La rubrica pop di Bastonate: CENTIPEDE HZ (o parlare degli Animal Collective con un tono tipo “non ne ha parlato nessun altro prima d’ora”)

La sfida di oggi è a scrivere del nuovo disco degli Animal Collective senza usare le parole droga, psichedelia, freak, postmoderno e cancelliere. Per l’ultima parola sarà abbastanza facile. La carriera degli Animal Collective si divide più o meno in due periodi, il primo va più o meno fino a Feels e il secondo parte dal disco dopo. In questa parte della carriera degli Animal Collective, ancora in corso, Panda Bear e soci sono più o meno accettati da chiunque come un gruppo pop di buon successo (non sappiamo quanto buono, immagino vendano sulle duecentomila copie per ognuno degli ultimi dischi, la sto sparando) che spara singoli da consumarsi preferibilmente entro il mese e che suonano giusto un po’ più stupidi e cerebrali contemporaneamente del resto del pop. La principale differenza tra la prima e la seconda parte della carriera della band è che durante la seconda s’è interessata al gruppo una serie di media che prima non ci volevano avere a che fare manco previa sterilizzazione del CD. Per il resto gli Animal Collective sono un gruppo di successo da Here Comes The Indian, da Here Comes the Indian hanno contribuito attivamente a sviluppare un discorso musicale che segnasse un’evoluzione rispetto al passato e ci desse la possibilità di ascoltare musica che non ascoltavamo prima (qualcuno ha anche provato a trovare paragoni con qualche scoppiato che suonava macchinette e strumenti autocostruiti dagli anni sessanta in poi, ma il discorso non regge), il tutto in clamorosa controtendenza rispetto alla logica del risuonare quello che non sembrava essere stato ascoltato a sufficienza negli anni in cui usciva, che sommata alla cultura dell’hip ad ogni costo ci ha omaggiato di dieci anni di musica uguali a un mercoledì mattina poco ispirato di Ian Curtis all’ufficio di collocamento. Lunga storia, e insomma la grammatica non aiuta. Questo pezzo d’altra parte non vorrebbe parlare del nuovo disco degli Animal Collective, perché il nuovo disco degli Animal Collective è pitchforkianamente un 7.7, senza infamia e con diverse lodi, tutti a casa.

Questo pezzo in realtà vorrebbe parlare del pop della nostra epoca, ma non ho voglia di avventurarmi in una tegola di seicentomila battute per fare contenti i troll che mi accusano, peraltro a ragione, di fare uso del blog per supplire alla mancanza di figa e credito intellettuale. Ora, siccome più o meno tutta la musica che gira oggi è musica popolare, cerco di restringere il mio discorso a un paio di cose che non c’entrano con la musica popolare e portare a casa il pezzo perché come sembra davvero da questo capoverso non ho niente di particolare da dire e anzi mi scappa da pisciare. Voglio quindi che il nostro sterminato pubblico di lettori immagini che da quando sarò andato a capo sarò andato in bagno e il mio stato d’animo sarà molto meno urgente e infastidito.

Una cosa che non trovo più nei dischi è la capacità di identificarmici e stupirmi. Voglio dire, è la cosa che a un certo punto mi ha fatto innamorare dei dischi. Avevo deciso che avrei ascoltato IL ROCK perché volevo fare la figura di uno che voleva emozioni forti, ma se non avessi provato una sensazione stile questa roba l’hanno fatta uscire dalla mia testa che ho avuto ascoltando cose tipo i Dead Kennedys, nella vita probabilmente avrei fatto qualcosa di molto più importante che spulciare i negozi al sabato pomeriggio in cerca del disco definitivo a dieci euro. Naturalmente il fatto che noi vecchi non si provi più quel tipo di emozione non è colpa dei gruppi, è colpa nostra. Abbiamo ascoltato troppa roba e ci siamo bruciati tutte le possibilità. Una cosa che trovo ancora qualche volta, ma sempre di rado, è una sensazione diametralmente opposta, cioè quella di ascoltare un disco e pensare che questi qua fan solo delle scelte sbagliate. Sbagliate vuol dire scelte che non farei io. Hai un bel riff di chitarra e aggiungi dei violini, eccetera. La maggior parte delle volte sono errori dei gruppi, scelta di un produttore sbagliato, aspettative diverse dalle mie e simili. A volte sono esperimenti curiosi che mi viene da abbandonare. Altre volte è la struttura della musica a prevedere lo smarrimento dell’ascoltatore, penso al freejazz e roba simile. Gli Animal Collective sono dei bruciati che si spaccano il culo su un formato che non riuscirei mai a concepire e tirano fuori dischi che sono simili l’uno all’altro e sempre diversi da quello che una persona ragionevole si aspetta. Centipede HZ è ancora un disco che è impossibile definire di maniera, un po’ perché i pezzi tirano tutti da una parte diversa e un po’ perché gli Animal Collective potrebbero (a ragion veduta) mettere insieme un disco con cinque canzoni-cassa alla Summertime Clothes da suonare alle feste per la gioia di quelli della scena (ma anche io per dire sarei contentissimo) e continuano, non si sa bene per quale motivo, a tirare dalla parte di un pop acido stile ultimi Beach Boys destrutturati in provetta CON variazioni sul tema. Il lavoro di ricerca dietro la musica di Centipede HZ sembra essere così monumentale e lungo da permettere in prospettiva a chiunque altro di concepire qualsiasi arrangiamento. E sì, è chiaro che alle condizioni attuali di popolarità del gruppo fratto tipo di appassionati che contribuiscono a tale popolarità, il fatto di non accontentare il loro pubblico è senz’altro il modo migliore di accontentarlo. Ma mi risulta comunque difficile pensare a un gruppo che definisca la propria epoca nel tentativo di definire se stesso, usando tra l’altro il più basso grado di arroganza possibile in queste condizioni.

