica o perturbante.

Esce in due formati come le edizioni platinum della Marvel, CD e vinile con copertine di diverso colore e scalette differenti; come è logico che sia in entrambi i casi la porzione che compete ai Bastard Noise è quella che suona meglio (anni di pratica, strumenti autocostruiti e impalcature concettuali che ai Brutal Truth mancano quasi del tutto – dettaglio non da poco: il quasi è Prey, pezzo che chiude Sounds of the Animal Kingdom e che in 22 minuti dice sul rumore e sul caos più di quanto questo e qualsiasi altro disco potranno dire mai), ma è l’unica differenza: tanto nella versione LP quanto su CD il contenuto è parimenti tristo, baracconesco e deleterio. Una parata di sfrigolii, scrocchi e sibili di quelli che vengono fuori smanettando con la manopola della sintonia di una radio con l’antenna rotta, tetraggine da film horror di serie Q con pretese, scricchiolii e arricciamenti digitali tipo il modem a 56k quando non prende bene e fa fatica a connettersi (Mantis colony), folate minacciose, sirene che precedono i bombardamenti a tappeto (Preemptive epitaph), anatemi con vocione sepolcrale-orchesco, sfarfallii fruscii e pernacchiette (The antenna galaxies), ancora sirene pre-bombardamenti, urla di tregenda e scricchiolii più fastidiosi del solito (Frack baby frack, è più appassionante il film di Gus Van Sant). I pezzi dei Brutal Truth stessa sbobba ma più minimale e alla vecchia. Control room: peace is the victory mix: stasi da dopobomba, una voce che gracchia cose in un walkie talkie distrutto, uno scheletro percussivo carpito chissà dove – forse il batterista che si sta scaldando in sala prove – presto risucchiato nel gorgo di bruma digitale, ululati di fantasmi nella notte, casino montante, ronzii da tinnito permanente, batterista sempre più lanciato, climax, rilascio. Diciotto minuti. Control room: smoke grind and sleep mix: altri acufeni, il suono delle pale di un elicottero che girano a vuoto riprocessato in modo da sembrare una grattugia che sfrega contro una barra di tungsteno, il ‘beep’ che segnala quando qualcuno ha lasciato lo sportello aperto in macchina, gli stessi ululati di cui sopra però sepolti sotto coltri di rumore di fondo e con un fastidioso ronzio persistente tipo trapano del dentista rimasto acceso in uno studio vuoto, segnali acustici a sfare, parte pure il campionamento di un pezzo sul danzereccio arrogante, lento ma violento avrebbe detto Albertino, ma è un attimo, poi voci a random tipo disco di Peter Sotos ma incomprensibili che diventano urla che diventano latrati. Venticinque minuti. The Stroy, la più rumorosa, bruma digitale più aggressiva del solito (forse sono le onde corte invece delle onde medie, non so, non faccio l’antennista) e fischio tipo volatile incarognito o antifurto guasto di quelli veramente molesti, poi un urlo tipo suicida che si lancia dal balcone e infine le sole note suonate dell’intero programma, l’attacco di un pezzo che diresti sul doom-cazzeggio in sala prove ma filtrato e distorto come attraverso un software di quindici anni fa, tipo Fruity Loops ma ancora più basilare. Magari è pure un pezzo vecchio dei Brutal Truth, comunque non lo riconoscerebbe nessuno. Poi tutto si sgretola in un’orgia di feedback e ampli in saturazione. Sette minuti. È il 2013 e che questo disco esca a due settimane dalla morte di Lou Reed in qualche maniera strana e perversa ha un senso.

