MATTONI issue #18: THE ATOMIC BITCHWAX

Beccati questa Fritz Lang.

Eccolo dunque il colpetto da stronzo, la Prova Di Forza, la dimostrazione di prevaricazione gratuita e assolutamente non richiesta. Io ti spiezzo, il mio uccello è più grosso del tuo, e chi sarà mai questo Jimi Hendrix, io ho fatto 975.000 dollari l’anno scorso tu quanto hai fatto?, guarda come vado a canestro, il mio SUV è più ingombrante di una portaerei e inquina quanto Fukushima all’ora di punta, ho le palle grosse come cocomeri e mi sono appena scopato tuo padre. The Local Fuzz è la trasposizione in musica del teppista più antipatico e pieno di sé che alle elementari ti rubava la merenda umiliandoti fino alle lacrime durante la ricreazione; se fosse un film sarebbe Novecento (grandeur epocale e durata estenuante e bestemmie di bambini e cazzi barzotti di De Niro e Depardieu compresi), se fosse un libro sarebbe l’Ulisse, però lungo il doppio e senza punteggiatura. Somiglia piuttosto a un film porno o a una partita di calcio infinita, gesto atletico allo stato puro, con la differenza che qui è divertente: quarantadue minuti di stoner blues rock psichedelico e tastierato alla vecchia, un monumento al fuzzbox che Mark Arm al confronto è un dilettante piagnucoloso, motivato e animato da una carica di testosterone come manco un plotone di camionisti in un bordello dopo un viaggio non-stop di sei mesi. Gli Atomic Bitchwax, fino ad oggi poco più di un simpatico gruppetto di onesta manovalanza stoner delle retrovie, noti più che altro per essere partiti come side-project del biondo Ed Mundell (chitarra stordente nei Monster Magnet migliori), hanno scritto con The Local Fuzz il loro Presence, il loro Time Does Not Heal, però tutto condensato (si fa per dire) in un unico pezzo. Soprattutto, ci risparmiano l’immenso strazio di dover subire qualche bolso clone del cazzo di Robert Plant che latra BABY BABY BABY BABY BABY nei momenti più atroci (il disco è interamente strumentale), e anche soltanto per questo RISPETTO a prescindere. Certo ci sono alcuni momenti (per la precisione ai minuti 18, 23, 29, 35 e 38) in cui la continuità cede e si passa brutalmente da una sequenza di riff a un’altra senza apparente costrutto, ma questo succede comunque senza mai pregiudicare lo scopo principale del pezzo, che è mettere simpaticamente i piedi in testa a chiunque sia convinto di saper suonare in modo più viscerale, stronzo e drogato dei tre cazzoni sballoni qui presenti. The Local Fuzz è sicuramente il MATTONE più divertente intercettato finora.

Badilate di cultura: The Ward

 
L’ultimo film di John Carpenter che ho visto al cinema è stato Vampires. Domenica pomeriggio, ottobre 1998, la scuola era ricominciata da poco. Lo davano al Fulgor, simpatico cinemino ubicato in una laterale di via Indipendenza sempre buia e umida estate e inverno, a fianco un albergo diurno abbandonato da horror coi matti, chiuso da quando ho memoria; forse anche per questo la sala era un grande ritrovo di dissociati, alienati e balordi più o meno autistici di ogni tipo. Anche quel giorno ce n’era uno: a cinque poltrone di distanza, occhiali, mezza età, pancione da scorpacciata di psicofarmaci, non la finiva mai di parlare al vuoto commentando ad alta voce i passaggi pregnanti, ogni tanto sparando battutine credo improvvisate sul momento, roba da fare impallidire Neil Hamburger e fornire materiale di studio per decenni a Vittorino Andreoli. Il mio amico Alessandro e io facevamo una fatica del diavolo a rimanere seri e silenziosi; non volevamo esplodere a ridere per non urtare la sua sensibilità, ma dentro avevamo l’inferno. Quando James Woods e il prete entrano nel covo del Maestro (una vecchia prigione disabitata), e il prete dice a James Woods che da ragazzino era campione di calcio all’oratorio (o qualcosa del genere), il borderline è sbottato con un’agghiacciante “FACCIAMO GOAL COL VAMPIRO”, agitando le manine e accompagnando la boutade (di cui andava probabilmente molto fiero) con un risolino stridulo da far accapponare la spina dorsale a un gorilla sotto steroidi. Io quella frase (e la risatina che è seguita) non me la dimenticherò mai finchè campo. All’uscita faceva fresco ed era già buio; le giornate si erano accorciate di quel po’ e avrebbero continuato a farlo, presto ogni ricordo dell’estate da poco trascorsa sarebbe sparito del tutto, schiacciato dal freddo e dalla brina e dai cieli sempre cupi e dalle lunghe mattine a scaldare il banco, a far finta di ascoltare fastidiosi ronzii che entrano da un orecchio ed escono dall’altro. Ma intanto Vampires mi aveva dato materiale in abbondanza per nutrire la mia fantasia per molti mesi a venire, forse per anni. (Continua a leggere)