Alla fine della fiera mi sento davvero piuttosto bene quando esce un disco degli Animal Collective. Se me lo chiedessero puntandomi una pistola alla tempia direi che i miei AC preferiti sono quelli di Sung Tongs e Here Comes the Indian, ma a tutt’oggi mi fanno provare sensazioni che tra un disco degli AC e l’altro mi scordo di essere in grado di provare. Insomma, alla fin fine tutti i discorsi che sto leggicchiando sulla maniera e sul fatto che abbiano rotto il cazzo da un punto di vista storico e culturale, un topos critico che ho imparato ai tempi del terzo disco degli Oasis senza capirlo.

PS: YEA, nemmeno una volta.

Navigarella: GIORNALISTI MUSICALI VS. NEMICI DELLA MUSICA

Lana del Rey ha cantato dal vivo una versione non disprezzabile di Heart-Shaped Box, e quando dico non disprezzabile intendo dire in realtà darsi fuoco. Mentre la rete si divideva più o meno a metà tra colpevolisti a prescindere e innocentisti a prescindere (tutto si può dire di Lana del Rey meno che non sia stata coerente nel non far nulla per farsi odiare da chi la ama o farsi amare da chi la odia, in questo vera popstar-chiave del nostro millennio), Courtney Love ha detto una cosa su twitter tipo AHAHAH STAI CANTANDO UNA CANZONE SULLA MIA FIGA. Continuano le celebrazioni della morte di Kurt Cobain.

C’è una prima anticipazione del nuovo disco degli Animal Collective, uno dei pochi gruppi bolliti da anni e anni che in realtà no. Anche il disco nuovo sembra poterci piacere molto.

Sta per uscire il secondo disco della Corin Tucker Band. Il primo disco della Corin Tucker Band è una delle pochissime testimonianze audio del fatto che si possa fare musica rock normale senza necessariamente venire inclusi in un gruppo di spocchiose teste di cazzo che fanno musica rock mimando un anacronistico ritorno alla normalità nel disperato tentativo di venire considerati un nuovo trend di gente a cui forse non frega un cazzo di niente ma io guarderei bene cosa c’è sotto (cosa che tanto per dire non è riuscita alle molto più considerate Wild Flag, cioè le ex-Sleater Kinney senza Corin Tucker, autrici di un disco brutto e triste in culo su cui si è sviluppato un minuscolo hype un paio d’anni fa). Il secondo disco della Corin Tucker Band, a giudicare dai primi due estratti, promette d’esser quasi meglio del precedente, e meno male che ci sono i volti nuovi di vent’anni fa ad indicare nuove strade da percorrere ai volti nuovi di adesso.

A proposito di anacronismo, c’è un flame molto divertente sul facebook di Edoardo Bridda. Edoardo Bridda sarebbe il boss o uno dei boss di SentireAscoltare. Sulla sua pagina ha postato il link a una recensione di Ondarock dei Wild Nothing uscita (a quanto pare) un mese prima del disco. Lamenta il fatto che quelli di Ondarock si sono sempre dichiarati contrari a questa cosa e via di questo passo. Nei commenti al post si scatena una specie di guerra delle coscienze, interviene perfino Claudio Fabretti con un tono tipo “io sono il boss di Ondarock, sono intervenuto qui ma ora c’ho degli altri cazzi da fare e comunque di quel che fate voi me ne frego”. In realtà è lo scontro tra due modelli di giornalismo musicale: il primo si sbatte a duemila per essere sempre sul pezzo, il secondo si erge a roccioso bastione del mercato musicale tradizionale, supporta etichette distributori e artisti e se ne va per la sua strada. La cosa più tenera è farsi il viaggio e pensare che dietro tutto questo ambaradan ci sia una lotta senza esclusione di colpi per diventare il web magazine italiano più influente della storia E una recensione arrivata un mese prima influenza irrimediabilmente l’ascolto, bruciando la recensione dell’altro sito e determinando in maniera indelebile il gusto dell’ascoltatore in merito al disco dei Wild Nothing. Bridda mette il tutto sotto forma di domanda: e voi cosa farete? Pubblicherete la recensione dei Wild Nothing in questi giorni o quando sarà uscito il disco? Difficile a dirsi, ma immagino che Bastonate non pubblicherà la recensione del disco di merda dei Wild Nothing, parlo senza averlo ascoltato MA avendo letto la recensione di Ondarock, prima della data di uscita ufficiale. Né dopo, credo, ma non si può mai dire. Ho scritto cose per entrambe le webzine, una parte del mio passato che non ricordo con orgoglio.