MATTONI issue #20: BEDHEAD

A tanti che ci hanno provato, ad essere gentili, li impiccheresti. (cit.) Uno dei miei assunti preferiti a firma m.c. è quello secondo cui il concetto di slowcore non esiste al di là di The White Birch, e io non discuto quasi mai gli assunti di m.c. perché nel novantotto per cento dei casi mi aiutano a vivere meglio il mio rapporto con la musica. E tuttavia, per una questione di casi fortuiti, mi è capitato di ripescare Transaction de Novo dei Bedhead dopo un sacco di tempo, nello stesso periodo in cui la primavera ha smesso di farci sniffare sole e venticello caldo e ha iniziato a spinger nuvole e pioggia nel cielo. Ora niente, capita solo che il disco io non lo riesca materialmente a togliere dal lettore manco per ascoltare i notiziari e questa cosa, in un cambio di stagione del genere, con i Bedhead non m’era capitata manco a venticinque anni.

The Present è l’ultima traccia dell’ultimo disco a nome Bedhead. Matt e Bubba Kadane hanno sciolto il gruppo e formato i New Year (una cosa di tutto rispetto, ma comunque un’altra cosa); ma non è difficile considerarla per suoni e parole il testamento spirituale di una maniera di pensare scrivere e suonare la musica; una maniera così emotivamente lancinata che nonostante le declinazioni simili non si contino, in qualche modo sembra essere andata perduta per sempre con lo scioglimento della band. Non è un vero e proprio mattone perché i MATTONI secondo regola sono i pezzi che superano i venti minuti e questa qua ne dura solo sette, ma tutto sommato abbiamo deciso qualche tempo fa che col nostro blog ci facciamo il cazzo che ci pare e il testo di The Present fa venire abbastanza voglia di morire. Ci sta da dio pure la luna a scatto fisso nel video pirata che ho trovato sul tubo, anche se il consiglio è di andarvi a comprare/masterizzare il disco e suonarlo in auto a volumi indecenti.


 
It’s always this year’s gift
Is it ever what I wanted
Was I unhappy living in the past
Has my growth been that stunted
When to be ashamed is to be defined
And all this self awareness
The blind led by the blind
An empty conscience is sensitivity
I have to pretend I’m overcome with humility
It always comes on time
Not a second before the instant
But this year I think I’d rather be a relic
Than part of the present

America. America. America. America. America. America. America. America. America. America. America. America. America. America.

Negli ultimi mesi sono stato più volte preso per pazzo mentre venivo sgamato (al lavoro, in giro per i locali, pranzi familiari, in treno, dentro i negozi) a sussurrare parti casuali del testo della traccia numero 3 dell’ultimo disco di Bill Callahan.
Non è la traccia più bella e nemmeno la più geniale né tantomeno la più rappresentativa del disco. È solamente un delirio semiacustico di tipo sei minuti nei quali l’artista precedentemente conosciuto come Smog continua a cantare “AMERICA” nello stesso tono come un ubriaco aggiungendo parti di testo che per metà sono slogan e per metà sono riflessioni amare a buffo. Ai primi due o tre passaggi del disco sembra una ciofeca messa in scaletta per farne una sbagliata, poi ti si attacca alle orecchie e ti entra dentro e ti svuota tipo La Cosa.
Scopro che –immagino per via del 4 luglio- è stato fatto un video, con il quale spero che questa sorta di MATTONE compresso nella durata di un pezzo normale invada MTV e le menti dei giovani ascoltatori fighetti con la stessa virulenza con la quale sta hauntando il mio cervello. Lo trovate qui sotto. Condividetelo tutti ed aiutate la Cosa a conquistare la terra. Tutti pazzi.

 

MATTONI issue #18: THE ATOMIC BITCHWAX

Beccati questa Fritz Lang.

