aggiornamenti

 

L’inizio dei concerti potrebbe slittare di qualche mezzora, dipende quanto durerà il presidio contro l’apertura di CasaPound; in ogni caso dalle 23.30 a scalare.
Domani prima di Mark Kozelek in chiesa (che nel frattempo è andato sold-out in prenotazione) ben due presentazioni di libri di musica, purtroppo entrambe allo stesso orario: dalle 19, al Modo Infoshop Manuel Giannini Starfuckers dialoga coi Massimo Volume al completo in occasione dell’uscita di Tutto Qui; al Dans la Rue il b-boy fiero Damir Ivic parla del suo Storia ragionata dell’hip hop italiano.

STREAMO: PRO-PAIN – “Absolute Power” (AFM)

calci nei denti

 
I Pro-Pain sono un gruppo hardcore metal newyorkese sulla piazza da una ventina d’anni, nascono dalle ceneri dei thrashers di seconda fascia Crumbsuckers, hanno cambiato mille batteristi in puro Spinal Tap style e i loro dischi, rilasciati con commovente regolarità al ritmo di uno ogni sedici-diciotto mesi, da sempre, hanno una simpatica particolarità: sono tutti esattamente identici. Il loro sound asfittico e incazzatissimo è rimasto invariato nei secoli, così come la struttura dei loro pezzi: batteria pestona, basso in primo piano, chitarre ipersature e voce da cinghiale con le palle rimaste incastrate in una tagliola, strofa ritornello strofa ritornello assolo ignorante poi di nuovo ritornello e via andare, ed ecco pronto un altro album. I tempi passano, le mode cambiano ma i Pro-Pain sono sempre lì, con le loro zucche pelate a scintillare nel sole, le panze all’aria e i baffoni da motociclista del corpulento leader Gary Meskil temibilmente in prima linea; hanno visto nascere e morire infinite scene, infiniti trend, dall’industrial groove metal degli amici Prong al NYHC più malmostoso e bullistico, dal pessimo metalcore al ritorno di fiamma per il thrash metal, incidevano per Roadrunner quando Jamey Jasta probabilmente ancora le prendeva un giorno sì e l’altro pure dai teppistelli del quartiere, quando hanno cominciato Internet era roba da romanzo cyberpunk e i telefoni cellulari li usavano giusto i magnaccia. Probabilmente ci seppelliranno tutti. Di sicuro, ad ascoltare l’ennesimo ‘nuovo’ album di cui cambiano solamente copertina e titoli, il rischio concreto è piuttosto quello di morire di noia, di salire su una torre armati di carabina tipo Charles Whitman, in ogni caso di finire risucchiati in un inspiegabile gap temporale alla Twilight Zone in cui nulla cambia e tutto resta uguale, ed è sempre il 1992 e ci si nutre esclusivamente di Big Mac e l’unica lettura contemplata e ammessa sono i fumetti di Capitan America. Cose del genere. D’altro canto, il fatto che i Pro-Pain continuino ad esistere è in una certa maniera confortante; mi fa pensare a quel romanzo di Jonathan Carroll in cui gli animali sono i guardiani del mondo e i depositari della saggezza, e ci proteggono e vegliano su di noi affinchè non facciamo più cazzate del necessario. Ecco, anche se i loro dischi continuano a farmi schifo, per me i Pro-Pain sono questo.
Il nuovo arrivato si chiama Absolute Power e – l’avresti mai detto? – è esattamente identico a tutti gli altri; solo che qui c’è un featuring di Schmier dei Destruction (brrr…), e un pezzo che si intitola I Apologize (grazie a Dio non ha niente a che vedere con gli Husker Du) che probabilmente è il meno peggio di tutti. Fino alla prossima,

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PITCHFORKIANA DEATH METAL: Gortuary, Hideous Deformity, Insidious Disease, Interment, Parasitic Extirpation

