QUATTRO MINUTI: Seven Sisters Of Sleep – Opium Morals

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Nel decalogo dell’appeal del tizio che ascolta la musica pesa, oltre ai capelli mezzi rasati e la barba lunga, non può mancare una maglietta dei Seven Sisters of Sleep. Questo è l’assioma che vale la pena impararsi, perchè sto Opium Morals vale si e no la traccia più merdosa del disco senza titolo uscito sempre per A389Records e che era un discone da mangiarsi un’insalata di vetri rotti e HIV senza sentire nulla ed esserne comunque orgogliosi. Non sopperiscono al mio sentire la mancanza dei Gaza, che facevano piu o meno la stessa roba ma più spessa. Al limite andate a vedervi un live degli Hierophant (QUELLI DI RAVENNA, lo scrivo perchè sicuramente ci saranno altri diciotto gruppi con lo stesso nome) e avrete più o meno riassunto l’esperienza dei due gruppi di cui sopra ma sarete persone migliori.

QUATTRO MINUTI: Black Sabbath – 13

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Giovedì sera ero a una cena aziendale a Cesenatico e lì è ancora terreno d’immigrati che si infilano in mezzo ai tavoli cercando di vendere –più che altro- rose di diversi colori ai commensali, cinque euro al pezzo più o meno. Ora c’è anche qualcuno che gira e propone di fare foto istantanee: usano una Fuji Instax perché immagino Polaroid non stampa più le pellicole; i colleghi se ne sono fatta fare una, sempre a cinque euro, e non è venuta manco male. Così sono tornato a casa e ho pensato al valore della foto istantanea, che è la Masters Of Reality delle fotografie, e preso da un impulso irresistibile ne ho ordinata una online che è arrivata ieri. La domanda: comprare una Fuji Instax alle due di notte può essere considerato indicatore di una crisi di mezza età? Il disco è dignitoso, cmq. Niente di eccezionale ma dignitoso.

QUATTRO MINUTI: andare in pezzi, ovvero sono usciti degli split fighi

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Faccio presto, uno dietro l’altro, poche righe e tante immagini.
Mezzobusto infilato nel sabbione e ortiche tutt’attorno per riassumere l’idea di natura morta che striscia fuori già dal primo pezzo di una cosa che io aspettavo con un certo gusto, nel senso che ho un debole sia per i Loma Prieta che per i Raein: se voi non avete lo stesso debole state sbagliando qualcosa di abbastanza fondamentale. Cinque tracce che scorrono via nel tempo di un ictus. Bene i Loma Prieta, benissimo il pezzo dei Raein.

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Qualcuno la smetta di sottovalutare gli Shizune se lo sta facendo. Lo split dell’amicizia e degli abbraccioni con i Minus Tree è una gran storia di legami e di botta vera che ve la raccomando. Un lato occupato da un solo pezzo spesso come il fondo argilloso del mare del cazzo che abbiamo qua nell’Adriatico, dove “qua” sta per “quassù da dove veniamo io e gli Shizune”, perchè i Minus Tree condividono lo stesso mare ma dalle parti di Bari e si sa che l’Adriatico inizia ad essere un mare vero da Rimini in giù.
Unico pezzo, si diceva, ma di una pesantezza e di una pacca che fa su bolgia. Sull’altro lato ci sono invece due pezzi dei veneti che per me rimangono la migliore espressione di quello screamo col tiro hardcore che mancava fatto in quella certa maniera che ti sega le gambe dai tempi di Super Omega dei La Quiete. Vi potete ordinare il vinile (300 copie di cui 100 trasparenti) a tiratura limitatissima qui, inoltre potete ascoltarvi tutto quanto e scaricarvi i pezzi dai rispettivi bandcamp.

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Dopo la roba pesa lì sopra vale la pena di entrare un minimo in clima estivo con quattro gruppi per un disco uscito qualche tempo fa per Topshelf: Tigers Jaw, The World Is A Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die, Code Orange Kids, Self Defense Family fanno la staffetta per l’aperitivo meno situazionista possibile. Punk per sorrisoni e Wayfarer sporchi di sabbia.

quattro minuti: DEPECHE MODE – DELTA MACHINE (Mute)

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Musicalmente somiglia un po’ alle volte che sei a casa e inizi a grattarti la narice con un fazzolettino perché ti prude, poi senti che il caccherino non viene e togli il fazzolettino e inizi a grattare timidamente col dito ma ancora la caccola non esce e quindi cambi dito e infili l’anulare che ha l’unghia più lunga, poi inizi a grattare con serietà e dedizione mentre la testa inizia a viaggiare su certe fantasie sessuali e l’unghia scalfisce appena la superficie. Poi trovi finalmente riesci a localizzare il gnocchetto preciso che prude e ti concentri su quel singolo punto e vai avanti per altri cinque minuti, ma prima o poi il tempo libero a tua disposizione si esaurisce e devi iniziare a grattare seriamente per toglierlo in via definitiva (scoprendo che magari è una piccola escrescenza e squartando la narice dall’interno, e così proverai dolore e fastidio amaro per tutto il giorno) oppure arrenderti e lasciarlo stare dov’è fino a quando il prurito non sarà eccessivo e dovrai ricominciare per altri quindici o venti minuti. Di per sé è senza dubbio tempo speso bene, ma il grado di frustrazione è altissimo e devi essere sicuro che nessuno ti guardi mentre lo fai perché qualcuno trova simpatici persino i neofascisti ma nessuno vuole avere intorno gente che si scaccola abitualmente in pubblico. Non so esattamente quali pezzi siano scritti