Eccolo dunque il colpetto da stronzo, la Prova Di Forza, la dimostrazione di prevaricazione gratuita e assolutamente non richiesta. Io ti spiezzo, il mio uccello è più grosso del tuo, e chi sarà mai questo Jimi Hendrix, io ho fatto 975.000 dollari l’anno scorso tu quanto hai fatto?, guarda come vado a canestro, il mio SUV è più ingombrante di una portaerei e inquina quanto Fukushima all’ora di punta, ho le palle grosse come cocomeri e mi sono appena scopato tuo padre. The Local Fuzz è la trasposizione in musica del teppista più antipatico e pieno di sé che alle elementari ti rubava la merenda umiliandoti fino alle lacrime durante la ricreazione; se fosse un film sarebbe Novecento (grandeur epocale e durata estenuante e bestemmie di bambini e cazzi barzotti di De Niro e Depardieu compresi), se fosse un libro sarebbe l’Ulisse, però lungo il doppio e senza punteggiatura. Somiglia piuttosto a un film porno o a una partita di calcio infinita, gesto atletico allo stato puro, con la differenza che qui è divertente: quarantadue minuti di stoner blues rock psichedelico e tastierato alla vecchia, un monumento al fuzzbox che Mark Arm al confronto è un dilettante piagnucoloso, motivato e animato da una carica di testosterone come manco un plotone di camionisti in un bordello dopo un viaggio non-stop di sei mesi. Gli Atomic Bitchwax, fino ad oggi poco più di un simpatico gruppetto di onesta manovalanza stoner delle retrovie, noti più che altro per essere partiti come side-project del biondo Ed Mundell (chitarra stordente nei Monster Magnet migliori), hanno scritto con The Local Fuzz il loro Presence, il loro Time Does Not Heal, però tutto condensato (si fa per dire) in un unico pezzo. Soprattutto, ci risparmiano l’immenso strazio di dover subire qualche bolso clone del cazzo di Robert Plant che latra BABY BABY BABY BABY BABY nei momenti più atroci (il disco è interamente strumentale), e anche soltanto per questo RISPETTO a prescindere. Certo ci sono alcuni momenti (per la precisione ai minuti 18, 23, 29, 35 e 38) in cui la continuità cede e si passa brutalmente da una sequenza di riff a un’altra senza apparente costrutto, ma questo succede comunque senza mai pregiudicare lo scopo principale del pezzo, che è mettere simpaticamente i piedi in testa a chiunque sia convinto di saper suonare in modo più viscerale, stronzo e drogato dei tre cazzoni sballoni qui presenti. The Local Fuzz è sicuramente il MATTONE più divertente intercettato finora.

Gruppi con nomi stupidi (e pure MATTONI issue #17): MOSTLY OTHER PEOPLE DO THE KILLING

ora ditemi se già un po' non li amate.

A un certo punto il padrone di Underground era andato totalmente giù di testa per jazz (soprattutto free) e affini. Doveva essere la sua nuova fissa dopo frequenze e microsuoni assortiti: come prima entravi in negozio ed era tutto un florilegio di BZZZZZZZZZZZZZZ BBBBBZZZZZZZZZZZZSCHRRRRRRRRRRRR minimali, ostili ed elettrogenerati, ora era la volta di sfuriate di sax fomentate da aggressivi tempi dispari e finezze übervirtuosistiche di contorno. È stato grazie alla sua nascente monomania che ho scoperto A Night in Tunisia di Art Blakey & the Jazz Messengers, un disco che ai miei già non più giovanissimi orecchi era come il primo schizzo dentro vene vergini: beatitudine, pura beatitudine. La title-track, posta in apertura, rientrava in particolare tra le colonne sonore preferite per i miei viaggi mentali, undici minuti di esagitato, eroinico tumpa-tumpa-tum che per quanto mi riguardava sarebbero potuti andare avanti all’infinito. Qualche anno dopo, erano passate galassie nel frattempo, Underground aveva da quel po’ calato le serrande per l’ultima volta, travolto dall’inarrestabile ascesa del downloading illegale e dei negozi online dove la roba costa 10 volte di meno, trovo un disco che replica in maniera praticamente identica la copertina di A Night in Tunisia: è Shamokin!!!, secondo album dei Mostly Other People Do the Killing, allora a me del tutto sconosciuti. Nome stupido, copertina decisamente stupida, logo fuori dalla grazia di Dio = è amore immediato. Mi porto il disco a casa ed è come se un ciclone si fosse istantaneamente materializzato nel tinello spettinandomi anche i peli del culo: impressionante, i fantasmi di ogni altro disco jazz che avessi ascoltato in tutta la mia vita si ripresentavano incazzati e belligeranti, evocati dall’inesausto enciclopedismo da nerd incattiviti del quartetto (fondato e pilotato dall’arguto contrabbassista Moppa Elliott, gli altri sono Peter Evans alla tromba, il filippino laureato Jon Irabagon al sax e l’irrequieto genietto di Stormandstress e Talibam! fama Kevin Shea alle bacchette). C’è anche un pezzo intitolato – guarda caso – A Night in Tunisia, ventuno minuti ventuno di delirio citazionista-incazzoso equamente animato da arroganza esecutiva da una parte e infinito rispetto verso gli originali dall’altra.
Lascio a voi il piacere di scoprire quali copertine sono state parodiate nei successivi This Is Our Moosic (questa è facile) e Forty Fort (questa già è più stronza). L’ultimo nato è il doppio dal vivo The Coimbra Concert (non so a voi, ma a me titolo e copertina hanno mandato in shock anafilattico), quasi due ore di simpatia in cui come al solito tutto lo scibile jazzistico viene triturato, digerito e risputato fuori con un’arroganza che non è mai prevaricazione, una carica di ironia da far scoppiare a ridere anche Michael Mantler e, soprattutto, una passione e una foga nell’esecuzione tali da travolgere anche chi del jazz se ne è sempre allegramente sbattuto i coglioni. Il MATTONE questa volta è Blue Ball, 33 minuti, non male ma tutti gli altri pezzi sono molto meglio. Che qualcuno li porti a suonare da queste parti, perdio!!!

