Il lunedì è infinitamente meno sgradevole al pensiero di un bel concertino gratuito a fine giornata all’Elastico; nello specifico, delle Sandwitches si dice che sono l’equivalente rock del personaggio che Jessica Chastain interpreta in The Tree of Life, non so per voi ma questo per me basta e avanza. Esserci (dalle 20, gratis). Martedì nel segno dei cantautori, da Richard Buckner al Bronson (21.30, dieci euro) a Maria Devigili in duo da Osvaldo (dalle 20, gratis) a Boxeur The Coeur al Teatrino degli Illusi (dalle 20, gratis). Mercoledì preparate gli acidi, prenotate un posto finestrino sull’astronave Delta 9 e sintonizzatevi sulla serata MeryXM più sballosa e viaggiosa di sempre; a partire dalle 20.30 il corriere cosmico Gino Dal Soler in carne, ossa e flow messianico parla del più grande libro sul folk psichedelico mai scritto in Italia: il suo. Non sarà una semplice presentazione di un libro, piuttosto un racconto fatto di parole, suoni ed immagini che hanno plasmato il free-acid-freak folk dagli anni 60 ad oggi. Una mappa sonica e visuale per l’orientamento, dedicata più ai neofiti che ai cultori che del genere sanno tutto o quasi. Musiche e visioni dentro un cerchio ininterrotto e come il titolo del video che presenteremo: “Be Glad for the song has no ending!”. Sto già fluttuando su Saturno al solo pensiero. Se invece la musica da sballoni fattoni non vi interessa e quel che volete è una bella botta di pagan-epic-folk-viking metal da far sborrare nell’armatura Odino mentre va alla guerra ecco per voi Moonsorrow, Tyr e Crimfall al Sottotetto (dalle 20.30, ventitré euro), e il gjallarhorn continua a risuonare. Ci sono anche i Junior Boys in supergay analog fattanza al Locomotiv (dalle 22.30, dodici euro più tessera AICS). Giovedì al Teatrino degli Illusi è di scena l’associazione a delinquere dei temibili fratelli Angeli(uno fotografa, l’altro suona la chitarra sarda preparata), dalle 22, un trip vero. Venerdì tra mafiosi ballerini, guitar heroes lesbici, jazzisti flippati e romagnoli urlanti sensibili ce n’è per tutti i gusti: rispettivamente, The Good Fellas al Locomotiv (22.30, dieci euro più tessera AICS), Kaki King al Bronson (21.30, dieci euro), Turbo Trio al Bartleby (21, gratis) e LaQuiete + Distanti al Covo (22, ??? euri). Sabato Chicks On Speed in live djset transgender pilotato al Locomotiv (22.30, dieci euro più tessera AICS), oppure festivalino foriero di gran legnate all’Ekidna a Carpi – ci suonano anche gli Storm{o}; info e flyer da stampare, fotocopiare e far girare Qui. Domenica The Field al Bronson (21.30, quindici euro) oppure The Babies al Mattatoio. È attiva la nuova casella postale per consigli, suggerimenti, minacce di morte, segnalazioni di bar mitzvah e quant’altro: lagendinadeiconcerti(at)gmail(dot)com. Scriveteci…
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L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 1-7 agosto 2011
Agendina dei concerti ridotta per mancanza di roba (in compenso settimana prossima sarà delirio vero: Suicidal Tendencies, GBH, Dillinger, Oneida, gli arcangeli con le trombe e i diavoli coi tromboni…), si inizia comunque bene stasera con il concerto WTF del millennio: Robyn Hitchcock che suona i pezzi di Bob Dylan a Cusercoli, ovvero la versione romagnola di Un tranquillo week-end di paura. Gratis dalle 21.30, info Qui. Ci si sposta di poco martedì, per la precisione al bagno Hana-bi a Marina di Ravenna, per il nostro rottoinculo preferito degli ultimi tempi: gentlemen and gentlemen, Scott Matthew. Gratis, dalle 21.30 (poi si balla fino alle 3: noi lavoriamo sodo e ci divertiamo sodo!). Ancora all’Hana-bi mercoledì, a sfondarci di Chinamartini, cedrata Tassoni, spuma Sanpellegrino e acqua Pejo a secchiate insieme ai Calibro35 (sempre gratis, sempre dalle 21.30); seguono battute a random dal repertorio di Sacchi Giulio, Giorgio Caneparo, Ugo Piazza e via poliziottescheggiando. Ennio, sei un dilettante. Come riusciranno Polvo e Thermals a portare a termine i rispettivi set in meno di due ore? Lo scopriremo giovedì al Bolognetti dalle 21 alle 23. Ronchi aiutaci tu… È l’unico concerto emiliano della settimana e per ora anche l’ultimo; e se nel week-end non ne avete voglia un cazzo di finire al mare assieme a diecimila altri stronzi diventa un problema visto che in giro (almeno per ora) non c’è niente.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 23-29 maggio 2011
