Tanto se ribeccamo: JOHNNY CASH

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Detesto i puristi del titolo originale del film perché è tutta gente figlia di internet. È chiaro che io non ho niente contro internet e se è per questo non ho niente nemmeno contro Bologna, ma è evidente che l’una e l’altra abbruttiscono le persone; e così come vivendo a Bologna per qualche mese sviluppi il bisogno primario di avere sempre del fumo in casa e un pakistano aperto sotto i portici, vivendo su internet inizi a sviluppare una dipendenza da film originali in blueray-rip coreano con i sottotitoli in inglese. Tutto questo cappello per dire che il tossico di internet è molto peggiore del tossico da eroina: il secondo non porta avanti battaglie politiche per mantenere i titoli originali dei film e farli uscire in lingua originale con sottotitoli (e se è per questo non vota nemmeno Pippo Civati). Tutto questo cappello #2 per dire che la gente che insiste, nelle conversazioni reali, a chiamare i film con il loro nome originale a me sta sui coglioni. Non in generale: mi sta sui coglioni questa loro specifica caratteristica, la quale viene portata avanti NON per odio specifico del titolo italiano dello stesso film (anche se spesso il titolo italiano è odioso) ma per farti sapere con una certa nonchalance che LEI o LUI era al corrente dell’esistenza del film prima che qualche italiano si degnasse di distribuirlo e che so perfettamente che tu, proprio tu che stai leggendo queste righe ora, hai sviluppato questa paturnia. Vieni qui, abbracciamoci, smettiamola. Ridiamo al mercato cinematografico italiano la sua dignità.

Tutto questo cappello #3 per dire che questa storia inizia da un film che si chiama Quando l’amore brucia l’anima, in originale Walk the Line, ed è il film con il quale la mia morosa ha conosciuto bene o male Johnny Cash. Le dinamiche internet di cui sopra tra l’altro impongono di conoscere approfonditamente Johnny Cash da molto tempo prima di Quando l’amore brucia l’anima, oltre che di rifiutare il titolo italiano come qualcosa di innaturale. Io ero un fan sia di Johnny Cash che di James Mangold da prima di Quando l’amore brucia l’anima e ora non sopporto più nessuno dei due. Nel mio caso, fan di Johnny Cash significa che possiedo le American Recordings e dei raccoltoni di pezzi vecchi e ovviamente quel live lì, cioè sono un fan merdoso che se non fosse per Rick Rubin conoscerebbe Johnny Cash per due pezzi in una cassetta o la cover di Ring of Fire dei Social Distortion, peraltro molto migliore dell’originale (è un dogma, sorry, niente discussioni su questo). La storia in realtà è molto corta: Quando l’amore brucia l’anima racconta la storia di Johnny Cash fino al matrimonio con June Carter, io ho raccontato alla mia fidanzata quello che è successo dopo, quel poco che ne so: una crisi artistica e commerciale che dura più o meno tutti gli anni ottanta, Rick Rubin che si chiude in casa con lui e gli fa registrare le American Recordings, la mania che riesplode e l’ingresso nell’olimpo degli uno musicisti più fighi di ogni tempo. Un giorno siamo al negozio di dischi e mi chiede che disco comprare: le dico di prendere American 4, non c’è, ne prende un altro. Non le piace moltissimo, o lo ascolta poco. Mi ruba la compilation dei vecchi successi e la suona a nastro per un bel po’ di tempo. Fine della storia.

Tutto questo cappello #4 per dire che dietro tutto il successo e la fama e le altre cose, se andiamo nel paese reale Johnny Cash possiamo comunque ridurlo a una storia tutto sommato poco interessante (quella che sta in Quando l’amore brucia l’anima e una serie di canzoni bellissime incise perlopiù prima del 1970) e sdilinquirci per tutto quel che è successo dopo, l’amore da vecchietti tra lui e June, la quale a un certo punto muore e lui subito dopo e tutte le storie di contorno. Fenomenale. L’ultimo disco di Cash da vivo è American IV, quello che contiene la cover di Hurt che moltissimi considerano (sulla base del loro non capire un cazzo di musica, credo) migliore dell’originale dei Nine Inch Nails; io il disco lo lego più alla traccia iniziale che è sia un superclassico danzereccio di Christopher/Hana-Bi (nonostante sia un pezzo di sola-chitarra-acustica) sia il pezzo che sta all’inizio del remake di Zombi di Zack Snyder (se siete gente di internet sto parlando di Dawn of the Dead, quello con gli zombi che corrono con la falcata di Carl Lewis). A corpo ancora caldo esce il box definitivo Unearthed (complimentoni per il titolo): quattro dischi di inediti, versioni alternative, out-takes e tutto il resto. Qualità eccelsa, per carità: c’è anche un disco dei canti di chiesa che piacevano a sua mamma, che poi mi pare di ricordare sia uscito pure come disco a se stante. Qualche anno dopo esce il quinto volume delle American Recordings, si chiama American V – A Hundred Highways. Qualità eccelsa, per carità, a parte le minacce tipo “abbiamo un mare di materiale inedito” che da una parte dipinge il classico scenario post-mortem di cofanetti a buttare con due o tre tracce inedite e dall’altra ci mette in condizione di immaginare gli ultimi anni di vita di Johnny Cash trattato come una bestia da soma in casa propria e costretto a cagar fuori una o due cover al giorno.

Per carità, magari mi strasbaglio.

La top 5 delle persone trattate peggio dopo la morte: Jeff Buckley, Jeff Buckley, Jeff Buckley, Jeff Buckley, Jeff Buckley. A un certo punto doveva uscire un suo biopic interpretato da James Franco, il quale poi è uscito davvero ma in tipo due festival e cinque sale e interpretato da uno degli attori di Gossip Girl. A un certo punto, erano ancora gli anni novanta, comprai il CD di Jeff Buckley. Dicevano che era dio e mi cascarono le palle, poi continuai ad ascoltarlo e me ne innamorai. Mi piacevano i pezzi dalla 4 alla 7, poi quel cazzo di disco lo ascoltai fino a sfinirmi, e poi ascoltai quello non finito dopo e per me forse era anche meglio, aveva qualcosa di fichissimo e magico nel suo essere scranno e poi cristo bellissimo che la madre e Chris Cornell abbiano fatto uscire le sessions evitando gli sciacallaggi. A quei tempi se dicevi evitare gli sciacallaggi non so, sembrava uno scopo nobile, non che quella roba darà soldi a chi vuoi te (o a te) invece che a qualcun altro. E poi duecento milioni di live e dischi inesistenti e box set e riassunti e tributi e bla bla bla, pure il best of di uno che di fatto ha realizzato un solo disco. Ora Jeff Buckley mi fa vomitare: non posso dire sia per la messe di uscite postume (a parte Sketches ho ascoltato un live e basta); è che non gli è stato permesso di sparire dall’occhio pubblico e nell’ascoltare Grace mi sento un gonzo e/o il complice di un’operazione di merda come se lo stesso Grace fosse uscito postumo e fosse piaciuto a qualcuno solo per via del fatto che l’autore era morto. Pensate che dovrebbe essere questa meta-merda ideologica a influenzare il nostro giudizio sulla musica che sta nei dischi? E COME CAZZO AVETE FATTO A LEGGERE FIN QUI? Non sembra anche a voi Grace il peggior disco rock mai registrato?