INTERMENT – Into the Crypts of Blasphemy (Pulverised)
3/5 dei Centinex si riappropriano del moniker originario e continuano a fare quel che sanno: una mazzata dietro l’altra di puro swedish death metal di origine controllata, con testi che parlano di morte distruzione morti che ritornano e malattie ripugnanti, produzione da cantina gelida, batterista fisso sullo stesso tempo per tutto il pezzo e chitarre “a zanzara” Tomas Skogsberg style. La sostanza non cambia, semmai aumenta il putridume; un disco che ti fa sentire il ghiaccio nelle vene qualsiasi giorno della settimana, in qualsiasi stagione. Ci sono anche due riletture (di Where Death Will Increase e Morbid Death) dai demo del 1991-92, e nell’edizione limitata in vinile una cover di Torn Apart dei Carnage. Loro han sempre fatto questo. Rispetto assoluto. (8.0)

PARASITIC EXTIRPATION – Casketless (Sevared)
Grinding deathcore con produzione scintillante (pure troppo), eseguito con perizia e indubbio mestiere ma senza i pezzi. Si salvano giusto i simpatici samples (da Le colline hanno gli occhi remake e un episodio di X-Files che visto da ragazzino mi aveva fatto cagare addosso – per la cronaca, l’attore è il sottovalutatissimo Timothy Carhart), e l’uno-due Stabwound Symmetry/Vertical Human Splicing, che quasi riesce a far salire un minimo di fomento; il resto è routine ipertecnica con abuso di breakdown e gran tripudio di assoli ipershreddati come piace adesso. Un esercizio di brutalità gradevole quanto innocuo, esattamente identico a troppe altre uscite del settore. (6.2)

HIDEOUS DEFORMITY – Defoulment of Human Purity (Sevared)
Un logo tra i più illeggibili di sempre e una copertina che sembra disegnata da un bambino di sei anni con seri problemi comportamentali nascondono l’esordio più interessante dell’anno (per ora) quando si parla di brutal death tecnico; loro sono norvegesi ma non lo diresti mai, sono in due (vocals suine e chitarre affilate) e si fanno aiutare da turnisti di gran pregio (il bassista di Blood Red Throne, Deeds of Flesh e miliardi di altri, e l’ex batterista dei Vile, ora negli Arsis). Insieme danno vita a un malsano incrocio tra Deeds of Flesh e primi Cryptopsy ma con un tocco personale magnetico e perturbante e la cieca ignoranza propria di culti minori della Osmose più sommersa, tipo i Ravager; il tutto in meno di mezzora, con (commovente) cover dei Cadaver posta in chiusura a depotenziare. Veramente devastante. (8.3)

INSIDIOUS DISEASE – Shadowcast (Century Media)
Ennesimo progetto all-star (si fa per dire) in cui finisce coinvolto l’onnipresente Shane Embury; gli altri sono il mercenario Tony Laureano, Silenoz dei Dimmu Borgir, Jardar degli Old Man’s Child e il redivivo Marc Grewe, ex vocalist dei dimenticati Morgoth (due grandi dischi di death metal tecnico nei primi novanta, poi la svolta “alternative rock” con l’inascoltabile Feel Sorry for the Fanatic, imbarazzante raccolta di plagi dei Killing Joke dei dischi più tristi che ancora oggi mi vergogno di aver comprato ai tempi). Grewe da una decina d’anni è un travet della Century Media, e la pubblicazione di Shadowcast è evidentemente il suo premio-fedeltà; non si spiegherebbe altrimenti l’esistenza di un disco di ‘blackened death metal’ così fiacco e sciatto, prevedibile come la diarrea il giorno dopo una sbornia e noioso come una coda alle poste coi vecchi che tentano di fregarsi il posto a vicenda litigando ad alta voce, con “bombastica” produzione finto grezza e momenti ‘atmosferici’ reboanti e molesti da gruppetto black metal melodico di quint’ordine che anche il più sprovveduto dei preadolescenti avrebbe già spostato nel cestino prima di arrivare al quarto pezzo. Ospitata frettolosa di Killjoy e scolastica cover dei Death di Leprosy sul finale; un passatempo da dopolavoro giusto un pelo più divertente rispetto a collezionare pipe o sottobicchieri da birra, per Laureano un altro lavoretto si spera ben retribuito. (4.7)