 

ARTE.

MATTONI issue #16: MOGWAI

 
A differenza degli ultimi due dischi (che a loro tempo sono finiti a prendere polvere dopo pochi e frustranti ascolti) Hardcore Will Never Die, But You Will mi è piaciuto molto e da subito. È un disco di cuore fatto per gente con un cuore, roba sincera per stare bene soffrendo (più o meno, a seconda di quanto sia sviluppata la vostra capacità di provare emozioni), magari senza picchi stratosferici tipo May nothing but happiness come through your door o 2 rights make 1 wrong, ma anche senza un pezzo che sia meno che buono; il che è già di per sé un piccolo miracolo considerando che stiamo parlando di un gruppo al settimo album – più qualche dozzina tra singoli, EP e split quasi sempre esaltanti – che almeno fino al 2006 è riuscito a mantenere una media qualitativa elevatissima, e soltanto da allora sembrava essersi avviato verso un comunque apprezzabile auto-karaoke funzionale se non altro a (continuare a) giustificare la loro presenza sui palchi di locali e festival e in generale ovunque ci siano persone disposte a pagare per farsi triturare i timpani dalla live band più fragorosa del mondo dopo Dinosaur Jr e Manowar.
Oltre al solito gioco di rimandi condotto con il solito incomprensibile senso dell’umorismo da dissociati irrecuperabili (San Pedro, probabilmente in omaggio ai Minutemen, è il brano più corto del disco; l’ultimo pezzo si chiama You’re Lionel Richie ed è aperto da un delirante sample dove un tizio declama cose in italiano stentato), e al tutto sommato innocuo peccato veniale nell’intitolare un pezzo White noise (peraltro neppure il più ‘rumoroso’ del lotto), Hardcore Will Never Die, But You Will si segnala per la presenza, nell’edizione limitata in doppio cd o doppio vinile con download card, di una traccia di 23 minuti, Music for a forgotten future (the singing mountain), che se la memoria non falla è il brano più lungo mai inciso dai Mogwai (My father my king ne durava “solo” 20). Scritto e pensato come colonna sonora per un’installazione dal titolo “Monument for a Forgotten Future”, il pezzo (quasi del tutto privo di batteria) rivela un’inedita propensione alla grandeur da kolossal hollywoodiano con gran dispiego di violoncelli, viole e violini utilizzati come mai prima d’ora. Per i primi quattro minuti pare un loop preso a caso dalla colonna sonora di Brokeback Mountain, poi spunta un carillon tristissimo, da orfanello perso nella neve, che introduce a un nuovo gran lavoro di archi austeri – tastiere e chitarre moderatamente sferraglianti lasciate molto in sottofondo – non arrivasse a un certo punto un vibrafono sembrerebbe roba del Kronos Quartet giusto un pelo più allegra; s’insinua di nuovo la chitarra dolente in puro Mogwai style ma pacificato, duetta mestamente con il vibrafono poi lascia perdere, rientrano gli archi, una nenia funeralesca dove piange anche il cadavere. Al dodicesimo minuto un piano maestoso, pulviscoli di feedback come ruggine sgorgante dagli amplificatori, una chitarra stridente che sembra il lamento di un androide mentre ascolta Enjoy the silence dei Depeche Mode, un crescendo da colonna sonora di Danny Elfman subito azzoppato dall’incedere monco e montante di chitarre basso tastiere e finalmente qualche tocco di batteria, sembra il pezzo di Mr. Beast messo alla fine di Miami Vice ma meno epico e infinitamente più disperato, di quel momento in cui la disperazione si trasforma in rassegnazione, che è come dire il peggio del peggio. Non dura molto comunque: la musica si spegne all’improvviso lasciando spazio al gracchiare elettrostatico della radio quando si è persa la frequenza, poi tornano su gli archi, ma timidamente, sullo sfondo, una progressione ciclica che sta in mezzo tra il Philip Glass quasi totalmente neutralizzato delle colonne sonore miliardarie e ancora il Kronos Quartet dopo un’overdose di barbiturici, poi di nuovo il gracchiare della radio per un minuto, come a dire fine delle trasmissioni. Qualunque sia la vostra opinione sui Mogwai altri come loro in giro non ne trovi.