Inizio settimana nel segno del bong ribollente dei trip senza ritorno e delle tante tante belle pastiglie colorate che si sa dove si comincia ma non dove e quando (e se) si finisce: all’XM24 in una botta sola le legnate di drone psichedelico degli irsuti Barn Owl più le bordate di shoegaze psichedelico dell’ex-Tarentel Jefre Cantu-Ledesma, aprono How Much Wood Would a Woodchuck Chuck che solo dal nome ti mandano in paranoia il cervello (dalle 22, tre/quattro euro), mentre se siete in vena di scampagnate tossiche fuori porta all’Hana-Bi suonano gratis gli Akron/Family con tanto di barbe e camicioni che manco alla Caritas (dalle 21.30).
Domani se non siete a farvi venire due coglioni così con Sufjan Stevens a Ferrara (comunque i biglietti sono esauriti) potrete comunque venire alle Scuderie a farvi trapanare i timpani dagli überricchioni Matmos più l’ubiquo John Wiese (pare ci sia anche il redivivo J. Lesser, per ogni informazione fare riferimento al suo sito ufficiale), dalle 22, dodici euro. Mercoledì se cercate un pretesto convincete per farla finita eccovi serviti: Black Heart Procession in acustico al cinema Perla (dalle 21, diciotto euro, se poi si decidessero a fare qualche altro pezzo vecchio oltre Blue Tears magari è la volta che si torna a piangere…). A MeryXM tornano i ragazzi da Gaza, bordate ultranoise a strafottere alla Barberia (flyerqui sotto), al Clandestino arriva Vincenzo Vasi con le sue basette assassine e un progetto dal nome inquietante: Molestus (gratis dalle 22.30). Giovedì gran legnate con i The Faceless in data unica al Rock Planet (più altri gruppi ugualmente ipertecnici e pestoni, dalle 20.30). Il concerto degli Happy Mondays spostato a questo venerdì è stato definitivamente CANCELLATO (si vede che l’agenda del pusher era particolarmente piena in questo periodo) quindi si può tranquillamente fare serata al Musica nelle Valli senza alcun rimpianto; sabato Assalti canta e non manda in letargo le menti al TPO (di spalla Inoki direttamente dal tavolo verde, prezzo n.p.), lo stiloso Toro Y Moy smazza la sua cosa al Sì (dieci euro, dalle 21.30) e il redivivo Tom Warrior porta i suoi arcigni e mentali Tryptikon al Rock Planet (dalle 20.30, prezzo n.p.). Domenica a martellarsi i maroni all’Estragon con gli Explosions in the Sky (dalle 21.30, diciotto euro) o all’XM24 a farsi sfracellare i timpani courtesy of Jucifer e Orange Man Theory (dalle 22, max cinque euro) l’ardua scelta.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 21-27 marzo 2011

al prossimo che sento cianciare a proposito della "dignità dei giapponesi" gli infilo questo vinile su per il culo.
È arrivata la primavera, come diceva anche Marina Rei. L’ex Fragilecontinuo festeggia da par suo con un concerto aperitivo di BeMyDelay + Rella the Woodcutter; oggi pomeriggio dalle 19, prima tutti ai Giardini a suonare le prime trombe della stagione. Martedì gran festa per gli amanti del thrash metal coi riffettini puliti a mitraglia e il giubbetto di jeans con la toppa dei Forbidden e tanti altri loghi improponibili, arrivano i lungocriniti Lazarus A.D. e i molesti latinos Bonded By Blood (originali fin dal nome) in data unica al Blogos (dalle 21.30 con Criminal Side e Injury di spalla; quindici euro). Mercoledì a MeryXM si parla di Frigidaire insieme a Vincenzo Sparagna (non un coglione qualunque che ha scoperto il più grande giornale della storia dell’Umanità l’altroieri chissà come); imperdibile, dalle 20.30. Poi dopo c’è anche un concerto.