Gruppi con nomi stupidi (e pure MATTONI issue #17): MOSTLY OTHER PEOPLE DO THE KILLING

ora ditemi se già un po' non li amate.

A un certo punto il padrone di Underground era andato totalmente giù di testa per jazz (soprattutto free) e affini. Doveva essere la sua nuova fissa dopo frequenze e microsuoni assortiti: come prima entravi in negozio ed era tutto un florilegio di BZZZZZZZZZZZZZZ BBBBBZZZZZZZZZZZZSCHRRRRRRRRRRRR minimali, ostili ed elettrogenerati, ora era la volta di sfuriate di sax fomentate da aggressivi tempi dispari e finezze übervirtuosistiche di contorno. È stato grazie alla sua nascente monomania che ho scoperto A Night in Tunisia di Art Blakey & the Jazz Messengers, un disco che ai miei già non più giovanissimi orecchi era come il primo schizzo dentro vene vergini: beatitudine, pura beatitudine. La title-track, posta in apertura, rientrava in particolare tra le colonne sonore preferite per i miei viaggi mentali, undici minuti di esagitato, eroinico tumpa-tumpa-tum che per quanto mi riguardava sarebbero potuti andare avanti all’infinito. Qualche anno dopo, erano passate galassie nel frattempo, Underground aveva da quel po’ calato le serrande per l’ultima volta, travolto dall’inarrestabile ascesa del downloading illegale e dei negozi online dove la roba costa 10 volte di meno, trovo un disco che replica in maniera praticamente identica la copertina di A Night in Tunisia: è Shamokin!!!, secondo album dei Mostly Other People Do the Killing, allora a me del tutto sconosciuti. Nome stupido, copertina decisamente stupida, logo fuori dalla grazia di Dio = è amore immediato. Mi porto il disco a casa ed è come se un ciclone si fosse istantaneamente materializzato nel tinello spettinandomi anche i peli del culo: impressionante, i fantasmi di ogni altro disco jazz che avessi ascoltato in tutta la mia vita si ripresentavano incazzati e belligeranti, evocati dall’inesausto enciclopedismo da nerd incattiviti del quartetto (fondato e pilotato dall’arguto contrabbassista Moppa Elliott, gli altri sono Peter Evans alla tromba, il filippino laureato Jon Irabagon al sax e l’irrequieto genietto di Stormandstress e Talibam! fama Kevin Shea alle bacchette). C’è anche un pezzo intitolato – guarda caso – A Night in Tunisia, ventuno minuti ventuno di delirio citazionista-incazzoso equamente animato da arroganza esecutiva da una parte e infinito rispetto verso gli originali dall’altra.
Lascio a voi il piacere di scoprire quali copertine sono state parodiate nei successivi This Is Our Moosic (questa è facile) e Forty Fort (questa già è più stronza). L’ultimo nato è il doppio dal vivo The Coimbra Concert (non so a voi, ma a me titolo e copertina hanno mandato in shock anafilattico), quasi due ore di simpatia in cui come al solito tutto lo scibile jazzistico viene triturato, digerito e risputato fuori con un’arroganza che non è mai prevaricazione, una carica di ironia da far scoppiare a ridere anche Michael Mantler e, soprattutto, una passione e una foga nell’esecuzione tali da travolgere anche chi del jazz se ne è sempre allegramente sbattuto i coglioni. Il MATTONE questa volta è Blue Ball, 33 minuti, non male ma tutti gli altri pezzi sono molto meglio. Che qualcuno li porti a suonare da queste parti, perdio!!!