GORTUARY – Awakening Pestilent Beings (Sevared)
L’esordio Manic Thoughts of Perverse Mutilation (2008) era un piccolo capolavoro di brutal death marcissimo e autenticamente ferale, suonato come se non ci fosse un domani (tutti i brani terminavano di botto con coda di qualche secondo in cui potevi sentire gli amplificatori fischiare) e registrato con un feeling live che ti si spalmava addosso tutto il sudore direttamente dalla sala prove. Awakening Pestilent Beings è diverso: pur continuando a legnare come una mandria di sbirri in tenuta antisommossa, la band è molto più ‘controllata’ e pare voler in parte mordere il freno, e i pezzi – indubbiamente più ragionati rispetto al furente attacco frontale del debutto – guadagnano in lucidità di scrittura quel che perdono in spontaneità. Comunque non si capisce la scelta di piazzare la strumentale Interlude, cinque minuti di virtuosismi alla Joe Satriani con chitarre pulitissime e arzigogoli spagnoleggianti in sottofondo, tra due pezzi intitolati rispettivamente Compulsive Ocular Torture e Necrotizing Infection. (6.8)

PICHFORKIANA DEATH METAL: Defeated Sanity, Humangled, Inherit Disease, Mortification, Severe Torture

DEFEATED SANITY – Chapters of Repugnance (Willowtip)
Brutal death tecnico velocissimo da un gruppo che di tedesco ha solo il passaporto; modelli dichiarati i Suffocation di Breeding the Spawn e i primi tre album dei Disgorge americani (nei quali peraltro ha brevemente militato il vocalist A.J. Magana), il tutto shakerato e rivomitato con un coefficiente di violenza perfino superiore alla somma delle parti. Peccato per la batteria registrata tipo “mastello”, unico difetto di un gioiellino di disco. Curiosità: il batterista si chiama Lille Gruber (ah ah, uh uh). (8.0)

HUMANGLED – Fractal (Abyss)
Death groove metal crasso e fetente alla vecchia, con punte di ignoranza nella letale uno-due Brutalize the Pedophile / Liquidfire (il cui invasivo e mongoloide chorus si stampa in testa e non se ne va più); loro hanno una storia lunghissima alle spalle, tra cambi di moniker e repentine virate ora verso il grind, ora cyber death metal (il mini Foetalize, peraltro graziato da una cover geniale), ora death gore purulento. Il mixaggio è ad opera di Dan Swanö e anche solo per questo Fractal merita quantomeno l’ascolto. (6.7)

INHERIT DISEASE – Visceral Transcendence (Unique Leader)
Brutal ipertecnico con concept cyber-futuristico alla base, ben esplicato dalla suggestiva copertina in bilico tra Matrix e La Guerra dei Mondi di Spielberg; i gargarismi vocali del voluminoso singer Obie Flett somigliano sempre più al rumore di uno scarico del cesso intasato, il che può rappresentare un punto a favore come un handicap (dipende dai gusti, a me prende bene). Più difficile restare indifferenti di fronte al mostruoso lavoro di batteria del tritacarne umano Daniel Osborn (titolare anche della one-man band Misanthropic Carnage). Non per tutti i gusti ma estremamente interessante. (8.0)

MORTIFICATION – Twenty Years in the Underground (Nuclear Blast)
I più famosi baciapile australiani celebrano il ventennale con una doppia raccolta assemblata, probabilmente, solo e soltanto per il LOAL: cinque reincisioni di vecchi e nuovi classici e il resto estrapolato da bootleg registrati col walkman da qualche disperato tra il 1990 e il 1993. Ci sono anche quattro pezzi acustici (…) da un unplugged in Norvegia. Basta la parola. (0.8)

SEVERE TORTURE – Slaughtered (Season of Mist)
Quinto centro (su cinque) per i macellai olandesi. Non cambia la formula – brutal death drittissimo con il santino dei Cannibal Corpse in bella vista – in compenso si lavora ai fianchi un songwriting sempre più ferale, complice una produzione cristallina come mai prima d’ora, in grado di rendere ancora più temibili composizioni già in partenza devastanti; a completare il quadro la solita piacevole alternanza nelle liriche tra sbrodolate di sangue & interiora e simpatiche invettive anticristiane che al confronto Glen Benton è un mansueto sacrestano. Loro sono una macchina da guerra. (7.8)

STREAMO: ZEUS! – ZEUS!

Dica: "AAAAAAAAAAAAAAAAAH".