Nel 2010 esce un altro disco di inediti di Johnny Cash. Si chiama American VI – Ain’t No Grave (complimentoni per il titolo). Qualità eccelsa, per carità, ma mi fido della parola di chi l’ha ascoltato – a me Johnny Cash stava già totalmente sui coglioni. Il poverino, mica è colpa sua. È morto pure da vecchio. Ora salta fuori la notizia che il figlio di Johnny Cash si è ritrovato dei nastri di inediti di roba registrata negli anni ottanta, e Legacy Recordings li farà uscire nel marzo 2014. Il disco si chiamerà Out Among the Stars (complimentoni per il titolo).

Revisionisti Like Love (un pezzo sui Placebo)

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Vieni a sapere che esiste un disco nuovo dei Placebo e parte la madeleine, che quando inizia a essere sui cazzo di PLACEBO è di per sé indice di arsura culturale ma nondimeno ecco pezzi di recensioni positive di dischi dei Placebo sulle riviste di musica della seconda metà degli anni novanta, il ritorno al rock energico ma fragile, il ritorno del glam che per me è sempre glam metal ma evidentemente c’era pure altro, Velvet Goldmine che esce a pochi giorni di distanza dal secondo disco dei Placebo, i Placebo che cantano 20th Century Boy in Velvet Goldmine con Brian che si ciuccia un dito, what else could i say everyone is gay detto da Cobain un lustro prima e non c’entra, Pure Morning che diventa una super-hit delle serate alla discoteca rock, provare a limonare con le tipe ascoltando Pure Morning e sapendo dir loro il nome del gruppo che la canta quando ancora nessuno lo sa, ascoltare Pure Morning in casa alzando il volume come se fosse un pezzo (glam) metal, rimediare il disco dei Placebo di straforo, scoprire che i pezzi spaccano, sponsorizzare i Placebo in mezzo a giri di gente che ascolta gruppi di nicchia e trasversali ma paradossalmente mosci tipo Whale, Garbage e Dog Eat Dog, l’esistenza del concetto di gruppo di nicchia ma appunto moscio, i Placebo che diventano il gruppo di punta di certi giri di gente che ascolta gruppi di nicchia e trasversali ma paradossalmente mosci tipo Whale, Garbage e Dog Eat Dog, i Placebo che eseguono Special K ubriachi ma vestiti di pelle a Sanremo mostrando il medio e sfondando le chitarre, scioccando in zona Cesarini il pubblico festivaliero che aveva superato indenne (o stava per) la non-prevedibilmente democristianissima esibizione di Eminem sul palco dell’Ariston, Raffaella Carrà che redime Eminem e lo invita ad un’esibizione sobria e misurata con mezzi probabilmente coercitivi o sessuali, i Placebo che danno interviste sul fatto che si sono rotti il cazzo di suscitare scandalo per il fatto che giocano sull’identità di genere, Brian Molko che canta la parte di Jane Birkin in un duetto con Asia Argento su Je t’aime… Moi non Plus in non ricordo più che disco francese di merda, Brian Molko un po’ drogato e un po’ bisessuale ma non troppo e quindi tutto sommato già seguace di Silvio Berlusconi e/o invasore dell’Iraq, Brian Molko del quale un live report all’epoca forse di Black Market Music e forse su Rumore finiva dicendo “c’ha la chierica”. Brian Molko coi capelli corti quasi più brutto e vuoto di Ed Vedder coi capelli corti ai tempi del cabarettistico Sleeping with Ghosts, i Placebo che cantano see you at the bitter end nel singolo e gli stessi esagitati con sei anni in più sulla groppa la pogano in un locale di Cesenatico che si chiama oer l’occasione Stereo 8 e dopo qualche anno si ritroverà identico a fare la posta.  Giusto per non finire nel mare dei ricordi mi risuono i primi tre dischi da capo, e qui arrivo al senso del pezzo in questione.

Il nuovo disco dei Placebo si chiama Loud Like Love e fa vomitare. È triste da dire così perché in parte è sparare sulla croce rossa e in parte non è propriamente un’opinione originale sulla faccenda, da quand’è che i Placebo hanno perso qualsiasi dignità critica? Ai tempi di Meds? Di quello prima? Difficile a dirsi. Il punto, allora, non è se il nuovo disco dei Placebo fa vomitare o no. Il punto è da quanto tempo e a che titolo i dischi dei Placebo hanno smesso di essere delle raccolte di canzoni pop perlopiù carine e simpatiche e hanno iniziato a essere dei campionari della peggio merda brit-Virgin-emo-pop in circolazione. Quando è successo che Brian Molko perdesse la brocca e la favella? Ecco, la mia idea è che i dischi dei Placebo hanno SEMPRE fatto vomitare. Il primo disco aveva una produzione non-bombastica e metteva in risalto certi limiti di scrittura, il secondo disco era bomba stico e copriva i limiti di scrittura con questa produzione BZZZ allucinante che era già appunto post-britpop e comunque vuotissima e noiosissima. Il terzo disco era uguale al secondo senza il piacere di conoscere il nome del gruppo prima di chiunque altro nel tuo paesino di residenza, e poi l’affaire-Placebo ci ha fatto il sacrosanto piacere di mangiarsi dall’interno producendo dischi sempre più o meno uguali con giusto un po’ di scintilla in meno, ma alla fine della fiera l’opus magnum di Brian Molko e sodali si può ridurre a una manciata di singoli alcuni dei quali sostanzialmente BRUTTI e antipatici nonostante le chitarre alte. Naturalmente è solo la mia opinione sulla faccenda, ma da quanto tempo non vi ascoltate il loro miglior disco (Without You I’m Nothing, nessuna questione a riguardo) senza che vi venga l’abbiocco dalle parti della title-track? Nel caso, riprovateci. Magari mi sbaglio io ma scommetto venti centesimi che no. E naturalmente un sacco di voi li odiava dal giorno uno, ma che ci posso fare, siete dei geni, chissà che discografia meravigliosa sugli scaffali ben ordinati.