 

ARTE.

L’apoteosi.

 

La gente non ricordava più l’età d’oro
del XX° secolo.
Non ne ricordava la prodigiosa tecnologia
nè le spaventose guerre.
Non ricordava più quando i Jugger
avevano fatto la prima partita al “GIOCO”
nè per quale motivo si giocasse
con un teschio di cane…

 
Giochi di Morte (in originale Salute of the Jugger o, per l’appunto, The Blood of Heroes) è I Cancelli del Cielo della fantascienza postatomica: scritto da David Webb Peoples nel momento di massima fama post-successo tardivo di Blade Runner (un flop al botteghino, sbancò nel mercato delle videocassette diventando in breve tempo il film più noleggiato di sempre), massacrato da una lavorazione travagliatissima (almeno sei anni dall’inizio della pre-produzione) e più volte rimontato, non si sa ad oggi quante versioni del film esistano né tantomeno quale sia (se ci sia) il director’s cut. L’unico dato certo è che la versione americana è più corta di almeno dieci minuti rispetto al cut europeo (un’ora e ventisei contro un’ora e trentacinque circa), anche se l’arrivo del formato DVD ha spalancato nuovi e inquietanti interrogativi (è spuntata fuori una fantomatica versione giapponese di 104 minuti) destinati con ogni probabilità a rimanere insoluti, per due ragioni principalmente: primo, Giochi di Morte è stato un tale fiasco sotto il profilo economico (costato dieci milioni di dollari australiani, ne ha tirati su poco più di 188.000) da rendere improbabile qualsiasi ipotesi di recupero filologico a posteriori come è stato invece, ad esempio, per Demoniaca di Richard Stanley (altro film maledetto per quanto decisamente più famoso), e secondo, dell’esistenza di Giochi di Morte pensavo di essere rimasto il solo essere vivente sulla faccia della terra ad averne conservato memoria.
Mi sbagliavo.
A ricordarsene  sono anche Justin Broadrick, Bill Laswell, Enduser e Dr. Israel, rispettivamente chitarrista, bassista, beat-maker e MC in The Blood of Heroes, progetto che prende le mosse da quel che probabilmente resta il migliore postatomico dopo Mad Max. L’album omonimo è uscito la primavera scorsa, e per chi ha passato l’infanzia a perdersi tra le pareti del videonolo e l’adolescenza in capannoni e centri sociali balordi a spaccarsi le orecchie con tutte le declinazioni possibili della drum’n’bass più marcia un disco come questo ha il sapore del regalo. Ma a parte la questione privata (capire di non essere il solo ad aver lasciato un pezzo di cuore nelle spire magnetiche di VHS dimenticate da Dio è qualcosa di prezioso di questi tempi) c’è proprio il fatto che The Blood of Heroes è un disco della madonna anche qui e ora, anche senza bisogno di tirare in ballo nostalgie e vissuto personali; è come dovrebbe suonare un disco sempre, unico, inafferrabile, misterioso, vivo e pulsante, portatore e generatore di autentica passione e stimolante ulteriori e infiniti percorsi. Un disco che ti lascia con il desiderio irrefrenabile di sviscerare ogni piega di un suono che incorpora jungle, elettronica, metal, industrial e hip-hop illbient di quello peso (giusto per dire le prime cose che richiama alla mente), di ripassare tutta (e dico TUTTA) l’epopea dei Godflesh con interminabili annessi e connessi, quindi via con gli Scorn e l’Earache degli anni belli, e i diecimila progetti di Laswell che sono un vortice da cui diventa difficile uscire, e tutta la roba dark e imparanoiata inglese di cui parla Simon Reynolds nei capitoli di Energy Flash post-rave di Castlemorton, e poi Goldie e tutto il catalogo Metalheadz, e DJ Olive, e DJ Spooky, e The Horrorist, e Isolationism, e chissà quanto altro mi sono dimenticato o non ho ancora ascoltato e ascolterò anche grazie a questo disco che è tra le cose più belle e formative e importanti che possano capitare se non siete sordi. A impressionare più di tutto il fatto che The Blood of Heroes arrivi dalla testa di gente con decenni di carriera e centinaia di uscite alle spalle (Laswell e Broadrick, nello specifico), comunque ancora in grado di partorire un disco che sembra inciso dopodomani. Che gli dèi li conservino.