 
ZEUS! è il progetto del metallante bassista dei Calibro 35 Luca Cavina e dell’irsuto batterista dei Rebelde Paolo Mongardi. Insieme generano una potenza di prog-math-metal ignorante alla vecchia, come un ipotetico incrocio tra Lightning Bolt, Flying Luttenbachers ma con un batterista umano, Genghis Tron ma senza la vocetta fastidiosa (Deo gratias), i primi dischi di Greg Ginn solista (ma, uh, senza la chitarra) e, ma sì, mettiamoci pure gli Zu che altrimenti gli intellettuali coi baffi non cagano la mossa. Suonano spesso in giro (questa sera a Genova), dal vivo sono un delirio e il disco (che uscirà a settembre) cattura solo parte della grandezza dei loro tellurici live. E già così è una botta micidiale: un’orgia di cambi di tempo e frequenze fastidiose (sentirlo in cuffia è un’esperienza mistica), ogni tanto qualche urlaccio filtrato che non conserva quasi più nulla di umano, titoli da esplosione immediata del cranio modello “Scanners” (in un sussulto di decenza mi limito a citare soltanto la tripletta iniziale: Suckertorte, Grindmaster Flesh e Koprofiev, nientemeno), una copertina che è il sogno bagnato di un otorinolaringoiatra perverso, qualche spolveratina di tastiera vintage (courtesy of Enrico Gabrielli) nella morriconiana Ate U, un’ombra di theremin (comunque quasi inudibile), e in conclusione gran orgia di shredding mickbarresco così, tanto per essere sicuri di finire anche quei pochi che erano rimasti semistorditi a rantolare nel fango. Veramente bestiale.

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Sun Kil Moon – Admiral Fell Promises (Caldo Verde)

 
Ormai ho perso il conto delle uscite targate Mark Kozelek negli ultimi anni. Che l’uomo avesse deciso di passare alla cassa non è più un mistero per nessuno da almeno un decennio, e per carità, è una scelta che rientra nel suo pieno diritto; ricordo ancora una sua intervista, doveva essere l’inizio del 2001, in cui dichiarava di vivere in una stanzetta in affitto con l’incubo perenne dello sfratto esecutivo, all’epoca evitato per un soffio grazie al cachet percepito per la sua partecipazione in Quasi Famosi. Veniva veramente da chiedersi perchè gli altri sì e lui no. E che diamine! Gentaglia impresentabile imperversava ovunque (tanto per ricordare, una delle new sensation dei tempi erano i bruttissimi Kings of Convenience), mentre otto anni di carriera irreprensibile con i Red House Painters bastavano a malapena a coprire parte delle spese di una vita di stenti. Mi si era stretto il cuore nel leggere quelle parole, e ad aver saputo il suo indirizzo gli avrei immediatamente spedito qualche dollaro e un paio di scarpe per l’inverno. Musicalmente nessun problema comunque, finchè la qualità ha tenuto: l’EP Rock’n’Roll Singer (2000) era decisamente buono, così come What’s Next to the Moon (2001, raccolta di classici degli AC/DC dell’era Bon Scott spogliati di ogni alito di vita e aggressività, trasfigurati e resi irriconoscibili), per quanto strampalato e bizzarro – o forse proprio per questo – continua ad avere un suo perchè. Nel frattempo era finalmente uscito anche il canto del cigno dei Red House Painters, Old Ramon, bloccato per anni da beghe burocratiche con la major incompetente di turno che non voleva pubblicarlo ma nemmeno intendeva cederne i master, e anche quel disco era un bel disco. Con la nascita dei Sun Kil Moon, poi, la penna dell’uomo era tornata a volare alto: l’esordio Ghosts of the Great Highway (2003) è un capolavoro assoluto, perfettamente in grado di tenere testa alle cose migliori degli anni d’oro, a volte perfino capace di superare vette di ispirazione e lirismo fino ad allora ritenute inviolabili (pezzi come Salvador Sanchez o la torrenziale Duk Koo Kim aggiornavano l’antico canovaccio portandolo al livello successivo grazie all’innesto, perfettamente riuscito, di poderose distorsioni e perfino – incredibile! – qualche assolo). Ghosts of the Great Highway è stato anche l’ultimo sussulto di ispirazione prima del diluvio di uscite assolutamente prescindibili a voler essere buoni: l’album di cover dei Modest Mouse si dimentica agevolmente; i mille live per sola voce e chitarrina sono una noia mortale, tutti, dal primo all’ultimo; la ristampa di Ghosts of the Great Highway comprende un secondo CD di scarti e out-takes che definire ‘superfluo’ sarebbe fare uno sgarbo alla categoria; di April  (nel mezzo c’è stato il ruolo di spalla “saggia” dell’insopportabile Jason Schwartzman nel caruccio Shopgirl, innocuo adattamento cinematografico del romanzo d’esordio di Steve Martin) sono molto belli solo gli ultimi due pezzi, il resto è pilota automatico puro, un tedio da orchite fulminante che si fa fatica a crederci. E ora il ritorno con il moniker Sun Kil Moon, nella pratica nulla cambia: c’è solo Kozelek con la sua chitarrina spagnoleggiante, del resto assumere personale da mettere dietro agli strumenti – e affittare una sala prove, per giunta – avrebbe comportato spese. Gli ingredienti sono gli stessi delle ultime 5.674 uscite: voce mormorata riverberata mugugnata, chitarrina languida mezzo brasileira, comunque sempre picchiettata tipo plin-plon, qualche foto virata in seppia di particolari desolanti e/o posti abbandonati in culo al mondo, ed ecco pronto un altro disco. Anche i testi sembrano assemblati tramite un generatore automatico di liriche ‘alla Mark Kozelek’: ricordi d’infanzia, qualche figa che forse gliel’ha data (questo non lo dice mai direttamente, lo lascia intuire, perchè sennò poi le anime belle si scandalizzano), modelli di macchine (nota bene: Kozelek non sa guidare), nomi e marche, luoghi e date buttati lì un po’ a cazzo, l’Oceano, la spiaggia, ancora ricordi. In tutto questo manco mezzo secondo che non lasci il tempo esattamente come l’ha trovato. Quel che più intristisce è il senso di automatismo smascheratamente alimentare che emerge implacabile dal quadro generale, come se Kozelek avesse scritto e registrato il materiale con la mente già proiettata alla prossima uscita – probabilmente un live in Oklahoma in edizione limitata, gli stessi pezzi più qualche ripescaggio dei Red House Painters per accontentare i reduci, o magari una mezzoretta scarsa di cover di qualche gruppo scrauso, tipo i REO Speedwagon o Ted Nugent, il tutto rigorosamente riarrangiato per lagna salmodiante e chitarrina plin-plon, in ogni caso roba nemmeno brutta, semplicemente inesistente. Che fine indecorosa per uno dei più grandi poeti della musica rock degli anni ’90.