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QUATTRO MINUTI: Shannon Wright – In Film Sound

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Divido più o meno casualmente i dischi di Shannon Wright in acusti ed elettrici, secondo una sensazione casuale che non tiene conto del fatto che Shannon Wright non abbia in repertorio un disco completamente acustico né uno completamente elettrico. Dipende più che altro da quali sono i pezzi che mi piacciono di più, tipo Over The Sun è elettrico e Honeybee Girls è acustico, e via di questo passo. Il nuovo disco di Shannon Wright è più elettrico dei dischi elettrici di Shannon Wright, diciamo che se Over the Sun è elettrico In Film Sound è Alice In Chains, vale a dire che la traccia d’apertura, che si chiama Noise Parade mica per il cazzo, ricorda in qualche modo certe robe del disco col cane –e certe altre no. Non ho un granché da dire sul disco, in realtà: contiene solo pezzi belli, come quasi sempre, è bruciato e cattivo come quasi nient’altro al mondo, suona da dio e quando la senti suonare magari dura solo per la durata dei pezzi ma sembra davvero l’unico musicista al mondo che ha qualcosa da dire. Indispensabile. E basta. Sto pensando che è da parecchio tempo

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QUATTRO MINUTI/STREAMO/DISCONE – Ensemble Pearl – S/T

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E’ abbastanza una brutta giornata quando scopri che la preannunciata nuova ballotta-progettone-vaffanculoprimavera di Stephen O’Malley, Atsuo dei Boris, Michio Kurihara (il sesto uomo che parte dalla panchina tipo Jamal Crawford ad Atlanta, ma nei Boris, quando c’è da far paniere e mettere giù i pezzi sobri senza botta) e Bill Herzog stà in streaming su PITCHFORK con una slide fotografica abbastanza patinata da sembrare quelle foto scrause che ti mandano nei comunicati via mail quando c’è da pubblicizzare un gruppo crust da Portomaggiore. E’ così: si scarta il pacchetto e almeno dentro non c’è un mattone dipinto con la scritta “ciao, questo è l’ennesimo supergruppo di merda, hai sempre diffidato da ste cose ma a sto giro hai letto O’Malley e ti abbiamo fottuto” perchè sarebbe stato decisamente da stare male per un po’.
Messa giù come l’ha messa giù Pitchfork mi sembra come quella volta che alla NASA, per commercializzare l’immagine del primo Shuttle, ci hanno fatto salire una maestra. Per far vedere che anche tu con la tua giacca con le toppe sui gomiti puoi stare nello spazio. Grazie ‘murica.
Allo stesso modo anche tu mentre ti cerchi l’ultima sensazione moroso-morosa che suonano il laptop e l’ukulele puoi goderti la nebbia di sugna malata che stà dentro le sei tracce del disco, che non ha un titolo ma un’identità almeno scolpita.
Ed è proprio questa tutto sommato percepibile uniformità la cosa eclatante, perchè non ti aspetti dai soggetti in causa -gente che vive di tourettismi creativi: con i tipi dei Boris non c’è nemmeno da spiegare il perchè, O’Malley ha probabilmente più gruppi che dischi all’attivo, Kurihara faceva (fa?) sigle per gli anime, Herzog è il menhir che fa da altare per tutto- un muro di ambient orchestrale, quasi cinematografico e lontano dalla fisicità scioglibudella di SunnO))) o Khanate e soprattutto dalla pacchianità delle ultime cose fatte dai giapponesi (non mi riferisco all’ultimissimo Boris, Praparat, quello è figo, bensì ai due concept usciti in contemporanea che per me rimangono il peggio del peggio di una carriera geniale).
Fila via liscio e ha dei droni facili, non è che sia sempre un pregio ma a sto giro va bene tutto.
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QUATTRO MINUTI/STREAMO/DISCONE – Corin Tucker Band – Kill My Blues

