Il juke-box del suicidio

L’altro giorno Reje mi ha scritto che era uscito il nuovo dei Canaan. È una specie di rituale: Canaan e Colloquio sono i nostri Beatles e Rolling Stones, e la data esatta di uscita del nuovo disco è un evento da segnare sul calendario. In questo, Reje è sempre stato sul pezzo molto più di me, controllando quotidianamente il sito della Eibon – unica fonte per notizie di tal genere – e guai a sgarrare, con la perseveranza e la devozione che solo chi è stato un fan maniacale può conoscere. Quando è uscito l’ultimo dei Colloquio mi ha addirittura telefonato. Io, onestamente era da un po’ che avevo mollato il colpo, anche solo per una banale questione di autoconservazione: avessi continuato a sottoporre la mia mente e il mio fisico all’ascolto reiterato di quei dischi, a quest’ora non sarei qui a scrivere ma sotto un cipresso a farmi divorare anzitempo dai vermi. La ragione è che i Canaan (e i Colloquio, e i Neronoia, che è un progetto in cui confluiscono Canaan e Colloquio, il che è come dire morte più morte) avevano (hanno) il potere di amplificare ben oltre il limite dell’umanamente tollerabile una gamma di sfumature della tristezza virtualmente inesauribile.
Chi non ha mai sentito una canzone dei Canaan finora si è perso una delle colonne sonore migliori per i momenti (o giorni, o mesi, o anni, o vita) di disperazione più nera e dolore mentale più puro, senza filtri né barriere di sorta. Il leader e compositore principale del gruppo, Mauro Berchi, è un professionista della depressione; la sonda, la misura, la abita probabilmente da sempre, l’ha analizzata e vivisezionata instancabilmente, per anni, in lunghe interviste che somigliano piuttosto a esaurienti trattati di psicanalisi, l’ha plasmata a proprio piacimento (si fa per dire) lungo canzoni e dischi che sono la voce di chi la speranza l’ha già persa da un pezzo ma che comunque, per ragioni che ignoro, non riesce a farla finita, l’ha incanalata, attraverso una serie cruciale di uscite-chiave, in una piccola etichetta discografica che è stata un autentico faro nella notte senza fine degli afflitti, i deboli e gli umiliati (ma solo quelli con gusti musicali tendenti al dark più tetro, all’ambient più opprimente e al power electronics più molesto). Dopo aver subito un disco dei Canaan anche aver vinto alla lotteria sembrerà una disgrazia insormontabile. È roba pericolosa, roba che avvelena l’anima, che entra dentro la carne come una coltellata, ed è roba a cui – vai tu a sapere per quali masochistici motivi – non riusciamo a fare a meno.
Credevo di essermi liberato dell’allucinante cappa oppressiva dei Canaan dopo The Unsaid Words, disco che stranamente sentivo ‘distante’, che non mi rispecchiava al 300% come gli altri, e allora avevo lasciato perdere, avevo cercato altrove, ero perfino arrivato a dimenticarmi della loro esistenza dopo il secondo Neronoia; per alcuni mesi sono sicuro di non avere mai, nemmeno per un istante, pensato ai Canaan. Ma è impossibile cambiare quel che siamo, ecco perché non appena Reje mi ha scritto che sul sito della Eibon erano stati caricati due samples del nuovo album dei Canaan mi ci sono precipitato, e poi ho ritirato fuori l’intera discografia e me la sono sucata tutta dall’inizio alla fine, da Blue Fire a The Unsaid Words (che peraltro mi ha dilaniato come mai prima), un tour de force assolutamente scriteriato nelle pieghe dello stare male gratis, l’ultima idea che dovrebbe venire a un essere umano anche solo parzialmente sano di mente se non come anticamera del suicidio. Il prossimo step si intitola Contro.Luce, ed è una tortura a cui non vediamo l’ora di sottoporci. Non lo consiglio soltanto perché non vorrei cadaveri sulla coscienza, però insomma, sapete cosa fare.

L’agendina dei concerti Emilia Romagna – 11-17 ottobre

Allegria...