Anniversari: Melma & Merda – Merda & Melma (1999)

Molti ieri hanno ricodato John Lennon, molti altri Diamond Darrell, i più antagonisti il marchettaro irrequieto Darby Crash. Io, ho ricordato Melma & Merda.
Nessun morto in questa occasione, perlomeno in senso fisico (e mentre scrivo mi sto grattando furiosamente i coglioni); a venire celebrata è piuttosto la morte di un intero genere. Merda & Melma è l’ultimo disco di hip hop italiano. L’ultimo spasmo di vita di una scena che da allora in poi diventerà regno incontrastato del fiaccume più bieco, proscenio esclusivo di smiroldi e giaccaloni da offesa alla dignità umana, quegli stessi smiroldi e giaccaloni che fino ad allora erano obbligati a tenere bassa la crestina perché il microfono stava in mano a chi sapeva confrontarsi con la musica e con la vita senza malafede.  E non è una questione di sterile piagnisteo nostalgia canaglia-pilotato totalmente fine a sé stesso, non è un tristo esercizio di memoria per vecchi dentro che rimpiangono aprioristicamente il passato per il solo fatto che è passato. No: è un atto dovuto e un riconoscimento di superiorità totale a prescindere dal fatto che quello che stiamo vivendo ora è probabilmente il momento più nero della storia dell’hip hop nazionale, e la nottata non accenna a passare.
La storia la conoscete: Deda Kaos e Sean in jam molesta assemblano il disco in pochi giorni coinvolgendo giusto qualche amico (tra cui un Neffa in fiamme che parallelamente stava consumando il suo addio all’hip hop nell’irripetibile Chicopisco). L’album esce l’8 dicembre 1999; in un sussulto di bastardaggine decidono di tirare soltanto venticinque esemplari dell’edizione in vinile, che diventa immediatamente una sorta di sacro Graal 2.0 per b-boys fieri e collezionisti ossessionati al punto da assumere in tempi recenti i contorni dell’urban legend come manco il disco dei Devil Doll stampato in una copia o il CD di Merzbow saldato nell’automobile. Un peccato veniale tutto sommato concesso a un disco che resta assolutamente mostruoso ora come allora, tanto cupo e opprimente nelle sonorità quanto battagliero e assassino nelle liriche; mai si era sentito un Kaos così lanciato a bomba contro il mondo, armato “solo di fotta, il resto non serve a molto“, mentre il flow malmostoso di Sean demolisce suckers come fossero biscotti friabili. I più intellettuali negli anni si sono fissati sulla lunga Trilogia del Tatami nella pretesa di estrapolare un solo brano “rappresentativo” del lavoro, ma la realtà è che tutto il disco è ugualmente potente e terminale e definitivo, frutto di tre autorità incontestabili ognuno allo stesso modo in orbita, animato da un senso del disastro e portatore e generatore di un clima di fine incombente che attrae magneticamente piuttosto che spaventare, come restare a lungo ad occhi spalancati a scrutare dentro l’abisso.
Seguirà un breve tour, fondamentale allo stesso modo del disco, che documenta l’assoluto stato di grazia del collettivo; poi la dissoluzione, mai ufficialmente annunciata, sparire in silenzio fagocitati dallo scorrere implacabile del tempo. Kaos è riemerso nel 2007 con l’ottimo Karma, un disco di cuore che parla alla gente che ha un cuore; ogni tanto torna a fare concerti, più spesso dj set in mood nostalgico, tra i pochi depositari rimasti in giro della memoria di un’era che non ritornerà più. Deda si è reinventato dj funky con la ragione sociale Katzuma; Sean non ho la minima idea di che fine abbia fatto. Dopo di loro soltanto macerie.

