Il disco più bello di sempre.

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Il sistema economico in cui viviamo è basato sul desiderio. I bambini sognano la loro vita in termini di soldi o carriera, e questo è l’imprinting. Sognare di diventare veterinario o calciatore, possedere una porsche e i capelli lunghetti e un vestito elegante. Alcuni inseguono i loro sogni, i più ci vengono a patti e si trovano un lavoro qualunque che permetta loro di vivere decorosamente, metter su famiglia e pagarsi qualche svago. Alcuni svaghi ci salvano la vita. La musica, ad esempio, o gli sport: forse ci sono stati inculcati da un’industria multimilionaria, ma qualunque maschio italiano ha sognato prima o poi di giocare in attacco ai mondiali con la maglia azzurra; qualcuno ha anche fatto un provino per qualche squadra medio-grossa, a un certo punto. Altri hanno smesso di giocare appena hanno scoperto che tutto l’allenamento di questa terra non li avrebbe fatti diventare come Roberto Mancini. Poi ci sono quelli che scelgono la terza via. Giocano a pallone tutti i sabati pomeriggio, organizzandosi in squadre scalcinate che competono in tornei amatoriali, perché vogliono giocare a pallone. Si sbracciano per tenere in piedi un’economia delle briciole, fatta di sponsor che ti usano come sgravio fiscale e ti passano poche decine di euro l’anno con i quali eviti di metter mano alle tasche per pagare l’affitto di un campo in cui dieci anni fa cresceva ancora l’erba. Hanno le caviglie malmesse e la pelata dietro la testa, nessuno a vedere le partite e tutta la cattiveria di questo mondo. Quando scendi in campo e hai la maglietta della tua squadra, o giochi seriamente o vaffanculo.

A un certo punto pensavo che avrei fatto qualcosa di diverso nella mia vita. Mi ero laureato, avevo fatto un paio di contratti a progetto in una biblioteca ed ero tornato nella ditta in cui lavoravo da magazziniere per pagarmi l’università. Sei o sette mesi qui dentro, pensavo, metto insieme un gruzzoletto per starmene qualche mese a lavorare all’estero. Il capo in ditta era tale Sergio, ai tempi trentasettenne: mi convocò una sera nel suo ufficio dopo il lavoro e mi disse che gli serviva una persona, che aveva pensato a me perché conoscevo il magazzino ed ero esperto di computer. Mi disse che non gli andava di insegnare il mestiere a uno che stava per scappar via, e se avessi accettato sarei dovuto rimanere per almeno tre anni.

(nel 2004 venivi impiegato in ditte medio-piccole che ti supplicavano in ginocchio, a te senza competenze specifiche di alcun tipo, di mantenere il posto di lavoro per tre anni) (la fama di esperto di computer me l’ero fatto spegnendo e riaccendendo una macchina che stampava le etichette)

Steve Albini inizia a fare musica nei primissimi anni ottanta. è un fanatico di quelle cose che escono fuori dal punk e si stanno spostando verso qualcos’altro. Inizia a registrare cose in cameretta con una drum machine a nome Big Black: qualche tempo dopo riesce a trovare dei musicisti che suonino la sua roba dal vivo ed inizia una carriera nell’underground. Ha una rubrica sulla fanzine Matter nella quale parla (perlopiù male) di musica indipendente. Conosce Corey Rusk, il padrone di Touch&Go, mentre i Big Black si stanno avviando alla fine della loro esistenza. Fanno uscire Headache e Songs About Fucking. Lo scioglimento darà i natali a un gruppo di nome Rapeman, un’esperienza di un paio d’anni che riesce a fare uscire un buon disco. Dalla seconda metà degli anni ottanta Albini inizia a mettere le sue conoscenze tecniche da ingegnere del suono (che ha dovuto acquisire per registrare i dischi dei Big Black) al servizio di altri gruppi, registrando diversi dischi che diventeranno classici della musica rock. Bob Weston cresce in una cittadina del Massachussets con esperienze da trombettista in bande importanti (nel senso proprio delle bande, quelle che suonano alle parate). Si laurea in ingegneria e inizia a suonare il basso nei Volcano Suns, un gruppo fondato dal batterista dei Mission of Burma dopo lo scioglimento della band. Accetta un’offerta di Steve Albini, si sposta a Chicago e diventa suo assistente ingegnere del suono. Todd Trainer suona la batteria in gruppi tra Chicago e Minneapolis negli anni ottanta, ha un progetto solista chiamato Brick Layer Cake in cui canta e suona la chitarra. Si mettono a suonare assieme e tirano su un gruppo, niente di eccezionale.

La letteratura musicale, e credo anche quella sportiva (non la conosco bene), non sono strutturate per  poter celebrare a sufficienza l’aspetto amatoriale. L’industria della musica è sostenuta da un impianto faraonico fatto di royalty, contratti milionari e fanatici esaltati che si presentano allo stadio alle undici del mattino per avere i braccialetti del parterre; Fender vende chitarre a un sacco di persone che coltivano il sogno di calcare quei palchi, ma non sono in tanti a coronarlo. La musica, nella maggior parte dei casi, è costretta a trovare il modo di auto-sostenersi. Ci riesce perché chi la suona ha imparato a ripensarla in piccolo, si organizza per suonare in contesti brutali di fronte a quattro stronzi e riesce a tirarci fuori qualcosa di soddisfacente. Una volta registrar canzoni e farle ascoltare alle persone costava molti più soldi, oggi si riesce a fare con una certa dose di studio e usando internet. Negli anni novanta, quando un gruppo veniva firmato da una grossa etichetta, nelle interviste diceva di averlo fatto per riuscire a fare ascoltare a più persone possibile la propria musica. Ian MacKaye si chiedeva: perchè dovremmo fare ascoltare la musica a più persone possibile? Steve Albini continua a dichiarare che l’epoca in cui viviamo, per i musicisti, è eccezionale.