Reunion in prospettiva sensate che non t’aspettavi: ALICE IN CHAINS

Prima regola del giornalista musicale: mai fare marcia indietro. Considerato il fatto che i pezzi sono buoni o cattivi se contengono informazioni corrette o sbagliate in merito al disco, cambiare idea su un gruppo/disco può rivelarsi fatale. Quando uscì Black Gives Way to Blue pensai che fosse il peggior disco mai concepito da un gruppo grunge, estendendo la definizione a qualsiasi gruppo abbia in catalogo un disco nella prima metà degli anni novanta e almeno un componente si sia mai fatto vedere in pubblico con una camicia a quadrettini. Come tutti, naturalmente, l’avevo deciso qualche mese prima, alla notizia che gli Alice in Chains avevano reclutato un nuovo cantante il cui nome al momento non ricordo ma è nero e di cognome fa tipo DuQualcosa –così di primo acchito direi James DuVal, che però 1 si scrive con la V minuscola e 2 in realtà è quel mezzo cinese che faceva i film di Gregg Araki e che non voglio sapere che fine abbia fatto per ricordarlo così, puro e innocente e l’attore maschio più figo della sua generazione. Torno in argomento:  Black Gives Way to Blue faceva schifo a tutti per l’idea alla base del disco, cioè che Jerry Cantrell e gli altri potessero permettersi di fare musica a nome Alice in Chains nonostante avessero passato sette anni della loro esistenza a produrre una dozzina di best-of invece che un solo disco di inediti. E soprattutto, ovviamente, che si fossero rimessi in pista senza Layne Staley. Il fatto è che dopo qualche mese il disco nuovo degli Alice in Chains stava ancora lì a girarmi nello stereo, complice anche la cosa che una canzone fosse stata utilizzata in maniera proficua all’inizio della quarta serie di CalifornicationBGWTB suona bene perché suona bene e perché pur essendo molto contemporaneo è anche molto Alice in Chains. In generale sarebbe un problema quello di avere un gruppo vecchio di vent’anni che aggiorna il suono a quello che va più di moda sul mercato (liscissimo e ribassato), ma c’è anche da dire che quel suono è stato sostanzialmente coniato ex-novo all’interno di dischi tipo il Cane e che BGWTB ne sembra in qualche modo un contributo. E ha questa patina un po’ anonima da basso profilo che a conti fatti è un buon modo per far uscire fuori le canzoni, che alla prima mezza dozzina di passaggi sembrano roba abbozzata e per nulla incisiva; il fatto che il cantante sembri una specie di corista buttato in mezzo al palco a non-fare scena e faccia suonare il tutto più anonimo funziona molto di più di quanto io stesso mi potessi aspettare di primo acchito. Se riascolti Boggy Depot e Degradation Trip, tra l’altro, ti rendi conto che Cantrell avesse un piano molto tempo prima che chiunque se ne accorgesse, e che tutto sommato i nuovi Alice in Chains possano suonare come un trionfo della sua visione. Tutto il resto l’ha fatto il revisionismo storico intorno al gruppo e alla figura dell’ex-cantante, che ho scoperto di non sopportare un paio d’anni fa. Non sopporto più Layne Staley.

Avete mai avuto una discussione su internet in merito agli Alice in Chains dopo la morte di Layne Staley? Io sì, perché è il modo in cui mi piace perdere tempo. Gli Alice in Chains, in vita, erano un gruppo rock molto pesante reso digeribile dal fatto di essere arrivato sul mercato nel momento giusto, e da un cantante che aveva trovato un modo di esprimersi che non s’era sentito da nessun’altra parte prima E in qualche modo riusciva a rendere pezzi metal molto spessi tipo Dam that River decodificabili da quasi chiunque. Di questo gliene va dato sicuramente atto. Il problema è che ha fatto nascere, soprattutto a posteriori, una generazione di neo-appassionati fissati con l’estetica del rock alla Virgin Radio e convinti che si possa essere iper-fanatici degli AIC senza avere in casa nessun disco (boh) dei Black Sabbath. Li riconosci abbastanza bene in giro: adorano Dirt Jar of Flies, malsopportano il Cane (il Cane sarebbe il disco omonimo del 1995, giusto per capirci; venirmi a dire che il Cane non è un granché non vi renderà simpatici ai miei occhi), si riferiscono al cantante chiamandolo Layne come se fosse loro cugino e parlano degli altri membri del gruppo (compreso il chitarrista) come di un branco di cicisbei che hanno avuto il culo di fare da backing band al più dotato crooner della sua epoca, qualsiasi cosa voglia dire crooner. Voglio dire, una volta un tizio mi disse (giuro) che Staley era più determinante per gli AIC di quanto Kurt Cobain lo fosse per i Nirvana. A capo senza motivo.

Nessuno di questi individui vuol sentir parlare di metal, ovviamente, essendo il metal per definizione un’altra roba , qualitativamente peggiore, più dozzinale e meno poetica ed assolutamente lontana dalla sensibilità di LAYNE; per non parlare poi di quelli che t’attaccano la pezza sulla poetica di Layne Staley, che per metà è la poetica di Jerry Cantrell (voglio dire, Rooster mica era sul babbo di Layne Staley) e per l’altra metà si tratta di roba sicuramente buonissima e suggestivissima ma scritta da una persona la cui produttività è ridotta a una manciata di canzoni con testi abbastanza inaccettabili anche solo da leggere (figurarsi immedesimarsi) dopo i ventidue anni; finisce che la principale fortuna degli Alice in Chains (l’essere capitati in mano a gente che non ne poteva comprendere le basi) li ha spazzati via a livello critico quando era il momento di capire da che parte stare. Se devo essere sincero, il modo in cui si evolvono queste microscopiche stronzate narrative nel rock è uno dei pochissimi motivi per cui ha senso starci dentro: bastano tre o quattro anni di sedimentarsi di questa idea, uniti a un disco come BGWTB che in prospettiva suona quasi volutamente neutro, per mettere in moto un processo di rimozione uguale e contrario all’interno della mia testa, e rendermi inviso Layne Staley giusto per non essere confuso con questi che ho descritto sopra. Voglio dire, nessuno si permette di chiamare Jerry il chitarrista degli Alice in Chains senza aggiungere il cognome, e già questa cosa lo rende una persona rispettabile –a maggior ragione ora che si è tagliato i capelli. Mi sembra sufficiente a proporre una visione alternativa della carriera del gruppo, basata sul fatto che il percorso artistico degli AIC da Dirt in poi sia sostanzialmente un percorso di destaleizzazione del loro suono, di riduzione e progressivo annullamento della componente emotiva-tossica portata al gruppo dal cantante, in favore di una scrittura per forza di cose meno sofferta ma sempre estremamente dignitosa ed orgogliosamente pesante (che in tempi di fighe di legno non guasta insomma). E questo ci porta all’attualità: sta per uscire un disco nuovo degli Alice in Chains (il titolo è meraviglioso: The Devil Put Dinosaurs Here), ed abbiamo da qualche giorno in streaming il secondo brano. Il video è bruttissimo, il pezzo è –ancora una volta- molto buono e molto oscuro: viene la tentazione di citare Down, Corrosion of Conformity, Melvins e simili ma sarebbero scuse per non ripetere Alice in Chains e cadere nella retorica del giornalista musicale. Suona uguale ma diversissimo da tutta la roba di questo genere che ascoltiamo quotidianamente senza volerlo, suona uguale ma diversissimo dagli AIC e (parere personale) continua a portare a casa la pagnotta in un modo che gli infiniti epigoni e quasi tutti i numerosi contemporanei in attività se lo sognano alla grande. Sia ben chiaro: sono straconvinto che il fatto che io abbia cambiato radicalmente idea sulla faccenda non vi convincerà a cambiare idea su Black Gives Way to Blue, o sugli Alice in Chains col nuovo cantante in generale (niente, non riesco a ricordare il nome, pazienza, non mi arrenderò a cercarlo su google), ma ora che l’ho scritto mi sento molto meglio e se fossi in voi un’ascoltatina al nuovo e una riascoltatina al precedente gliela darei. Potrebbe rivelarsi –seriamente- molto meno loffio e senza senso di come ve lo ricordate. Un giorno molleranno il cantante nero, prenderanno Phil Anselmo in pianta stabile e non ci saranno cazzi.