 

 

MATTONI issue #15: MAX ESSA

 
Probabilmente Panorama Suite è la feel good song definitiva. Di sicuro è una di quelle che durano di più: venti minuti e ventiquattro secondi di pura beatitudine, non un calo di tensione, tutto a dir poco celestiale, e quando spegni lo stereo il ricordo di tanta magnificenza continua a cullarti per ore e ore (giorni). Lo stesso effetto dell’eroina, ma senza strascichi spiacevoli tipo perdita di peso, connotati alterati o essere costretto a scippare le vecchie sull’autobus per rimediare la prossima dose: stai bene e basta. La sua struttura circolare è ideale per innescare loop ripetuti e potenzialmente infiniti, e il bello è che non annoia mai.
Presente Jamie Foxx in Collateral, la scena della cartolina? Io vado sempre in vacanza. Decine di volte al giorno. Nel mio posto preferito: un’isola delle Maldive. È il mio piccolo luogo di fuga privato: nei momenti pesanti mi prendo 5 minuti di svago… e vado lì. Mi aiuta a non pensare a nient’altro. Ecco, Panorama Suite è quell’isola. Qualunque sia la vostra musica preferita, qualunque sia la vostra concezione di “stare bene”, Panorama Suite la incarna e la sublima dando vita a un estatico e irraccontabile luogo della mente da dove si vorrebbe non uscire mai più. Oltre alla versione fisica in 12″ per Is It Balearic? per ora sta anche sul soundcloud di Max Essa (polistrumentista autodidatta, dj e produttore con trascorsi di tutto rispetto nella scena inglese della stagione d’oro dei rave molesti Castlemorton-style, a sentire quel che fa ora non lo diresti mai) di modo che tutti possano goderne ancora e ancora. Che gli dei benedicano quest’uomo.

Panorama Suite by Max Essa

Gruppi con nomi stupidi e MATTONI issue #14: REVE STEICH

 

per caso la faccia vi ricorda qualcuno?