MATTONI issue #8: JUSTIN BIEBER rallentato dell’800%

it's da ghetto, bitch.

 

Justin Bieber è il nuovo mocciosetto canterino salito alla ribalta mondiale grazie a youtube per la gioia dei pedofili di tutto il globo. Se in questi giorni vi capita di cercare su youtube un video rock – un qualsiasi video rock – date uno sguardo ai commenti più recenti: al 95% sono lunghissime sequenze di insulti pro o contro (molto più spesso contro) Justin Bieber e i suoi fan, roba sul genere “sentito questa merda? Loro sì che spaccano, altro che Justin Bieber!“, il tutto riferito invariabilmente agli ZZ Top quanto ai Black Sabbath o agli AC/DC o ai Led Zeppelin o ai Beatles. Questo è il modo in cui sono entrato a conoscenza di Justin Bieber: cercando video a caso su youtube. Ma c’è chi, invece di perdersi in flame interminabili in giro per la Rete, si è ‘ispirato’ a Bieber per un’idea veramente geniale: prendere un pezzo a caso dello squittente canadese – nello specifico, la caramellosa U Smile – e rallentarlo dell’ottocento per cento, così, per vedere che effetto fa. L’autore della genialata è tale Nick Pittsinger, che per portare a termine l’impresa pare si sia servito di un semplice programma freeware e nient’altro; di sicuro c’è che, una volta caricato su soundcloud, U Smile versione 2.0 (o sarebbe meglio dire 800.0) si è immediatamente diffusa a macchia d’olio fino a diventare uno dei tormentoni del momento, coinvolgendo allo stesso tempo buontemponi e gente di un certo livello (dell’esperimento si è parlato pure sulle prestigiose colonne del Newsweek) con inevitabile strascico di emulazione internettiana in cui, all’improvviso, tutti si sono messi a rallentare (o velocizzare) tutto. Ma U Smile, che nella versione extended dura trentacinque minuti, è speciale, ha un senso, uno scopo e una dignità probabilmente superiori all’originale anche a prescindere dall’originale: ascoltando la traccia senza avere la minima idea da dove provenga ci si trova comunque di fronte a un monolite di pura estasi trascendentale, qualcosa come il perfetto incrocio tra lo “stupore cosmico” di Rhys Chatham nel mastodontico A Crimson Grail e la trance music più ipnotica e minacciosamente rituale dei Dead Can Dance e dei primi In Slaughter Natives, in ogni caso qualcosa di infinitamente stratificato, spaventosamente imponente e profondamente liberatorio nel suo fluire di toni dalle variazioni impercettibili ma costanti, dove la vocina querula del pagliaccesco infante diventa un colossale rombo angelicato che susciterebbe l’invidia di Lisa Gerrard e la gioia di La Monte Young. Nessuna ironia: questa U Smile deve finire immediatamente nelle vostre playlist a fianco del Vuvuzela Drone (e relativa puntata di Radio Dio corrispondente), a Touch Strings di Phill Niblock, all’opera omnia di Yoshi Wada e a tutti gli altri pilastri comprovati della drone music più pura e incompromissoria (oltre a non poter mancare in generale nella collezione di chiunque nutra anche solo un lontano interesse per il suono). La trovate Qui, basta premere ‘play’; uscirne, in compenso, è tutto un altro paio di maniche.