STREAMO/TrueBelievers/StareBene/DISCONE e altre cose sul nuovoWolf Eyes

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La prima volta che ho letto il nome Wolf Eyes, come quasi tutti in Italia, è stato su Blow Up. Erano i primi anni duemila e si parlava con un certo entusiasmo di qualche uscita a loro nome, poi collegata a tutto un discorso di nuova musica wave e nuova musica industriale, che tuttora mi ronza nelle orecchie. Ho letto e sedimentato, un momento in cui Blow Up e la musica sembravano nutrirsi a vicenda di questa sorta di energia che li spingeva tutti nella stessa direzione. Ho scoperto abbastanza presto che i Wolf Eyes erano, effettivamente, uno dei gruppi più interessanti del periodo: registrazioni carbonare licenziate sul mercato a botte di venti o trenta l’anno, nei formati più disparati e con in calce nomi di etichette assurdi che negli anni a venire avrebbero ossessionato un intero immaginario. Anche solo metterne in condivisione i dischi su Soulseek ti faceva sentire un punk di prima categoria o una specie di grande diffusore della Cultura, a cui un certo punto persino il mondo esterno prima o poi sarebbe arrivato riconoscendo implicitamente il nostro ruolo di teste di ponte (c’era già arrivato, ovviamente, due minuti prima di noi). Ho scoperto abbastanza presto che essere fan dei Wolf Eyes e del NOISE richiedeva una dedizione ed uno stipendio assolutamente maggiori di quelli di cui disponevo ai tempi. Dischi in vinile colorato stampati su un lato solo e tirati in poche decine di copie; cassette a tiratura ugualmente limitata smerciate più o meno a caso ai banchetti di qualche festival europeo a tema in cui era possibile assistere alle performance; amici che risparmiavano per mesi prima di quell’evento e si portavano a casa edizioni immancabilmente limitate e scrause pagando trecento euro a botta; si fa presto a sentirsi inadeguati, uomini non-nuovi, adepti di seconda o terza categoria destinati a una più che prevedibile abiura del NOISE una volta che quei suoni fossero passati di moda.

L’unico modo di continuare a quei livelli, nel noise, è di diventare artista. Ovviamente a un certo punto lo faccio, un po’ lo facevo anche prima ma ora lo faccio con uno spirito. Lo stupore intrinseco alla scoperta che certa musica può interessare a qualcuno che non sei tu. Registro cose con un mangianastri, aggiungo stronzatine fatte con una strumentazione rimediata e composta (vado a memoria) da tre pedali, un mixer, una tastiera, qualche microfono a contatto piazzato ovunque, un vecchio lettore CD dotato di un tasto per i loop e via; il pezzo forte era un Kaoss Pad 2 comprato a un centinaio di euro ad un amico, utilizzato un paio di volte e ributtato nel cestino. Il valore artistico della musica oscillava quasi sempre tra il ripugnante e l’inascoltabile, e le cassette/gli mp3 sono giustamente rimasti in un cassetto finchè la vita è andata necessariamente avanti e mi ha imposto di buttare le macchinette e ricominciare, boh, a disegnare; la mancanza di dedizione alla CAUSA ci ha imposto di rivedere il nostro asse critico ed abbiamo più che volentieri declassato l’harshnoise a un baraccone di idioti che (a parte pochi nomi, dei quali peraltro manco eravamo così convinti) sfruttava l’hype intorno a Wolf Eyes e simili come un trampolino di lancio per fare cagnara con macchinette autocostruite invece che con le vecchie autoghettizzatesi chitarre, senza alcuna idea alla base della musica stessa a parte il puro casino e a qualche cicatrice autoinflitta nei fortunatamente rari concerti dal vivo. Per poi bollarlo come una sega mentale artsy-fartsy non appena abbiamo visto comparire (tipo ai tempi dell’esplosione di un Prurient) il sospetto che la musica di qualcuno si fosse estesa oltre le bestemmie sputate in faccia a un pubblico di dieci stronzi con un microfono effettato a boia. Le storie di ascesa e caduta, nel rock e derivati, sono tutte riscritture apocrife della rivoluzione francese. Nel periodo di monomania riesco persino a farli piacere a qualche collega di lavoro, con il risultato di ritrovarmi di lì a un anno in discussioni in cui è LUI a raccontarmi per filo e per segno progetti di secondo e terzo grado di gente che ha suonato il corno in una cassetta dei WE uscita nel 2004 su American Tapes dicendomi cose tipo questa te la devi assolutamente sentire ti faccio un disco di mp3 mentre tu pensi quanto tempo da perdere ha ‘sto tizio. E poi? Boh, più niente. Circa un lustro fa smettono di uscire dischi a nome Wolf Eyes e i membri si fanno vivi solo in proprio.

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È abbastanza commovente riascoltarsi oggi i dischi dei Wolf Eyes. L’ho fatto la scorsa settimana: ho iniziato per caso trasferendo dischi da un appartamento all’altro e ripescando dalla pila dei disastri sfilati a qualche distro una delle collaborazioni con i Black Dice. Bello, per niente noioso, per niente gratuito. Ho ricominciato così, un po’ alla volta: Burned Mind che continuo non-originalmente a pensare sia il loro disco definitivo, Human Animal di qualche anno seguente, sempre su Sub Pop, sempre bellissimo. Slicer che forse era uscito su Hanson qualche anno prima, il disco (bellissimo anche questo) con Anthony Braxton. Al momento sono fermo qui. Probabilmente sono partito dai miei preferiti, ma è difficile guardare indietro a quegli anni e trovare un gruppo così amato allora che ancor oggi suona così dentro i tempi. Gran parte del merito è da darsi ovviamente all’eleganza formale dell’estetica del gruppo, oltre ovviamente alla capacità di Nate Young di ottenere un risultato specifico e peculiare a partire da qualsiasi suono. O alla sua capacità di selettore della propria musica capace di buttare sistematicamente nel cestino la roba non interessante o comunque riservarla ad uscite che finisco per non ascoltare. Resta il fatto che il nome Wolf Eyes continua ad essere –parlando di America- la pietra miliare del NOISE così come lo conosco io: al nome Wolf Eyes è associabile quasi tutto quel che so di questa musica, a partire dai padri fondatori per arrivare alle deviazioni freejazz a cui in qualche modo sono giunto ascoltandoli, a una manciata di etichette con nomi tipo Bulb o Hanson o Hospital o American Tapes ma anche Important e Troubleman che li hanno fatti uscire, a duecento side-project dei membri del gruppo, duecento gruppi con cui sono usciti split o dischi in formazione allargata e via di questo passo. Parlando di NOISE, in quella accezione, Wolf Eyes è quasi un genere musicale in sè.

E certo è una notizia che stranisce quella che una nuova formazione del gruppo senza Aaron Dilloway (presente come ospite su una traccia), quattro anni dopo le ultime uscite a nome Wolf Eyes, torna sul mercato con un disco nuovo intitolato No Answer: Lower Floors e viene ospitata su Pitchfork Advance –quindi per certi versi esce con lo stesso hype riservato ai nuovi Strokes* o Yo La Tengo. Siamo ai primi ascolti ma il disco sembra comunque buonissimo: NOISE di sapore molto industrial (in senso buono), per nulla gratuito, costruito su un equilibrio impossibile e su un profilo bassissimo, quasi ad elemosinare nella sua estrema eleganza un posto qualsiasi ai margini dello spettro musicale. Ancora una volta familiare ma al contempo non allineato, ed animato da questo senso di necessità che anche spento il player non accenna ad andarsene: un disco il cui solo essere uscito è una dichiarazione politica che ci colpisce dove fa più male: io ho mollato, i miei conoscenti hanno mollato, il NOISE in molti casi ha mollato. Wolf Eyes è ancora qui in forma smagliante: non sembra potersi permettere di essere altrove.

*mi chiedevo tra l’altro se nel caso di un disco come Comedown Machine sono gli Strokes a pagare per finire su Pitchfork Advance o se è Pitchfork a pagare gli Strokes per l’esclusiva. Quante cazzo di cose che non so.

tanto se ribeccamo: DOWNSET

anni in cui ti potevi vestire così e sembrare serio.