Il trucco è vecchio, scambiare le iniziali del nome e del cognome, ma mi fa ridere sempre: dai celebri Wevie Stonder al ‘nostro’ Digi G’Alessio è praticamente impossibile trovarne uno che non suoni infinitamente e irredimibilmente più stupido rispetto all’originale. Ma Reve Steich, almeno per chi scrive, li batte tutti di almeno tre lunghezze anche solo per l’intuizione: non era venuto in mente a nessuno finora (almeno a quanto mi risulta) di omaggiare in un modo così trasversale e radicalmente beota il grande maestro del minimalismo percussivo alla vecchia. Soltanto leggere il nome mi ha fatto stare bene per una settimana. Peccato che a tale genialità onomastica non corrisponda una musica altrettanto esaltante e, come direbbero gli americani, mind blowing; l’ennesimo progetto dell’iperattivo Jaan Patterson (titolare di circa una decina di sigle diverse, la più popolare delle quali è probabilmente undRess Béton) si discosta poco dalle sue molteplici incarnazioni, tutte o quasi saldamente indirizzate verso un’elettroacustica moderatamente schizzata e moderatamente fastidiosa da saggio di fine anno al conservatorio, senza infamia e pure con qualche lode ma che spesso lascia il tempo esattamente come l’ha trovato. Stunning for 18 Miles, l’unica traccia a nome Reve Steich prodotta finora, è una sghemba cavalcata di 23 minuti che si snoda attraverso oscillazioni tintinnanti e brume digitali tra tempeste elettrostatiche e clangori metallici; dopo i primi cinque minuti spunta qualche UOOOOOOUUUUU, quindi il bum-bum di un organismo sconosciuto che sta crescendo lentamente nell’ombra, seguono smottamenti di terreno friabile come la torta sbrisolona, blip-blip-blip, bluuuuuuup. Ecco poi la spirale discendente di un bombardiere che precipita come nei videogiochi a 4 bit (a 8 sarebbe troppo), seguita da un allarme da bunker sotterraneo in un videogame della Simulmondo, poi sirena e radar sincronizzati, bip bip bip bip, biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip di un elettrocardiogramma sotto coca, rifrazioni – dissoluzioni, il bombardiere resuscita: BUOOOOOOOOOOOOUUUUU-UUUUUUUUUUUUUUUU, intasamento dell’etere, tipo le onde corte però in digitale; l’organismo sconosciuto di prima in agonia sorvolato dal bombardiere sopra di lui come un avvoltoio, rimbombo assortito, borbottii, sfrigolii, sirene e raggi laser, gocciolii, plic-ploc, qualche discorso campionato in sottofondo (molto in sottofondo), poi l’elica di una falciatrice malvagia che si trasforma presto in qualche altro ribollio elettronicamente generato, che poi diventa un fischio lancinante sopra una sirena e poi diventa il sibilo di un missile del sottomarino lanciato nel vuoto e poi si spegne lentamente, sfrigolando e tonitruando. Sul finale i missili del sottomarino ritornano per qualche altro borbottio mesto tanto per.
Il pezzo esce su SuRRism-Phonoethics, n0tlabel fondata e gestita dallo stesso Patterson, la cui figura autarchica e irreversibilmente dissociata (unita a un’etica del lavoro forsennata e fieramente artigianale) conserva comunque un certo interesse: compositore, poeta, video-maker, artista performativo situazionista, operatore sociale nella vita vera.