 

Nascondete pistole, coltelli, lamette da barba, corde e cavi resistenti di ogni genere, sigillate le prese di corrente e cercate di tenervi lontani dai fornelli: Matt Elliott è in città. E siccome l’uscita del nuovo album – di nuovo a nome Third Eye Foundation dopo un letargo della trip-hoppeggiante ragione sociale durato una decina d’anni (probabile Tanto se ribeccamo nell’immediato futuro se mi girano) – è rimandata al mese prossimo, è più che probabile che questa sortita sia finalizzata ad annichilirci definitivamente con un’ultima letale passata delle sue ‘Songs’; si comincia domani sera in Romagna per una data di cui non so assolutamente nulla a parte che il concerto si terrà a Santarcangelo, il consiglio che posso dare è di contattare l’organizzazione nella speranza di racimolare ulteriori informazioni. Quel che invece è certo è che mercoledì 13 suonerà al Clandestino a Faenza, gratis a partire dalle 22 (giovedì invece sapete dove l’han messo? Al Forum di Assago. Probabilmente per il LOAL) .
Comunque vada, giovedì 14 si torna a desiderare il dono dell’ubiquità: all’XM24 1400 Points de Suture e Night Terrors (dalle 22, quattro euro), al TPO la prima data dei riformati e più pisellanti che mai One Dimensional Man performing the album You Kill Me (dalle 22, dovrebbero stare sui dieci euro), i Calibro35 alle Scuderie (so soltanto che inizia alle 21.30, capace che chiedono anche qualcosa) e perfino il redivivo RAUM riapre i cancelli per ospitare nel suo sciccoso salotto tre live da paura, ovvero Lasse Marhaug, Lorenzo Senni e quel cazzone di Mattin (non azzardatevi ad applaudire al termine del suo set, a meno che non vogliate essere coperti di insulti dal diretto interessato). Se avete una vista portentosa le info al riguardo stanno sul cibernetico sito del locale, altrimenti potete pure cavarvi gli occhi come è successo a me.  Per i più spirituali in bolletta sparata c’è anche Lindo Ferretti alla chiesa di Sant’Agostino a Imola, gratis, dalle 21.
Venerdì il reducismo assume nuovi e inquietanti significati al Covo con i Levinhurst, ovvero il gruppo di Lol Tolhurst e consorte più Michael Dempsey, ovvero lo sfigato che ha suonato il basso in Three Imaginary Boys (e pure portasfiga: finirà poi negli Associates, nei Lotus Eaters e perfino nei Roxy Music di Avalon, tutti gruppi che si scioglieranno poco dopo il suo arrivo); inizio ore 22, per conoscere il prezzo bisognerà interrogare gli aruspici. Magari si riesce pure a fare la doppia: appena finito il concerto di corsa al Decadence, suona Simone Spiritual Front Salvatori. Quindici euro e dresscode obbligatorio, e se va fatta bene si rimedia pure una sega nella dark room. Altrimenti, tutti al Naima assieme a Dente Di Fata a sentire gli Iron Butterfly (venti euro: onesto), o a Reggio Emilia al Teatro Valli per Diamanda Galas (20.30, biglietti da diciassette a trenta euro).
Sabato ancora al Covo con Bologna Violenta (dalle 22, per il prezzo si dovranno decifrare le interiora di animali), altrimenti ci sono i Dillinger al Vidia (coi cafonissimi Cancer Bats di supporto, inizio ore 21.30, biglietti ventidue euro), Paul Di’Anno a Scandiano (dalle 22, l’ingresso dovrebbe stare a sette pidocchiosi euro… siateci!), oppure una bella gragnuolata di zozzo d-beat alla vecchia al Nuovo Lazzaretto con Deathraid + Kontatto (dalle 22, cinque euro).
Domenica ancora Matt Elliott, questa volta al Mattatoio a Carpi. Per chi sopravvive, ci risentiamo settimana prossima.

Gruppi con nomi stupidi: AN AUTUMN FOR CRIPPLED CHILDREN

 