PITCHFORKIANA DEATH METAL: Gortuary, Hideous Deformity, Insidious Disease, Interment, Parasitic Extirpation

INTERMENT – Into the Crypts of Blasphemy (Pulverised)
3/5 dei Centinex si riappropriano del moniker originario e continuano a fare quel che sanno: una mazzata dietro l’altra di puro swedish death metal di origine controllata, con testi che parlano di morte distruzione morti che ritornano e malattie ripugnanti, produzione da cantina gelida, batterista fisso sullo stesso tempo per tutto il pezzo e chitarre “a zanzara” Tomas Skogsberg style. La sostanza non cambia, semmai aumenta il putridume; un disco che ti fa sentire il ghiaccio nelle vene qualsiasi giorno della settimana, in qualsiasi stagione. Ci sono anche due riletture (di Where Death Will Increase e Morbid Death) dai demo del 1991-92, e nell’edizione limitata in vinile una cover di Torn Apart dei Carnage. Loro han sempre fatto questo. Rispetto assoluto. (8.0)

PARASITIC EXTIRPATION – Casketless (Sevared)
Grinding deathcore con produzione scintillante (pure troppo), eseguito con perizia e indubbio mestiere ma senza i pezzi. Si salvano giusto i simpatici samples (da Le colline hanno gli occhi remake e un episodio di X-Files che visto da ragazzino mi aveva fatto cagare addosso – per la cronaca, l’attore è il sottovalutatissimo Timothy Carhart), e l’uno-due Stabwound Symmetry/Vertical Human Splicing, che quasi riesce a far salire un minimo di fomento; il resto è routine ipertecnica con abuso di breakdown e gran tripudio di assoli ipershreddati come piace adesso. Un esercizio di brutalità gradevole quanto innocuo, esattamente identico a troppe altre uscite del settore. (6.2)

HIDEOUS DEFORMITY – Defoulment of Human Purity (Sevared)
Un logo tra i più illeggibili di sempre e una copertina che sembra disegnata da un bambino di sei anni con seri problemi comportamentali nascondono l’esordio più interessante dell’anno (per ora) quando si parla di brutal death tecnico; loro sono norvegesi ma non lo diresti mai, sono in due (vocals suine e chitarre affilate) e si fanno aiutare da turnisti di gran pregio (il bassista di Blood Red Throne, Deeds of Flesh e miliardi di altri, e l’ex batterista dei Vile, ora negli Arsis). Insieme danno vita a un malsano incrocio tra Deeds of Flesh e primi Cryptopsy ma con un tocco personale magnetico e perturbante e la cieca ignoranza propria di culti minori della Osmose più sommersa, tipo i Ravager; il tutto in meno di mezzora, con (commovente) cover dei Cadaver posta in chiusura a depotenziare. Veramente devastante. (8.3)

INSIDIOUS DISEASE – Shadowcast (Century Media)
Ennesimo progetto all-star (si fa per dire) in cui finisce coinvolto l’onnipresente Shane Embury; gli altri sono il mercenario Tony Laureano, Silenoz dei Dimmu Borgir, Jardar degli Old Man’s Child e il redivivo Marc Grewe, ex vocalist dei dimenticati Morgoth (due grandi dischi di death metal tecnico nei primi novanta, poi la svolta “alternative rock” con l’inascoltabile Feel Sorry for the Fanatic, imbarazzante raccolta di plagi dei Killing Joke dei dischi più tristi che ancora oggi mi vergogno di aver comprato ai tempi). Grewe da una decina d’anni è un travet della Century Media, e la pubblicazione di Shadowcast è evidentemente il suo premio-fedeltà; non si spiegherebbe altrimenti l’esistenza di un disco di ‘blackened death metal’ così fiacco e sciatto, prevedibile come la diarrea il giorno dopo una sbornia e noioso come una coda alle poste coi vecchi che tentano di fregarsi il posto a vicenda litigando ad alta voce, con “bombastica” produzione finto grezza e momenti ‘atmosferici’ reboanti e molesti da gruppetto black metal melodico di quint’ordine che anche il più sprovveduto dei preadolescenti avrebbe già spostato nel cestino prima di arrivare al quarto pezzo. Ospitata frettolosa di Killjoy e scolastica cover dei Death di Leprosy sul finale; un passatempo da dopolavoro giusto un pelo più divertente rispetto a collezionare pipe o sottobicchieri da birra, per Laureano un altro lavoretto si spera ben retribuito. (4.7)