Clicca qui per ascoltare il brano

MATTONI issue #13: ELUVIUM

 
Matthew Cooper è il punto di incontro tra i Mogwai e Ludovico Einaudi. Nei suoi dischi puoi trovare con la stessa facilità tanto le scariche di feedback grondanti malinconia dei primi quanto il minimalismo alla buona da compilation new age nel cestone dell’ipermercato del secondo. Fino a qualche anno fa nei suoi dischi Cooper si dedicava alternativamente all’uno o all’altro aspetto, nel senso che un suo disco era solo chitarra lancinante ipereffettata o solo piano melenso da sala d’attesa dal dottore, ed erano i suoi dischi migliori (nello specifico, l’etereo Talk Amongst the Trees per quel che riguarda strati su strati di chitarre distorte che generano amarezza e chiamano rimpianto, e An Accidental Memory in the Case of Death per l’Einaudi-karaoke però preso male e autenticamente dolente). Da quando ha deciso di fare entrambe le cose contemporaneamente ho perso progressivamente interesse per la sua musica sempre più tetra e svenevole come un armadio polveroso pieno di bambole di ceramica, sarà anche perché inconsciamente lo ricollego a un periodo della mia vita in cui compravo a scatola chiusa qualsiasi disco Temporary Residence, roba che a posteriori probabilmente non rifarei (mi risparmierei così una buona dose di orchiti fulminanti e prese a male assolutamente gratuite).
Quando però sono venuto a sapere che il nuovo album di Eluvium prevedeva in scaletta un’unica traccia di 50 minuti un barlume di attenzione si è riacceso in me. Impossibile anche solo pensare di comprarne una copia fisica: la prima (e unica) tiratura di 200 esemplari assemblati a mano è andata bruciata in meno di 48 ore. È in compenso possibile ascoltare Static Nocturne (questo il titolo del tour de force cooperesco) integralmente su Bandcamp ed eventualmente acquistare l’mp3 al prezzo di otto dollari, ma è una mossa che personalmente non consiglierei a meno che non sentiate il disperato bisogno di un sottofondo vagamente fastidioso mentre sbrigate le faccende di casa più monotone, tipo dare la cera alle piastrelle del cesso; ci sono in realtà circa sei-sette minuti di chitarra languida all’inizio ed altri cinque-sei di piano lacerante verso la fine che sono tra le cose migliori mai incise dall’introverso polistrumentista, il problema è che nei restanti quaranta e rotti non accade assolutamente nulla a parte un continuo e irritante sciabordio di rumore bianco, e comunque anche quel poco di (ottima) musica è sepolto da strati di feedback ondivago e scariche elettrostatiche che rendono l’insieme soltanto lontanamente intellegibile. Io il disco l’ho ascoltato sotto Natale assieme al Christmas EP di Jesu, la neve sulle strade e tutto il resto, e l’effetto nel complesso è stato pure abbastanza deprimente (nel senso buono), e magari finché continua a fare freddo e a venire buio presto Static Nocturne può pure avere un suo perché, ma per ora non ho nessuna voglia di ripetere l’esperimento e difficilmente me ne tornerà in futuro. Peccato, a mettere insieme quei dieci minuti celestiali ne usciva il pezzo più bello di Eluvium, così invece è soltanto poltiglia sfrigolante per semiautistici e lunatici solipsisti irrimediabili.

MATTONI issue #12: JANDEK

 

 

I don’t care if I die
I don’t even care if I’m in a wheelchair
Or in a bed
Unable to move
For all I know
It’s better than what I did today
(I Need Your Life)

Ho scoperto Jandek grazie a Kurt Cobain. È uno dei tanti motivi per cui gli sarò debitore a vita (un altro sono i Wipers). Non che fossi un grandissimo fan dei Nirvana, però – e chi è cresciuto nell’era del post-Nevermind può capirmi bene – ai tempi Cobain te lo infilavano a viva forza anche su per il culo ogni giorno della settimana, e insomma sapevi TUTTO di Cobain anche se di lui e del suo gruppo non te ne poteva fregare di meno. Sopra ogni cosa, ancora più del suo talento musicale, Cobain è stato un grandissimo ascoltatore, con un acume, un gusto e una sensibilità impareggiabili; mi verrebbe da dire il più grande ma farei torto a qualcun altro (John Peel, Steve Albini, Alessandro Calovolo, Reje…), e comunque sto divagando. Cobain girava spesso con una maglietta con scritto sopra ‘Jandek’ a pennarello; quando è uscito Nevermind, Jandek era al ventesimo LP (tutti pubblicati e venduti direttamente tramite la sua etichetta Corwood Industries). Ad oggi la sua discografia conta quasi sessanta album tra studio e live. Prima di iniziare a esibirsi dal vivo (nel 2004) con una certa schizofrenica regolarità, Jandek aveva rilasciato una sola intervista; non esistono sue foto ufficiali a parte le scrause copertine dei dischi e fino a pochissimi anni fa si ignorava (almeno, io ignoravo) quale fosse il suo vero nome (pare si chiami Sterling Smith). (Continua a leggere)