Giovedì il delirio: per i froci stilosi ci sono gli Stereo Total al TPO (dalle 22, non so il prezzo), per gli hipster senza una ragione ma col frangettone colorato gli Everything Everything (purtroppo niente a che vedere con gli Underworld a nessun titolo) al Covo (dalle 22, ingresso boh?), mentre per le teste metal che si sentono molto vikinghe o celtiche nell’animo la nuova edizione della Pagan Fest all’Estragon (dalle 18.30, venticinque euro, non entri se non indossi almeno un capo in pelliccia di vero animale morto possibilmente soffrendo, vegetariani e astemi fuori dal cazzo). Venerdì rispolverate il crocifisso della nonna e la tonaca stile “il nome della rosa” del carnevale scorso, al Locomotiv arrivano i Current 93 in data unica (dalle 22, ventitrè euro più tessera AICS, fondamentale una flebo di sali minerali da casa che probabilmente si evapora); poi un paio di cucchiaiate di horse power e via di nuovo in forma per Villalobos al Kindergarten (trentacinque euro). Sabato si festeggia il decennale dell’Atlantide con Raein, Sumo, Affranti e release party del nuovo D.U.N.E. (dalle 22.30, siateci che dice che l’anno prossimo la chiudono); domenica Glam Fest al Sottotetto coi mitologici Vain e tanti altri gruppi che farebbero diventare eterosessuale ingrifato anche Ratzinger.
Giovedì, venerdì e sabato al Sì dalle 19 alle 3 (sabato fino alle 24 poi gran festone finale al Locomotiv a oltranza) si terrà la nona edizione di Homework Festival: programma da urlo, prezzi ultracontenuti (soltanto cinque euro la sera del venerdì e dieci per il closing party al Locomotiv), cucina tipica, stare bene. Spettacolare l’immagine scelta a rappresentare l’evento; è il panorama che vedo ogni volta che vado verso l’XM. Bella la città.
362 giorni e gli Husker Du.
Sembra strano come le cose che aspetti da una vita possano capitare tutto d’un tratto, nel giro di nemmeno un anno. Attendi quieto il momento opportuno lasciando scorrere grevemente gli anni, invecchi, diventi grande, perdi i capelli e le speranze di quando eri giovane e la vita ti sorrideva ogni giorno. Crescere significa in fin dei conti morire piano piano, prima del tuo corpo cominciano a marcire le utopie e i desideri che ti eri creato, il mondo come lo conosci dentro la tua testa si sfalda piano piano lasciando il posto alla vita vera, quella da adulto che non è mai, in nessun caso, quella che avevi progettato.