 
Campioni di buon gusto: il loro nome tradotto suona più o meno come “Un autunno per bambini azzoppati“, e l’artwork di lancio dell’esordio Lost è tutto un tripudio di carrozzelle disseminate in androni malmessi che ricordano l’inizio di Session 9 e foto di bimbi tumefatti da mandare in fregola preti sadici. Loro sono olandesi e si nascondono dietro foto sfocate sile primi In The Woods e sigle da codice fiscale: txt al basso, cxc alla batteria e l’eclettico mxm ad occuparsi di voce, chitarra e tastiere. Sul loro myspace han messo metà album, tre tracce più il naturalistico video di I beg thee not to spare me che raccontano di un depressive black metal con innesti doom sulla scia degli ottimi Austere ma con registrazione ignobile. Gli ingredienti sono gli stessi: chitarre zanzarose o languide a seconda dei momenti, urlacci da gemello deforme rinchiuso in cantina, tupa-tupa-tupa-tupa di batteria che pare provenire da una catacomba, su tutto un senso di malinconia avvolgente e contagioso, malinconia che diresti autentica. Poi dai uno sguardo ai titoli delle canzoni – To Set Sails to the Ends of the Earth, Tragedy Bleeds All Over the Lost, In Moonlight Blood is Black, financo Gaping Void of Silence e per chiudere addirittura Never Shall Be Again – e cominci a chiederti se ci sono o ci fanno. Nel dubbio, aspettiamo di vederli suonare come special guest alle Paralimpiadi.

Tanto se ribeccamo: SWANS

 

Si riformano gli Swans. Che già detta così è come imparare che Gesù Cristo ha deciso di fare un nuovo tour promozionale, a 55 anni, per festeggiare il ventennale della sua crocifissione. Il problema poi è che, di fatto, dei vecchi Swans (di qualsiasi incarnazione dei vecchi Swans) nella attuale formazione c’è solo Norman Westberg; gli altri sono tale Chris Pravdica dei Flux Information Sciences (una delle band più interessanti del catalogo Young God ma che c’entra con gli Swans quanto Rocco Siffredi con il catechismo), Kristof Hahn, bassa manovalanza per quindici minuti nell’era di mezzo e anonimo strimpellatore con gli Angels Of Light, Phil Puleo, batterista nel final tour poi anch’egli Angels Of Light, infine il possente e neanderthaliano Thor Harris, fido scudiero di Gira negli Angels Of Light. In pratica, gli Angels Of Light sotto mentite spoglie. Manca Jarboe, che è come se se i Ministry si riformassero senza Paul Barker. Se tornassero insieme Bob Mould, Greg Norton e un frocio paffuto al posto di Grant Hart e pretendessero di chiamarsi Husker Du. Manca Bill Rieflin, manca Algis Kizys, manca Roli Mosimann. Mancano “spalle” fondamentali come Jonathan Kane, Vinnie Signorelli o Ted Parsons, ognuno a modo suo assolutamente determinante nel definire via via una nuova fase del suono Swans. La differenza tra questo e uno qualsiasi dei progetti recenti di Michael Gira? Il nome, soltanto il nome, capace di evocare lancinanti quanto subdole nostalgie ai reduci e al tempo stesso far sborrare nei pantaloni imberbi festivalieri pieni di grana che si eccitano al solo pensiero di poter dire io c’ero all’ennesimo triste baraccone come eravamo per mongoloidi senza una vita propria, come se bastasse un penoso revival a compensare l’appuntamento mancato con la vita. In tutto questo non c’è da biasimare l’uomo, anzi bisogna capirlo: quando aveva un senso gli Swans non se li inculava nessuno, ora è anche giusto che passi alla cassa con la reunion accontentaidioti performing the album White Light from the Mouth of Infinity al Primavera del cazzo. Glielo auguro, di fare il giro dei festival estivi più danarosi e remunerativi, se lo merita, è il minimo risarcimento per quindici anni di sangue e lacrime e rospi ingoiati in seno agli Swans, e quasi altrettanti di irreprensibile operato in quell’infernale incubo che è l’industria musicale (la sua Young God resta uno degli esempi più commoventi di integrità, autogestione e visione personale dopo la Dischord). Tanto i dischi non li compra più nessuno, e il mondo è pieno di mentecatti che alla fine è giusto spremere: con l’onestà e la coerenza non ci paghi le bollette. A ognuno il suo.