Arrota Libbera #2: Il potere del cavallo logora chi non ce l’ha.

Further è il nuovo disco dei Chemical Brothers, che è già uscito o forse deve ancora già uscire ma è già disponibile per il consueto download illegale (un’arte che tutti criticano aspramente ma che tutti praticano nel tepore delle loro camerette – come la masturbazione, ed infatti la gente scarica mentre si fa le pippe davanti a YouPorn e l’industria musicale sta andando a puttane).

Further è il vero suicidio commerciale dei Chemical Brothers, due ragazzi ormai cresciutelli che nella loro vita si sono drogati parecchio e che probabilmente ora vogliono farsi licenziare dalla casa discografica per sputtanarsi in droghe varie anche la liquidazione. ed allora han deciso di fare una cosa assurda ed a tratti incomprensibilie che parte come i Sigur Ros in ecstasy, svolta kraut-disco e sale sale (e non fa male) fino al picco epico/comico di Horse Power – un assoluto dopo il quale nulla è più come prima e che sicuro verrà tramandato ai posteri come spiegazione scientifica del fatto che i danni provocati dagli abusi di sostanze chimiche non sono poi tanto male. Con Horse Power e i suoi nitriti campionati ed incollati tra un beat ed un riff di synth si ride, salvo poi capire la grandezza dei Chemical Brothers e la loro portata innovativa anche a quindici anni dal loro primo disco. Eversori, cazzo. I Chemical Brothers sono degli eversori.

Further è un disco che potrebbe piacere perfino a tutti quelli che hanno odiato i dischi precedenti dei Chemical Brothers, e non venderà un cazzo perché ora la musica che conta è altra. Meglio così, almeno la casa discografica licenzia i Chemical Brothers e loro possono drogarsi a più non posso con i soldi della liquidazione.