GORTUARY – Awakening Pestilent Beings (Sevared)
L’esordio Manic Thoughts of Perverse Mutilation (2008) era un piccolo capolavoro di brutal death marcissimo e autenticamente ferale, suonato come se non ci fosse un domani (tutti i brani terminavano di botto con coda di qualche secondo in cui potevi sentire gli amplificatori fischiare) e registrato con un feeling live che ti si spalmava addosso tutto il sudore direttamente dalla sala prove. Awakening Pestilent Beings è diverso: pur continuando a legnare come una mandria di sbirri in tenuta antisommossa, la band è molto più ‘controllata’ e pare voler in parte mordere il freno, e i pezzi – indubbiamente più ragionati rispetto al furente attacco frontale del debutto – guadagnano in lucidità di scrittura quel che perdono in spontaneità. Comunque non si capisce la scelta di piazzare la strumentale Interlude, cinque minuti di virtuosismi alla Joe Satriani con chitarre pulitissime e arzigogoli spagnoleggianti in sottofondo, tra due pezzi intitolati rispettivamente Compulsive Ocular Torture e Necrotizing Infection. (6.8)

MATTONI issue #5: Goldie

 

L’avevamo promesso ed eccolo, Mother, il punto di non ritorno, il Grado Zero della musica elettronica, l’ultimo pezzo di musica elettronica possibile, il testamento definitivo dell’uomo nato Clifford Price poi ribattezzatosi Goldie, qualcosa di molto simile a un codice segreto senza però il relativo John Nash completamente folle da qualche parte nel mondo a disposizione per decifrarlo. In un’intervista a Simon Reynolds del 1995, con la sua consueta modestia Goldie aveva definito il suo brano-monstre Timelesscome un Rolex: perfetto nei meccanismi ma anche bellissimo da vedere“, o qualcosa del genere (non ricordo le parole precise ma il concetto era quello). Con Mother, l’uomo sposta l’asse di qualche sistema solare più avanti; magari da fuori sembra ancora un Rolex, ma di sicuro il tempo che segna non è quello di questa terra. Forse di Plutone, o di Saturno (come il titolo del CD in cui Mother è incluso). E gli ingranaggi interni non sono più frutto della chirurgica, tranquillizzante, affidabile precisione svizzera bensì di un’ipotetica session di brainstorming tra M.C. Escher, HR Giger, Stephen Hawking e Abdul Alhazred, con Philip Glass da qualche parte nella stanza a monitorare il lavoro. Comunque la si giri, il pezzo è impressionante; non soltanto in termini di durata (67 minuti), ma anche e soprattutto per la portata e la quantità di suggestioni e possibilità che contiene, riuscendo a teorizzare una fusione fino ad allora intentata (e, nonostante i numerosissimi e più o meno blasonati tentativi, tuttora ineguagliata) tra jungle, minimalismo, drum’n’bass, techno, musica concreta,  psicanalisi e musica impressionista, e rappresentando di fatto un ponte tra il mondo alto della classica contemporanea e il basso dei capannoni abbandonati, dei magazzini dismessi, dei tunnel della metropolitana in disuso farciti di sudore e anidride carbonica in eccesso e umori corporali di ogni tipo al termine del più colossale dei rave illegali di quegli anni. In tanti hanno poi provato a battere lo stesso terreno, a scandagliare simili universi; dal Trent Reznor del massimalista e debussiano The Fragile, all’Aphex Twin di Drukqs, all’orchestra siderale di “Mad” Mike Banks fino a Carl Craig & Maurizio, ognuno con la propria visione e il proprio tocco. Ma Goldie li aveva già bruciati tutti sul tempo, lui era già altrove, padrone creatore e sovrano assoluto di un universo la cui entrata era preclusa – probabilmente – a chiunque non facesse parte della sua schiera privata di fantasmi. Bisognerebbe davvero poter tornare a parlare di Mother tra qualche eone; di sicuro verrebbe voglia di suonarla, ininterrottamente e senza soluzione di continuità, dal 1998 a oggi e oltre.