 

Che il rap-metal fosse un pacco si capiva anche dal fatto che (contrariamente a qualsiasi altro genere di musica rock violenta) c’era posto anche per le one hit wonder, i gruppi che arrivavano alle orecchie della gente con una singola canzone che nel nastro misto ti sfondava e quando andavi a sentire il disco, insomma, dieci pezzi uguali un po’ più brutti. Il caso più clamoroso sono gli svedesi o norvegesi ma credo più svedesi Clawfinger (quel pezzo con il bambino e l’incedere criptonazo TA-TA-TA-TA-TA-TA-DO WHAT I SAY), gli Urban Dance Squad di Demagogue citati da molti come gli indiscussi inventori del genere e nonostante questo conosciuti quasi solo per il successo del singolo Demagogue in uno dei loro dischi più orrendi, e gruppi tipo Manhole o Stuck Mojo e svariate altre centinaia se allunghiamo la storiografia fino al ’98 (HedPE, Powerman 5000, roba simile: ho tutti i dischi ovviamente). I losangelini Downset, quando sono usciti fuori, ce li siamo comprati tipo la versione senza tagli dei Rage Against The Machine: il padre del cantante fu ucciso in una sparatoria contro l’LAPD, il gruppo tirava dalle parti degli Slayer, il primo pezzo del primo disco era una roba torrenziale. Ve lo racconto. Il cantante, che si chiamava Rey Oropeza (lo dico nel caso in cui pensiate di essere gli unici con qualche scheletro nell’armadio), iniziava sussurrando anger/hostility towards the opposition una decina di volte, poi partiva la musica e lui continuava a ripeterlo incazzandosi sempre di più e alla fine iniziava a urlare come un pazzo con la voce bruciata e acutissima ANGER! ANGER! ANGER! ANGER! ANGER! ANGER!, e via di queste. Era davvero piuttosto intenso, veniva da chiedersi che cazzo gli avessero fatto, sembrava quasi cinema o comunque una ragionevole approssimazione della vita vera qualora la stessa fosse vissuta effettivamente in un posto nel quale bisognava difendersi dalle aggressioni, o cose così. Mercury ci aveva visto una gallina dalle uova d’oro, aveva piazzato la band sotto contratto e l’aveva spinta da subito come se dovessero diventare appunto i RATM o i Pantera o cose così. L’anno era il 1994. Purtroppo l’incanto dei Downset non andava troppo oltre il secondo minuto di musica: il pezzo è invecchiato com’è giusto che fosse, perfetta testimonianza di anni finiti con il tacito e colpevole consenso di tutti i presenti, in mezzo a qualche mixtape o ad aprire un disco fatto di dieci canzoni tutte più o meno uguali ad Anger ma senza quell’effetto sorpresa/incazzo della prima metà di Anger. Il resto della carriera del gruppo si svolge nel quasi completo disinteresse della critica e del pubblico. Il secondo Do We Speak a Dead Language?, una fotocopia del primo senza smalto né elemento sorpresa, continuò comunque a fare un briciolo di scalpore e permise al gruppo un ultimo giro di giostra in giro per festival estivi e cose così. Dopo qualche tempo il rapmetal era diventato roba da vecchi: i Korn s’erano inventati una roba un briciolo più complessa e laterale la quale aveva mandato seduta stante in pensione chiunque avesse una strofa rappata e un ritornello urlato, in favore di chi riuscisse a infilare nella musica più influenze esterne possibile. Questo per dire di quanto fossero solide le basi del genere, il quale non mancò di “risorgere” più patetico e vuoto e con la figa al posto delle menate politiche qualche anno dopo con i Limp Bizkit. Per i Downset era già troppo tardi, ovviamente: la ricollocazione di Mercury in seguito alla fusione Polygram/Seagram li lasciò senza contratto e il gruppo si separò per qualche tempo dal cantante per via dei continui scazzi (nello stesso periodo su qualche rivista metal lo lessi anche candidato a sostituire Zack de la Rocha nei RATM). Poi il gruppo si riforma e per un lustro vivacchia tra dischi nuovi (uguali ai vecchi, giusto un pelo più nu-metal). Quello dei Downset alla fine è il cammino più che onesto di un gruppo rock qualsiasi, fin troppo esposto e riconoscibile agli esordi per dar modo ai membri di riciclarsi e proseguire con la loro vita (figurarsi con la loro musica). Riascoltare un disco dei Downset è fattibile nella misura in cui siamo disposti a riguardarci certi film che ci avevano gasato da ragazzi senza alcun motivo (tipo boh, Pump Up the Volume) e a riderci sopra come se si stesse parlando di qualcun altro. Su Wiki imparo che il gruppo si è sciolto ufficialmente nel 2009.  Quest’estate faranno un giro in Europa, e davvero nessuno di noi sta più nella pelle.

Tanto se ribeccamo: MY BLOODY VALENTINE

cercando "kevin shields" su google immagini viene fuori (anche) questo

cercando “kevin shields” su google immagini viene fuori (anche) questo

agh agh.. agh..
fuori tempo massimo…
guarda guarda facciamo pi Pirlo..
guarda cosa fa, ahvìa.. ha lalucidhia dheh.. lucidhia dheh, di vedere Rossi in mezzo all’area
poi, poi.. poi ci vuol la qualità anche… 

(Salvatore Bagni)


e insomma ventidue anni dopo ecco anche Kevin Shields rifilarci a tradimento il suo Chinese Democracy. Un film già visto, dalle prime avvisaglie nei tardi anni novanta (con identico corredo di puttanate ad effetto: nello stesso periodo in cui cominciavano a circolare voci di un disco jungle dei My Bloody Valentine di imminente uscita – estate 1997 – Axl Rose dichiarava di avere pronti 400 riff ma nessun pezzo completo) alla prima minaccia di una resurrezione coatta all’indomani di Lost in translation, che facilita il compito sull’onda lunga dell’emozione provocata dal riascoltare gli stessi pezzi in un contesto diverso e scoprire che anche a corredo di un filmetto continuano a fare il loro sporco dovere, aprire il cuore e farlo a brandelli eccetera, poi la faccenda dei remaster vagheggiati per anni che però non uscivano mai e continuavano a non uscire, altro numero che è puro William Bailey, all’immancabile tornata di karaoke festivalieri per compiacere danarosi turisti della musica e della vita, fino ad arrivare a oggi che dopo qualche giorno di tam tam mediatico per sovreccitare chi ancora crede in questa cosa il disco è finalmente fuori su Amazon e nei migliori rapidshare del pianeta e farsene un’opinione diventa un dovere morale. Io quel disco non l’ho ascoltato, e a distanza di circa 48 ore dalla messa online ancora non sento il minimo desiderio di farlo. Tutta la frenesia dell’attesa, le aspettative eccetera, zero proprio. Sarò egoista ma preferisco conservare inalterato il ricordo delle cose migliori combinate da Kevin Shields negli ultimi ventidue anni, che con i My Bloody Valentine c’entrano zero: la partnership con J Mascis, che è molto più di un incontro al vertice tra grandi spiriti e che ha generato due tra le migliori declinazioni di sempre di rumore applicato alla melodia (o in qualunque altro modo la vogliate chiamare; comunque, non renderà giustizia), roba da far sborrare nelle mutande Phil Spector e rendere pleonastico qualunque altro disco di chitarre collegate a un amplificatore registrato da allora in poi. Il remix dei Mogwai, cose così. Al limite rispolverare i dischi vecchi (certo Loveless più di Isn’t Anything, e magari è soltanto una perversione personale, Sunny Sundae Smile più di Loveless). Poi magari è un capolavoro; il punto è che non mi frega un cazzo di scoprirlo.