Tanto se ribeccamo: Count Raven

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Da sempre, dire Count Raven equivale a evocare un culto sotterraneo, quasi dimenticato dai più quanto, al contrario, sempre vivo e presente nei cuori degli iniziati; di quel minuscolo fuoco ardente che fu la scena doom dei primi anni novanta i Count Raven erano la fiamma che bruciava con più convinzione nelle retrovie, lontani dagli onori giustamente tributati ai colossi Saint Vitus e Obsessed quanto dalla (comunque spesso apprezzabilissima) manovalanza di meteore quali Unhorthodox, Wretched o Year Zero. Fieramente detentori di un suono ultraclassico, immediatamente catalogabile eppure allo stesso tempo personalissimo e inimitato, riuscirono a isolare la componente più ancestrale, sulfurea e perversamente esoterica dell’heavy rock sintetizzato dai Black Sabbath nei primi cinque dischi amplificandone a dismisura l’effetto straniante e la portata angosciosa, grazie anche alla voce (dal secondo disco in poi) del leader, chitarrista e compositore unico del 99% del materiale, Dan “Fodde” Fondelius, che dell’Ozzy più sguaiato, smodato e intemperante era qualcosa come il clone maligno e spietato. Quattro album emessi tra il 1990 e il 1996 sono le pietre angolari del culto, a svettare tra essi High On Infinity (1993), che porta in sé le stimmate del capolavoro: in una spirale senza fondo di angosciose visioni e fantasie malsane, il gruppo forza la mano a una serie di suggestioni morbose dell’animo rendendole realizzabili (e realizzate), ridefinendo in toto il concetto stesso di “ossianico”. Nel 1996 l’ultimo atto Messiah of Confusion, penalizzato da una copertina francamente rivoltante (una foto virata in rosso di un teschio umano intasato di vermi e sterpaglie, accanto al titolo un’immagine di Charles Manson ripetuta tre volte in diverse tonalità), comunque efficace nel riproporre una nuova galleria degli orrori con efficacia e persuasione del tutto intatte, tra invocazioni ad allucinanti divinità addormentate e deliranti profezie da fine del mondo imminente. Poi più nulla, a seguito del tracollo di Hellhound, la storica etichetta berlinese che in quegli anni fu un vero e proprio faro catalizzatore dell’intero movimento, e di cui i Count Raven erano finiti per diventare le “teste di serie” più importanti subito dopo Saint Vitus e Obsessed. Lo stesso doom sound oscuro e irrimediabilmente “fuori dal tempo” di cui quelle band erano state portabandieta per più di un lustro quasi sparisce dalla circolazione, sorpassato a destra dallo sludge di scuola americana e a sinistra dall’allora nascente ma già virulenta scena stoner; sembra siano passati secoli. Nel 2003 la macchina torna a funzionare grazie a un’inaspettata reunion per una brevissima serie di date live. Si direbbe poco meno di un estemporaneo revival, senonchè Fondelius rientra in possesso dei master originali e, tra il 2005 e il 2006, ristampa l’intera discografia (cambiando il solo artwork di Messiah of Confusion, sostituendo l’immagine di copertina con una più canonica panoramica cimiteriale), nel frattempo totalmente scomparsa dalla circolazione; iniziano a circolare voci riguardanti un nuovo album sotto la sigla Count Raven (Fondelius aveva nel frattempo formato una nuova band, Doomsday Gouvernment, di cui fisicamente esistono giusto un paio di tracce incluse su compilation letteralmente introvabili), ma il marchio scompare di nuovo a metà 2006, e il silenzio sembra questa volta definitivo. È recente la pubblicazione per I Hate Records di Mammons War, inatteso e in un certo senso imprevisto ritorno con un lavoro di inediti, il quinto, proprio quando ricorre il ventennale della band – che ormai è un’esclusiva del solo Fondelius, unico superstite della formazione originale. Il disco è BELLO, di quella bellezza che deriva dalla ripetizione di un canovaccio la cui comprovata efficacia non teme lo scorrere del tempo; nuovamente capace di trasportare l’ascoltatore in una dimensione parallela, onirica e misticheggiante, punteggiata delle solite farneticanti divinazioni (Seven days, The poltergeist), allucinanti visioni (la sconvolgente title-track, To kill a child, che pure torna sul luogo del delitto, dove in Children’s holocaust – da High on Infinity – si parlava di “sodomizzare i propri figli“…) e sgangherate dichiarazioni d’amore a entità non si sa quanto evanescenti (Nashira, uno dei momenti più belli dell’intero album), Mammons War nel suo incedere poderoso e meravigliosamente prevedibile perpetua in sé l’incrollabile tenacia e tutta la fiera austerità dei culti minori.

Inizia oggi una nuova rubrica di Bastonate, si chiama Tanto se ribeccamo e parla di reunion strampalate, rabberciate, inattese.