ammetto che le foto promozionali sono una merda a ‘sto giro

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ROCK NORMALE come il disco di Nikki che ovviamente non ho mai ascoltato se non L’ultimo bicchiere che quella invece l’ho ascoltata sei volte e intendo dire che l’ho ascoltata sei volte ieri (storia vera, quando entra Pezzali nel finale sono lacrime tutte le volte, da sempre e per sempre). L’ex Sleater Kinney Corin Tucker stava in piedi da sola già ai tempi del primo disco a nome proprio, alla faccia di chi si è posto più di un dubbio sul fatto che in realtà il genio in seno al gruppo fosse Carrie Brownstein (titolare assieme a Janet Weiss di un progetto intitolato Wild Flag, sospeso tra SK-revival e garage-pop di merda senza botta e senza pezzi e senza futuro). Il nuovo disco della Band è più bello di quello prima. Stessa identica musica, sia chiaro: pezzi power-pop di tre minuti suonati forte e con la botta e senza cazzi. Quello che cambia è che i pezzi sono scritti meglio e il gruppo è ancora più in parte, che te lo riascolti tre volte di fila invece che due, che siamo più vecchi e che la figa non è più una scusa da un bel po’. Se parliamo di revival degli anni novanta e abbiamo un briciolo di interesse a fare un discorso sensato, forse è il caso di partire da qualcuno che negli anni novanta c’era e suona cose anni novanta ancora adesso e lo fa nel modo in cui lo faceva negli anni novanta. Bene.
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QUATTRO MINUTI – Vision of Disorder – The Cursed Remain Cursed (Candlelight)

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Per il nuovo disco dei VOD (bella copertina di merda) parlare di pilota automatico è riduttivo e non rende giustizia al concetto. Il concetto è che per tutto il disco tira un’aria tipo che i musicisti entrano in sala prove la domenica mattina a gruppo sciolto e la domenica sera c’è la reunion, il disco pronto e una data d’uscita. Veniamo ai problemi: il disco che è arrivato fresco nei negozi (metaforicamente parlando, chiaro) non somiglia per un cazzo a From Bliss to Devastation. The Cursed Remain Cursed, anzi, è pensato e suonato in modo da far dimenticare quell’increscioso momento commerciale (il miglior disco della loro carriera, en passant) e tornare armi e bagagli all’epoca Imprint. O forse rivederlo sulla base delle più recenti conquiste tecniche, artistiche e ideologiche del metalcòr americano, le quali comunque non ci sono. E quello che viene fuori è un disco pesissimo in cui tutte le cose che possono comporre un album di questo genere vengono sminuzzate e ricomposte come una specie di mosaico scrauso all’interno delle canzoni per dare l’idea che il disco si regga su qualche idea. Non è così, naturalmente. Quello che abbiamo in cambio, e che al momento ci basta, è comunque un disco sfascione ed arrabbiato che a quanto pare da dei ventenni che fanno la stessa musica non ci è dato di sentire, la sensazione che in fin dei conti i VOD ci credano davvero (in cosa non si sa, forse nel culto del corpo e della canotta da basket) e a contorno qualche momento melodico di Tim Williams che se chiudi un attimo gli occhi ti senti ancora incazzato nero con la società  e disturbato mentalmente. Non son mica in

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quattro minuti: MISSION OF BURMA – UNSOUND

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Rispetto alla massa di reunion di gruppi storici più o meno bolliti, più o meno compromessi e più o meno abbiam giurato di non parlarci mai più i Mission Of Burma hanno almeno avuto la decenza di rimettersi insieme in tempi non sospetti, senza grossissimi traumi alle spalle e –soprattutto- ripresentandosi al pubblico con una discografia che dire di tutto rispetto è un insulto al gruppo e all’intelligenza critica di un ascoltatore anche un briciolo attento. Unsound si infila dritto dritto nella tradizione dei Mission of Burma riformati, che poi sono più o meno i Mission Of Burma che ricordiamo: un disco di suoni storti che sicuramente abbiamo digerito e considerato “di genere” da tempo immemore ma che ce li riconsegna ai livelli di gruppi tipo Nomeansno o The Ex o qualunque altra band attiva da una trentina d’anni e lontana da tutti i canali che (non) contano, che non ha mai perso un briciolo d’entusiasmo e t’infiamma alla terza o alla quarta nota. E questa cosa è una delle pochissime che continuano a farci andare avanti e a farci sentire dei fan di musica autentici. Nei giorni in cui

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(oggi doveva esserci un Listone ma siamo ancora un po’ in ferie. Better luck next week)

quattro minuti: BLACK BREATH – SENTENCED TO LIFE (Southern Lord)

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Stando alla cosa dei corsi e ricorsi della musica popolare e/o prendendo esempio dagli anni ottanta, è lecito aspettarsi che l’attuale ingentilimento del RUOCK in forme para-dance o para-indie o para-campanellini o para-produzioni pro-tools di merda applicate al metalcore sia destinata a generare una nuova epoca di brutalità ottusa e un nuovo heavy metal crasso stupido e barbarico e innovativo e preso benissimo in cui tutti vorranno succhiare il cazzo a Lucifero solo per il gusto di farlo. Aspettando che questo succeda (su questo punto gli artisti stanno un po’ tergiversando, diciamocelo), è bene continuare a sollazzarsi con gente tipo Black Breath, la destra musicale più reazionaria ed insensibile al cambiamento, gente che se non fosse stata presa sotto l’ala di Greg Anderson l’avrebbero cagata in duecento persone in giro per il mondo (noi probabilmente esclusi) ma che nondimeno, dietro l’impianto Disfear/crust/Haunted/Logicalnonsense più canonico di questo pianeta, hanno un’idea o due che bastano e

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