Se non ti arrendi all’evidenza delle cose però qualcosa rimane sempre. Le passioni, per esempio, sono le poche cose che ti tengono legato per sempre agli anni migliori della tua vita (si beh, non pensavate certo che avrei rinunciato ad infarcire di citazioni st’accozzaglia di pensieri in semilibertà, vero?), come i rampicanti sui muri di casa ciclicamente si ripropongono e fioriscono ammantando tutto te stesso come, appunto, quando avevi 15 anni ed ascoltavi musica tutto il santo giorno infischiandotene dello studio, quando speravi che un giorno saresti riuscito a vivere davvero nonostante la tua propensione all’autodistruzione. Gli Husker Du sono una di queste passioni, nata prestissimo, probabilmente quando neppure mi erano spuntati i peli sul pube. Conoscere un gruppo, che diventerà il gruppo della tua vita o giù di lì, appena due anni dopo il suo scioglimento è piuttosto mortificante per un bambino di 12 anni. Quando comincerai a capire, due o tre anni dopo, come funziona la vita dell’indie-kid, prenderai coscienza che il gruppo in questione dal vivo non lo vedrai mai. Quanto dolore nell’adolescenza di ognuno di noi. Nel caso di specie a corroborare l’ipotesi del live negato ci sta pure l’odio malcelato tra le due entità fondanti del gruppo e la nuova attività del terzo membro (ahahaha ridete), ormai deciso a far felice la gente cucinando deliziosi piatti di minestra e non più suonando il basso. Continua a leggere
MATTONI issue #9: Sufjan Stevens
Impossible Soul è il mattone posto al termine di The Age of Adz, ritorno al formato album per Sufjan Stevens dopo un lustro abbondante di EP, ristampe, cofanetti natalizi, riarrangiamenti strani, raccolte di scarti e concept sinfonici dedicati all’autostrada. È un regalo prezioso Impossible Soul, ma come ogni cosa buona bisogna conquistarselo, bisogna arrivarci, nello specifico, tagliando il traguardo dell’ultimo pezzo di un disco sfiancante, smisurato, tonitruante, inqualificabile, smodatamente eccessivo, esasperatamente magniloquente, altamente perturbante e perfino sgradevole da subire perlomeno in un’unica mandata. Un disco che è come un’overdose di zucchero caramellato sparata dritta in vena, un’indigeribile melassa sciropposa che sconvolge i sensi e rimane appiccicata ai centri nervosi come miele guasto, un delirio di numeri da film Disney coi protagonisti froci, con arrangiamenti in addizione infinita di squilli di tromba, strati di synth obliqui, vocals distorte tipo vinile fatto girare alla velocità sbagliata (a un certo punto spunta fuori un vocoder orrendo) e bizzarrie analogiche di ogni sorta e genere, roba che al confronto Todd Rundgren o Barry Manilow diventano spartani e basilari come manco il Don Fury dei primordi. Una roba veramente al di là di ogni immaginazione, barocca e ridondante tipo Zaireeka però fatto male, con testi in perenne trip egomaniaco molesto da far sembrare Brian Wilson o Candyass tranquillissimi e riconciliati.
Senza Impossible Soul, tutto quel che lo precede sarebbe un soffrire inutile; perché è in quei venticinque magici minuti che ogni tassello di quel che sembrava un atroce mosaico scombinato e malamente assemblato (nel frattempo pare che lo stesso Stevens abbia avuto il suo bel da fare a mantenere il controllo di sé stesso) trova un ordine e una collocazione, che il disegno globale acquista un senso e le smodate ambizioni alla base dell’intero progetto diventano – finalmente – ben riposte. Nel suo esasperato, vitalissimo citazionismo di praticamente tutto lo scibile musicale mai registrato (dal country alla dance, dal minimalismo al pop elettronico, dal folk al musical fino alla classica contemporanea e addirittura alle schitarrate metal) Impossible Soul riesce miracolosamente a trovare un suo equilibrio, che è perfetto e inscalfibile e non smette di svelarsi mantenendo inalterata la magia mentre un ascolto tira l’altro, rischiando di diventare per davvero il pezzo più rappresentativo e al tempo stesso più radicale e teorico dell’intera carriera dell’artista, con buona pace di chi ancora aspetta il seguito di Illinois (campa cavallo che l’erba cresce, come diceva sempre mio nonno). Sta al pop come Mother di Goldie sta alla musica elettronica. Intanto pare che The Age of Adz stia collezionando la sua bella serie di stroncature. Anche questo fa parte del gioco.