 

E dato che abbiamo iniziato a rompere i coglioni alle webzine, andiamo con una rapida rassegna di recensioni italiane del nuovo disco dei Baroness. Ora, il disco per quanto mi riguarda è una ciofeca prog anni settanta suonata con un briciolo di gusto e senza un briciolo di botta, con un approccio tipo “ora ti spiego il post rock e tu lo capirai anche se metallaro e ignorante” (che dopo dieci anni di Neurosis in tutte le salse mi sembra pure un po’ patetico). L’elenco serve a dimostrare quanto e come un disco per il quale è in corso un PLEBISCITO (di quelle che ho letto la stroncatura più violenta è quella di metalitalia, in numeri un 6,5) contenga in quasi tutte le recensioni un riferimento al fatto che è un disco che dividerà gli ascoltatori.

Intanto, il gruppo americano rimarrà vittima di un’antica contraddizione: se proponi sempre le stesse cose, sei monotono e pecchi di capacità evolutiva; ma se cambi strada e tenti qualcosa di nuovo, sbagli comunque e l’accusa è di aver ceduto la purezza artistica alle sirene del mercato. (metal.it)

“Yellow & Green” è quindi il disco che pone definitivamente i Baroness su un altro piano, rispetto al metal estremo e al post hardcore delle origini, e lo fa con lucidità e cognizione di causa, applicando strutture e concetti cardine della storia del rock al proprio stile originario, approdando a una sintesi stilistica inaspettatamente viva e fertile. (metallus)

Per ascoltare “Yellow & Green” ci vogliono orecchie nuove e maggiore sensibilità, bisogna riconoscere l’evoluzione del sound e i motivi alla base di questa scelta. Per gli scontenti ci sono sempre i dischi rosso e blu, per tutti gli altri “Yellow & Green” potrebbe essere un valido motivo per spendere ore e ore cullati dalla bellezza che solo la musica può offrire. (spaziorock)

grazie a una band come i Baroness è possibile che si inauguri una nuova stagione nel mondo della musica metal. Una stagione che dividerà, che creerà scompiglio, che farà perdere ai Baroness il pubblico più intransigente, ma farà loro guadagnare il rispetto di chi, anche dal metal, chiede un’evoluzione. Ed oggi, si dica chiaramente, i Baroness sono una delle forme più evolute di metal con la quale possiate confrontarvi. (sentireascoltare)

Non abbiate paura ad avvicinarvi a questo Yellow And Green: aprite la vostra mente ed ascoltatelo fino a farlo entrare in circolo dentro di voi, solo così riuscirete a mettevi in contatto con le anime di questa band eccezionale (che è vero non hanno ancora messo a fuoco perfettamente la propria strada, ma che sicuramente hanno dimostrato di sapersi mettere in gioco) (metallized)

Scandalo, capolavoro. Si sono venduti, anzi no, hanno fatto il loro miglior disco. No, no, è un album vergognoso, l’ho cestinato subito; però si sono rinnovati nel migliore dei modi. Stanno facendo come i Mastodon, sono meglio dei Mastodon. Abbiamo già sentito, e probabilmente sentiremo ancora a lungo, i pareri più disparati sul nuovo album dei Baroness, nome sempre più conosciuto che sta travalicando i confini del panorama sludge metal a cui era relegato. Alcuni giudizi ci sembrano affrettati, altri espressi con eccessiva presunzione, tanto perché al giorno d’oggi se non ascolti i Baroness sei un po’ “indietro” (però fino a pochi anni fa eravamo ancora quattro gatti a vederli, chi è indietro allora?) (gotr)

Il bello dei “nuovi” Baroness è, forse, anche questo: ascoltare capitolo per capitolo con viva e rinnovata curiosità, senza sapere bene dove porterà lo step successivo. Un genuino disorientamento che, se per alcuni sarà testimone di un decadimento mentale e qualitativo senza freni, per noi è il simbolo di quella decomposizione di cui in avvio: il salutare decesso dell’ordinarietà verso nuovi orizzonti, nuovi traguardi. (storia della musica, e questa è IMPORTANTE che ve la leggiate tutta, possibilmente sotto l’effetto di qualcosa)