tanto se ribeccamo: BLACK FLAG

off

Avete presente tutto il discorso culturale dei meme? L’idea che una singola persona presa in un singolo momento (anche per nulla rappresentativo) della propria esistenza possa diventare l’alfiere di un certo stato d’animo (o dell’idea stessa di sfiga, poco cambia) sulla sola base della continua riproposizione di quell’istante, eccetera eccetera. Epic Sax Guy. I Black Flag sono stati, in un momento della storia nel quale poi manco erano così visibili, il più grandioso esempio di rettitudine ed etica del lavoro applicate al punk o alla musica in generale. Probabilmente questa cosa è vera, ed è pure vero che non sono in tantissimi ad avere inciso My War, ma negli ultimi dieci anni ci siamo beccati 1 La reunion dei Black Flag nel 2003 per qualche benefit con Dez Cadena alla voce e Robo alla batteria, e vabbè erano benefit, 2 un disco di cover dei Black Flag suonato interamente dai Mother Superior (la Rollins Band del periodo dischetti di merda tipo Nice) e cantato da gente figa, triste perchè organizzato dal solo Rollins, carino perchè almeno era un disco i cui ricavi andavano per finanziare la campagna per i West Memphis Three, 3 Chuck Dukowski assieme a Keith Morris, Bill Stevenson e un chitarrista che non era Ginn suonare l’intero Nervous Breakdown a qualche evento che non ricordo, 4 sempre Dukowski che si mette insieme al negro degli Oxbow e ritira fuori delle outtake di My War scritte da lui, reincise a nome Black Face e buttate sul mercato da HydraHead nel disinteresse più generale, 5 Keith Morris che mette insieme un gruppo hardcore old school di nome OFF! con grafiche interamente curate da Pettibon, fa uscire il disco su Vice e diventa il punk rocker più influente della sua epoca a tipo sessant’anni, 6 la maglietta con le sbarre addosso a qualunque personaggio ti possa venire in mente, da Fergie al mio vicino di casa impiegato di banca, 7 le biografie degli Azerrad del caso e i documentari tipo American Hardcore incentrati per un terzo sulla Gloriosa Vicenda Black Flag riraccontata fino allo sfinimento, al punto di diventare un meme in se stesso e ricominciare dall’inizio come la più classica delle parabole americane, 8 la REUNION finalmente commerciale E con Greg Ginn di una formazione a caso dei Black Flag, ovviamente senza Rollins ma con Robo e Ron Reyes, il cantante meno decisivo mai stato in formazione al gruppo, 9 la REUNION dei Flag (senza Black) in un’altra formazione con Keith Morris, Chuck Dukowski e Bill Stevenson, vale a dire quelli che avevano suonato Nervous Breakdown, che suonano sempre a qualche festival europeo però forse qualche ALTRO festival, e allora uno si aspetta che prenda una posizione tra i Black Flag così chiamati che hanno appunto l’unico membro dei Black Flag che è durato tutta la storia del gruppo ma un cantante probabilmente merdoso, e degli altri Black Flag con un nome diverso ma un cantante leggermente più in botta anche se la roba figa gli converrebbe continuarla a fare a nome OFF!, e via di queste. In tutto questo Henry Rollins non dà il segno di voler dar vita all’unica reunion che avrebbe senso, quella della Rollins Band con Haskett e Melvin Gibbs eccetera. In tutto questo, aggiungiamo, la maggior parte della gente con la maglietta e i gingilli con le quattro sbarre non s’è dovuta prendere il disturbo di doversi ascoltare un disco dei Black Flag che non fosse Damaged, il quale comunque contiene per due terzi canzoni i cui testi parlano di quanto sia patetico risuonarle trent’anni dopo l’uscita del disco, e perdipiù senza Rollins. BRUTTE MERDE, non dico i Black Flag, dico voi. No, anche i Black Flag. A chiunque vi riferiate quando ne parlate.

tanto se ribeccamo: STRIFE

strife

Chitarroni affogatissimi alla Metallica, un batterista old school che inizia a tirare delle rullate e via con gli urli del cantante: vent’anni di attività e quasi nessuna variazione sul tema suggeriscono che uno sia Lemmy, o un idiota, o uno con una missione. Difficile a dire se i californiani Strife facciano parte dei secondi o dei terzi: il loro disco più bello data 1997, si chiama In This Defiance, ed esce nel momento giusto per farli considerare uno dei gruppi accacì più importanti al mondo in quegli anni: è il momento di Victory e dei gruppi straight edge ispirati agli Slayer. Dopo Earth Crisis e Snapcase venivano loro. Ai tempi di One Truth i chitarroni heavy metal senza assoli già c’erano, ma i pezzi andavano comunque abbastanza a rotta di collo. Anche In This Defiance li contrassegna più o meno a cazzo come il gruppo più old school del roster dell’etichetta in quegli anni, ma al contempo arrivano te o quattro ospitate di gente da gruppi di base del nu-metal (Deftones, Fear Factory, Sepultura) a creare parentele un po’ naif, specie viste dalla prospettiva odierna. Sta di fatto che nel ’97 gli Strife mi sembravano davvero una delle cose più decisive che andavano ascoltate. Non lo dico per vantarmi, anzi se fosse possibile cancellare quel particolare periodo della mia esistenza e sostituirlo con un’ossessione più trendy per Joy Division o altri gruppi ugualmente suicidi. Gli Strife avevano un messaggio più generico e universale, stile “gli oppressori sono ovunque ma noi siamo molto bravi a dare i cazzotti”. La parola fondamentale paradossalmente è noi, tranciante invito ad una malcelata solidarietà tra punk rocker che nella testa dell’80 per cento delle persone che ascoltavano gli Strife semplicemente non esisteva (ok la sospensione dell’incredulità, ma se sei una persona la cui più grande preoccupazione è che i tuoi genitori non approvano il fatto che i tuoi voti al liceo stia calando, insomma).

Gli Strife si sciolgono alla fine degli anni ’90 per gravi divergenze creative e umane -o qualsiasi altro motivo per cui si sciolgono i gruppi- e si riformano l’anno successivo, immagino dopo averle appianate. Il disco della reunion si chiama Angermeans e contiene la stessa identica roba di In This Defiance con qualche sample alla cazzo di cane perchè (immagino) nel 2001 un disco metal senza tracce di rap o elettronica non suonava giusto. Perdo cognizione degli Strife dopo averli visti dal vivo nel tour di Angermeans: ci vado con lo swag di un tizio che ha digerito e risputato via la cosa anni e anni prima; non è vero, ma i miei ascolti arcòr sono concentrati da un bel po’ di tempo -come quelli di tutti quelli che seguono questa roba a parte i fan dei XReprisalX- su un altro genere di HC sempre maschio e ignorante ma più influenzato dal grindcore o dal doom metal, Converge Botch Dillinger et similia. Mi trovo a godere un po’ a sorpresa del concerto, un live tiratissimo assieme ad Agnostic Front e Skarhead, pezzi nuovi non distinguibili dai vecchi, un dj sul palco con i dreadlock untissimi che dopo tre minuti va in fotta, si butta sulla gente e inizia a menarsi con chiunque.