Speciale Mancaroni: BOB MOULD – MODULATE
IL DISCO
Dal 1998 al 2001 si compie la metamorfosi totale di Bob Mould. Archiviato il rockeggiante e michaelstipesco The Last Dog & Pony Show e relativo tour americano (puntigliosamente documentato sull’allora sito ufficiale tramite un minuzioso tour diary da egli stesso redatto data per data, corredato da una serie di foto che consegnavano l’uomo in una forma fisica pietosa, grasso e pelato, palesemente sofferente, esteticamente più ributtante che mai), Mould letteralmente sparisce dalla circolazione. Non posso sapere come abbia impiegato quegli anni ma un’idea ce l’ho: ascoltando un sacco di dischi di musica elettronica (di qualsiasi tipo: da Morton Subotnick ai Boards of Canada ai 2 Unlimited agli Stereolab a Giorgio Moroder ai Front 242) e soprattutto facendo palestra. Tanta palestra. Ormai da tempo sceso a patti con la propria sessualità, prepara con pazienza il suo ingresso in grande stile nella comunità gay bear. Quando si ripresenta al mondo è uno shock: slanciato, sicuro di sé, consapevole, tonico; dimostra almeno una decina meno degli anni che ha e diresti addirittura che è diventato bello, proprio lui che è sempre stato lo stereotipo vivente del ciccione complessato, una comparsa nella sua stessa vita che guarda da lontano gli altri vivere mentre la circonferenza del suo stomaco si allarga inesorabilmente a furia di scorpacciate di junk food e ‘spuntini’ infiniti. Modulate è il corrispettivo musicale della trasformazione, il primo atto del compimento della sua rivalsa, il più radicale. Un cortocircuito tra il nuovo e il vecchio Bob Mould che è slancio vitale assoluto e vertigine pura, un incontenibile tuffarsi a pugni chiusi nella realtà, quella stessa realtà che fino ad allora aveva solamente osservato a distanza con inibizione e vergogna. Appena partono le prime note di 180 Rain c’è di che rimanere sconvolti: scintillii, echi, riverberi, un vocoder da fare invidia agli Eiffel 65; un’introduzione traumatica per un lavoro che già si avverte monumentale. Sunset Safety Glass è un perverso shuffle costruito su un loop a metà strada tra Baba O’Riley e una dark room al termine dell’afterhour, Semper Fi un delirio shoegaze all’MDMA con la voce di Bob rarefatta fino all’inudibile, Lost Zoloft uno spaccato ossessivo e desolante, meccanico, da colonna sonora di film porno gay anni ottanta. In Slay/Sway e la sua coda The Receipt tornano le chitarre a plasmare due dei numeri migliori dell’intero canzoniere dell’uomo: la prima, una collisione tra autobiografismo e figure da modernariato, con Bob che trasognato canta di lines between a CD-ROM and reality; la seconda, l’ennesima variazione sul canone della perfetta power-pop song, canone da egli stesso creato. Quasar è un tunnel sinuoso e sfuggente, di nuovo proiettati nel cuore della dark room; Soundonsound è la cronaca di un amore che nasce, finalmente senza intoppi; Comeonstrong un incedere anthemico tra chitarra effettata e tastiera loopata; a chiudere i balzi tropicali della lunare Trade e lo spleen pianistico di Author’s Lament. Nel mezzo tre molesti strumentali tra white noise ignorante e rumorismo puro, a punteggiare una delle pagine più intense della storia (personale, artistica) dell’uomo.
L’esorcismo continuerà in Long Playing Grooves (assemblato contemporaneamente a Modulate e interamente elettronico, pubblicato come LoudBomb pochi mesi più tardi), e tramite la denominazione Blowoff, duo djistico autore di un album omonimo nel 2006. Ma questo rimane il capitolo più inafferrabile, radicale e anarchico.
PERCHÈ NON STA NELLE CLASSIFICHE DI FINE ANNO
Perché già non frega un cazzo a nessuno del Bob Mould classicamente cantautorale, figurarsi del suo lato “sperimentale”; per i froci ci sono già i dj-set come Blowoff, per i reduci le comparsate – ormai copiosissime – ai festival dove suona quasi solo pezzi vecchi con la band, quindi perché preoccuparsene?
PERCHÈ STA QUA DENTRO
Perché rimane il suo disco più strano, ignorato e imprevedibile, e il suo fascino alieno permane nel tempo. Dal 2002 non ho smesso di ascoltarlo e di trovarci dentro sempre qualcos’altro. Sta al 2000 come Formula sta agli anni novanta.