Nel frattempo si scopre che l’interesse per i gruppi metal wannabe-storti alla Dillinger è una cosa generale. La new school si “evolve” un altro pochetto diventando roba per doomster in botta, o in alternativa un coacervo di stronzate machiste neomelodiche con vocal pitchate, capelli piastrati e suoni in altissima fedeltà. Probabilmente almeno nel primo caso l’evoluzione è un bene, ma gli Strife continuano a suonare per tutto il decenno successivo, bellamente ignorati da chicchessia e senza prendersi il disturbo di incidere un nuovo disco prima della fine del 2012. Il disco si chiama Witness a Rebirth (se non suoni arrogante non sei un cazzo de nessuno) con tutte le batterie suonate da Igor Cavalera e ospitate di gente tipo Billy Graziadei, anche se ovviamente il suono e le canzoni sono gli stessi di tutti gli altri tre dischi: chitarroni affogatissimi alla Metallica, un batterista old school che inizia a tirare delle rullate e via con gli urli del cantante, testi stile “gli oppressori sono ovunque ma noi siamo molto bravi a dare i cazzotti”, il portafogli con le catene, qualche testa rasata e via. Il primo impulso sarebbe di dargli dei vecchi buffoni in ritardo di quindici anni sulla giusta età di pensionamento, scaricare l’album giù per la tazza del water senza manco aver finito di scaricarlo nell’hard disk e chiudere il tutto con un bonario sfottò a noi che ci ascoltavamo questa roba ai tempi; ma la verità è che in tutto il suo fascino patetico da karaoke per fans (immagino inesistenti tra l’altro), Witness A Rebirth è una gran legnata nei denti e te lo puoi riascoltare sette volte a fila col viso tirato e gli occhi a fessura senza sentire la fatica.

Tanto se ribeccamo: SOUNDGARDEN – KING ANIMAL

Pensavo di introdurre chiedendo “esiste un rimasuglio del grunge che si è sputtanata negli anni successivi al grunge peggio di Chris Cornell?”, poi mi è venuto in mente Billy Corgan. Però siamo lì: musicisti fighi che contribuivano in maniera determinante (o esclusiva) alla musica dei gruppi con cui sono diventati rockstar e che una volta scioltisi i gruppi hanno fatto SEMPRE e SOLO la scelta sbagliata. Ma dove Billy Corgan ha pagato di tasca sua la scelta di continuare a portare avanti la sua visione musicale nonostante a un certo punto gli fossero palesemente finite le canzoni, Chris Cornell ce lo siamo beccato una volta ogni due anni sotto i riflettori, nel disperato tentativo di diventare il Bono Vox della sua epoca (o meglio dell’epoca dopo la sua) e/o una versione grunge di Madonna costantemente al passo coi tempi in maniera sbagliata. È difficile, anche in prospettiva, separare la storia del gruppo dalla carriera del cantante.

Che poi se ci si pensa tutto questo processo di auto-svecchiamento cornelliano possiamo farlo risalire ancora ai tempi di Superunknown, momento in cui Cornell prende il comando nella band e che corrisponde giustamente al periodo di massima esposizione del gruppo: non fosse stato così bello, sarebbe stato un disastro assoluto. Il successivo Down on the Upside fu considerato una ciofeca dai più, ma ne era solo il logico successore senza tutti quei pezzi fighi. I Soundgarden non erano ancora un’istituzione del rock’n’roll da vecchiacci tipo U2, ma vennero comunque accusati di volerlo diventare. Un paio d’anni dopo Chris Cornell si presentò con una chitarrina acustica e un disco di canzoni normali non bellissimo ma manco da bruciare in pubblico, con cui finì dentro a certe colonne sonore dell’epoca (sono sicuro di Paradiso Perduto, ma mi sembra pure qualche action famoso che ora non ho voglia di controllare) e vendette qualche centinaio di mila copie che bastarono a fare massa critica guadagnandogli la fama di autore sottovalutato. Mentre Kim Thayil si mette a cazzeggiare con Krist Novoselic e Jello Biafra in un gruppo messo insieme per suonare alla protesta di Seattle del 2000, Zack De La Rocha esce dai RATM e viene rimpiazzato da un Cornell in botta da rocker politico: terribile il video di Cochise, bracciatone tra amici maschi e fuochi d’artificio. Con gli Audioslave, considerati da qualcuno la peggior cosa della musica negli anni duemila, poteva andare comunque molto peggio. Vengono salvati armi e bagagli dall’inserimento di loro brani in momenti particolarmente poetici dei due più bei film di Michael Mann, ma già all’altezza del secondo disco i membri non si parlano. Chris Cornell, a questo punto la voce più presente nei film americani del decennio, fa capolino con un quasi-terrificante brano da solista nei titoli di testa di Casino Royale, il più bel James Bond dai tempi di Sean Connery (più o meno). Poco dopo esce con Carry On, secondo disco solista che fin dal titolo invita i non più così numerosi fan a tenere pazienza. Già a questa altezza i tempi sarebbero maturi (AKA: lo stan facendo già cani e porci) per una reunion dei Soundgarden, ma mentre Thayil continua a vivacchiare e Ben Shepherd racconta tranquillamente di essere sul lastrico, Matt Cameron è diventato il batterista storico dei Pearl Jam (la cui scelta di ostinarsi a fare rock babbione per fan babbioni, in prospettiva, è la più encomiabile) e Chris Cornell decide di provare a fare un disco con Timbaland: su disco l’accoppiata funziona ancora meno che sulla carta, nonostante le dichiarazioni entusiaste dello stesso Timbaland all’uscita. Il disco esce davvero, si intitola Scream e viene sepolto dalle risate di quasi chiunque. Nove mesi dopo iniziano i primi annunci di una reunion dei Soundgarden. Un live e un brutto pezzo per la colonna sonora di The Avengers e sono tutti in attesa del disco nuovo.

King Animal esce in questi giorni. La musica è straordinariamente simile a quella di Down on the Upside: rock’n’roll da birreria, pezzi melodici-ma-cafoni, metà del materiale la potresti tranquillamente buttar via e l’altra metà è buona giusto per un riascolto. Nel corso degli anni ho sviluppato un tale odio per Cornell e i Soundgarden da essermi prefigurato il più rovinoso disastro della storia della musica. Non è così, naturalmente: King Animal, nel suo non avere pubblico fuori da quelli che hanno la rotella del tuner impostata fissa su Virgin Radio e riescono a distinguere i gruppi che vengono passati, è un prodotto piuttosto professionale e ben confezionato. Per certi versi sarebbe anche scemo accusare i Soundgarden di sellout: non si fossero messi a sfornare singoli a ruota verso il ’94, oggi li ricorderemmo come degli Screaming Trees qualsiasi. E soprattutto King Animal ha un boost e una messa in piega così vecchia scuola da lasciarti almeno in bocca la sensazione, quando lo ascolti, di avere avuto tutto quello per cui hai sborsato i soldi (che se ci si pensa è una sensazione molto Audioslave). Rimane comunque il fatto che con tutto lo scintillio di mezzi coinvolti, King Animal non dispensa nemmeno quel piacere colpevole di metterlo su e sentirsi diciottenne per una mezz’oretta. Ascoltando una Been Away Too Long, anzi, penso di non essermi mai sentito così vecchio.

Il listone del martedì: CINQUE COSE SUL CONCERTO DEI REFUSED DOMENICA SERA

Domenica sera i Refused hanno suonato a Bologna il loro primo reunion-show da headliner. Io ho pisciato il concerto per via del prezzo del biglietto. Il nostro amico Capra, persona bella e fiancheggiatore di lungo corso, era presente e ci manda un report fedele ed esaustivo.