True Believers E Tanto se ribeccamo: Grant Hart
Non ho la più pallida idea di cosa abbia fatto Grant Hart negli ultimi dieci anni (al 1999 infatti risale la sua ultima testimonianza discografica, il solo album Good News for Modern Man). In parte non ho voluto saperlo, perché ogni volta che scandagliavo la Rete in cerca di notizie su di lui (la stampa specializzata aveva da tempo smesso di curarsene) trovavo solo irrispettosi resoconti su message board americane che raccontavano di concerti in bettole davanti a 35 persone, di mostre in infime gallerie d’arte disertate da chiunque contasse qualcosa, dell’uomo finito a fare il meccanico di auto di lusso per pagarsi la droga. No, non è questo il Grant Hart che conosco e, alquanto egoisticamente (dopotutto sono solo un essere umano, a differenza di lui che è un angelo), non è nemmeno quello che mi interessa. Allora ho preferito rifugiarmi nel passato, quando Grant Hart era l’altra metà degli Husker Du, la perfetta controparte di Bob Mould il riflessivo, il meditabondo; lui era quello euforico, quello estroverso, il pagliaccio chiassoso che raccontava l’atroce follia della vita attraverso sfavillanti pop songs troppo belle per poter mai essere dimenticate. Ma anche oltre, quando Grant Hart era l’agitato menestrello nel periodo immediatamente successivo alla dissoluzione tossica del gruppo, incapace di trovare requie nelle maglie della forma-canzone, quando i pensieri correvano molto più veloci della penna e ogni pezzo era diverso dall’altro, ognuno la negazione del precedente, ogni volta che credevi di averlo raggiunto lui era già altrove, sempre altrove. Lui era capace di plasmare a proprio piacimento la materia pop, di rivoltarla come un calzino digerirla e ricrearla di nuovo con nuove regole, un genio troppo costantemente in orbita per sapersi anche gestire lungo una carriera che è un’alternanza schizofrenica di vette assolute di fantasia e creatività concentrate in brevi periodi di superlavoro intervallati da lunghi anni di silenzio totale. Come se all’improvviso si ritrovasse nuovamente stupefatto abbacinato assorbito dalla vita al punto da non voler fare altro che viversi le giornate, per poi solo in un secondo momento trasferire il vissuto in dischi, in canzoni che sono fuori dal tempo per quanto bruciano di vita.
Da qualche tempo, Grant Hart è tornato a essere Grant Hart. Dopo una sosta durata dieci anni, che cominciavamo a credere definitiva, se ne esce con un disco registrato in tre giorni: tipico di lui. Hot Wax è il titolo, e – incredibile ma vero – è il suo lavoro migliore dai tempi di Intolerance (1989). Esattamente come allora, ogni canzone è unica e diversa dalle altre, ogni canzone è un ineccepibile manuale su come si scrive la perfetta pop song, e ogni canzone porta dentro di sé tanta tristezza quanta gioia entrambe in dosi tanto massicce da far male al cuore. L’album è stato assemblato negli studi canadesi dei Silver Mount Zion con l’aiuto di gente del giro Constellation, ma non ne risente affatto. È, in tutto e per tutto, la manifestazione dell’incommensurabile talento di un musicista immenso che si chiama Grant Hart.
A celebrarne la statura abbiamo scelto un brano del passato, scritto di getto dopo il tumultuoso split degli Husker Du: è 25 41 (twenty-five forty-one), il civico dell’appartamento dove Hart era andato a convivere assieme al suo compagno di allora, oltre che l’indirizzo della prima sala prove del gruppo (coincidenza che continua ad alimentare il dubbio se Mould e Hart siano mai stati amanti – anche se entrambe le parti hanno sempre negato). Un pezzo che racconta la fine di una relazione, ma anche la fine del più grande gruppo che abbiamo conosciuto nella nostra vita. “Ora tutto è finito, tutto è storia passata, ogni cosa è stata impacchettata, al 25 41…“.
Jimmy gave us a number
and Jerry gave us a place to stay
and Billy got hold of a van and man,
we moved in the very next day
to 25 41
Big windows to let in the sun
25 41.
well, I put down the money
and I picked up the keys
We had to keep the stove on all night long so the mice wouldn’t freeze.
You put our names on the mailbox
and I put everything else in the past
It was the first place we had to ourselves, we didn’t know it would be the last.
25 41
big windows to let in the sun
25 41.
Now everything is over
Now everything is done
Everything’s in boxes, at 25 41.
Things are so much different now
I’d say that the situation’s reversed
and it’ll probably not be the last time I have to be out by the first.
25 41
Big windows to let in the sun
25 41
Big windows to let in the sun.