1.
Parlare del concerto dei Refused a Bologna non può esimersi dal trattare la questione gordiana del “È-giusto-che-i-Refused-facciano-una-reunion-e-che-si-debba-pagare-30-euro-per-vederli?”
La questione non mi tange granché. Se sia giusto che i Refused tornino a suonare sarà una roba che penso riguardi solo loro. Se sia giusto pagare 30€ per andarli a vedere all’Estragon, penso non sia un problema esageratamente intricato, e l’alternativa che si pone è di una banalità lapalissiana: se pensi ne valga la pena, li paghi. Se pensi non ne valga la pena, non li paghi.
Il discorso, per quanto mi riguarda, si può estendere alla musica intera.
Star lì a maramaldeggiare il fianco scoperto di quelli che, come me, erano in fotta per vedere suonate dal vivo alcune delle canzoni più ascoltate negli ultimi 10 anni, facendo filippiche su tematiche varie tipo “lo fanno solo per i soldi”, “non sono più quelli di una volta”, “lo fanno per i soldi perché non sono più quelli di una volta”, etc, mi par cosa sgraziata e impietosa.

1 bis.
Era da tanto che volevo iniziare un live report usando almeno quattro parole entrate nel linguaggio più o meno comune che derivano da nomi propri. Nella fattispecie:
GORDIANA: dal nodo inestricabile che era nel carro del re Gordio: un oracolo prometteva i dominio di tutta l’Asia a chi lo avrebbe sciolto. Si dice di qualsiasi questione intricata e difficile a sciogliersi se non tagliando risolutamente, come appunto fece Alessnadro Magno col nodo gordiano.
LAPALISSIANA: di verità evidente, che è inutile o ridicolo enunciare; e dicesi dal nome di un guerriero, La Palisse, francese, alla cui morte fu pubblicata un’ode, per esaltarne i valore, che conteneva appunto una di tali ridicolaggini.
MARAMALDEGGIARE: infierire sui deboli o sui vinti; da quel Fabrizio Maramaldo che, dopo la battaglia di Gavinana (1530), uccise di propria mano Francesco Ferrucci già gravemente ferito.
FILIPPICA: nome delle orazioni di Demostene contro il re Filippo di Macedonia; invettiva, discorso violento di accusa contro qualcuno

2.
Il pubblico che c’era l’altra sera si poteva dividere tra:
– i deboli, quelli che non potevano fare a meno di vedersi i Refused dal vivo almeno una volta nella vita
– i curiosi, generalmente attorno al mixer o dietro quest’ultimo
– i giovani
– gli ignoranti, quelli che pensano che i Refused siano una band come un’altra che quest’anno sta suonando abbastanza e una capatina forse la meritano

3.
Cosa ha dato fastidio al concerto dei Refused a Bologna?
3A) Il volume del master, roba del tipo che sentivi il cellulare se suonava. Quando sono andato a 2 metri dalle casse la storia diventava quasi onesta. Nel mezzo davanti al mixer al minimo dell’accettabilità. Ma chi va a vedere un concerto all’Estragon negli ultimi anni sa cosa aspettarsi. Se mi citi il concerto dei Cannibal Corpse all’Estragon non vale un cazzo.
3A bis) Da qui alcuni dettagli quali non si sentivano i piatti, i suoni della batteria erano mosci, etc.
3B) Le filippiche (sic!) del cantante tra un pezzo e l’altro.
Voglio dire: il cantante dei Refused al suo concerto può dire quello che gli pare. Semplicemente quello che dice in gran parte non mi tange. Se si vuole dissertare sul fatto che fare discorsi tipo “La nostra rabbia in Nord Europa non veniva compresa, ci si chiedeva spiegazioni. In Germania veniva capita e ne volevano sapere di più. Ma qua voi la capite benissimo, perché è anche vostra etc”, oppure “Rimanete curiosi nella vita. Rimanete affamati, specialmente a Bologna”, oppure “Ribellatevi a chi vi impedisce di essere liberi etc Free Pussy Riot etc”, possa risultare fuori luogo, parliamone.
Sentire parlare bene in inglese comunque è sempre un piacere per me.
La mia opinione a riguardo comunque è questa: mi sono sembrati sinceri. Se dici cose che non mi interessano non significa che stai mentendo. Se dici che le tue idee sul capitale e quant’altro non sono cambiate da quando eri venuto a Bologna nel 1994, posso anche crederci. Non vedo un conflitto insanabile tra il fatto di essere anti-capitalisti e fare una reunion per tirare su un po’ di soldi. Se il biglietto fosse costato 15€ sarebbero stati più coerenti? Se non avessero affidato la gestione a LiveNation sarebbero stati meno immanicati? Può darsi, ma non possiamo sapere con quanti soldi ognuno di loro se ne ripartirà da Bologna dopo il concerto dell’altra sera. Quello che penso io? A vedere dal numero di persone che lavorava per loro, dal pullman dietro il backstage, costi di agenzia, affitto locale, etc, direi non più di 1.000€ a testa.

4.
Il concerto.
Andare al concerto dei Refused è una di quelle cose che ti fanno sentire vecchio perché in macchina non devi ripassare niente. Qualsiasi pezzo faranno lo sai alla perfezione, potresti quasi suonarlo. Io per esempio mi sono ascoltato l’ultimo dei Converge lungo il tragitto, sia all’andata che al ritorno.
Il concerto è stato perfetto. Non mi aspettavo nient’altro. Ogni nuovo brano in scaletta era il benvenuto. Se a 40 anni suonati sarò così anch’io mi faccio erigere un busto di marmo in giardino. La cosa che mi ha lasciato un po’ così, è stata una discreta sensazione di apatia una volta finito il live. Una via di mezzo tra l’andare di corpo e compilare un bollettino della SIAE. Una sensazione come di qualcosa di necessario, che andava fatto, ma che subito dal mio stomaco veniva rubricato come burocrazia.
A distanza di 24 ore la sensazione è cambiata.
Ora so che quando, tra un paio di settimane o poco più, riascolterò qualcosa dei Refused, non saranno solo canzoni incastrate in qualche ricordo di quand’ero più giovane, non saranno solo dei pezzi che dopo 10 anni ancora non mi stancano; avranno delle facce di quarantenni sorridenti, avranno camice bagnate indosso, avranno un concerto che rinnova il ricordo, avranno un ricordo in più che rinnova il sentire.

5.
Note di costume
5A) “Per la prima volta in vita nostra abbiamo un banchetto con le magliette non originali fuori da un nostro concerto. Siamo una vera band”
5B) il gruppo spalla ha paccato. Dal palco il cantante ha detto che hanno provato a chiamarne un altro da Bologna (ditemi chi) ma non era in regola con le tasse. Il che probabilmente significa che non avevano una posizione ENPALS aperta come musicisti. Personalmente non conosco nessuno che suoni che ha una posizione ENPALS come musicista; oppure lo conosco ma non me l’ha mai detto
5C) l’unico paninaro presente ha fatto un fracasso di dollaroni
5D) la media di persone che suonano o hanno suonato in gruppi con le chitarre era altissima
5E) la lista degli invitati stilata dai Refused era così lunga che quei simpaticoni di LiveNation hanno cancellato un sacco di accrediti all’ultimo minuto
5F) la fila era al bagno degli uomini