Sergio giocava a calcio e andava in bicicletta, l’intensificarsi della vita professionale l’aveva costretto a mollare il pallone e concentrarsi sulla bici. In Romagna è una cosa comunissima: prendi una bicicletta da corsa e inizi a salire su per la ciocca. Costa fatica fisica ma pochi soldi. I ciclisti passano la vita a tornire il fisico per affrontare salite devastanti senza avere in effetti il bisogno di affrontarle; alcuni sognano di diventare Marco Pantani, altri lo fanno perchè fa bene alla salute, i più lo fanno per via della bici. D’estate il lavoro della ditta scemava, Sergio sorrideva, diceva “vado via che ho un impegno”, usciva alle cinque del pomeriggio e mezz’ora dopo era lanciato su un dirupo. Un buon ciclista: gambe corte, dicevano che in salita gli stavano dietro in pochissimi. Se eri suo amico e rimanevi indietro, ti sfotteva. Se ti si rompeva l’auto, ti sfotteva. Se perdevi un affare s’incazzava e due ore dopo ti sfotteva. Certi giorni il sarcasmo che usava poteva essere pesante; bilanciava con l’autoironia e un comportamento che nessuno poteva dire scorretto. Se ti staccava in salita diceva che l’altro sabato andavi lento che potevi contare le margherite.

Nel 1993 Steve Albini pubblica un articolo per The Baffler intitolato The Problem with Music. È un conto economico a grandi linee di cosa succede ad un gruppo indie che viene firmato da una major: vendi 250mila copie, hai riempito le tasche dell’etichetta e ti ritrovi comunque in debito. L’articolo diventa un testo sacro della musica indipendente, negli anni di massima esplosione dell’alternative. Nello stesso anno esce il disco più famoso (e uno dei migliori) tra quelli da lui registrati. A questo punto della carriera ha già definito le coordinate morali del suo lavoro: registra in analogico, in presa diretta, non ama i mixaggi aggiuntivi, non si fa accreditare come produttore, rifiuta di essere pagato con percentuali di vendita del disco. L’anno successivo esce il primo disco degli Shellac.

La definizione di “musica indipendente” a cavallo della metà degli anni novanta è un tipo ideale che si definisce da caso a caso sulla base delle soglie di compromesso. I gruppi s’erano tirati in piedi con le loro gambe e avevano trovato un mare di attenzioni in più rispetto a quelle che ricevevano tre anni prima; la maggior parte dei gruppi indipendenti degli anni ottanta era tale per pura e semplice mancanza di alternative, alcuni lo erano per vocazione, altri per via di una mentalità fascista. Qualcuno lo era per ragioni economiche o artistiche. I modelli economici davvero funzionanti legati al rock indipendente non sono poi tanti, e quasi tutti hanno dovuto scegliere dove tracciare la linea della loro moralità. Gli Shellac, più semplicemente, hanno deciso scientemente di non far parte di quel mondo. La loro musica viene registrata in analogico e stampata preferibilmente su vinile; il gruppo la distribuisce tramite i negozi, non si porta il merchandising ai banchetti, non vende musica nelle piattaforme di streaming. Non usano un management o un ufficio stampa, organizzano personalmente tour in contesti a loro confortevoli (macroscopico l’esempio europeo di ATP e Primavera Sound). I tour non sono legati ai dischi, contengono pezzi in scaletta che non sono mai stati registrati. Non sono scelte difficili, se li senti parlare: servono per stare bene. È un gruppo così lontano dai riflettori che in condizioni normali la loro presenza sarebbe sostanzialmente invisibile. I fattori che la rendono evidente e chiassosa sono fondamentalmente due: la presenza del chitarrista e il fatto che i dischi del gruppo siano così buoni. Un effetto collaterale della politica degli Shellac è che il gruppo non fornisce ai membri abbastanza soldi da tirare avanti la baracca. Steve Albini dice che è irragionevole pensare che la gente sia disposta a pagare per vederti sciare.

Sergio diceva che il segreto è trovare piacere nel tuo lavoro. Aveva passato anni a seguire tutta la filiera per filo e per segno, poi la ditta s’era ingrandita e lui aveva iniziato a delegare e fidarsi dei suoi sottoposti senza controllarli. Tenere un clima rilassato e di fiducia all’interno dell’ufficio gli costava emotivamente quanto tenere tutti sotto scacco, tanto valeva farlo diventare un posto piacevole. Diventare grandi è dura, aveva smesso di giocare a calcio, una partitina ogni tanto per gradire, ma quando passava il freddo della stagione spolverava la bici e partiva. Mangiava regolato, beveva poco, fumava poco. Quando uno passa la vita tra scrivanie e autostrade a gestire le cose e usare gentilezza con clienti fornitori dipendenti e consiglio d’amministrazione, lanciarsi a bomba da solo su qualche salita deserta può essere un’ancora di salvezza. Quando uno di lavoro registra dischi agli altri gruppi, ti aspetti che di tanto in tanto abbia voglia di suonare quello che gli va, alle proprie condizioni, di fronte a un pubblico interessato.

Quando dico “il disco più bello di sempre” intendo quello che dico, ma “il disco più bello di sempre” in realtà è più di uno. Le ragioni sono tre: la prima è che mi permette di distinguere tra “il disco più bello di sempre” (In Utero) e “uno dei miei dischi preferiti” (0+2=1); la seconda è che mi permette di non dover scegliere tra In Utero e End Hits; la terza è che le ragioni sono sempre tre. Le cose che vengono rimproverate più spesso ai fan di musica indipendente sono integralismo, oscurantismo e malcelato rosico. Una marea di cazzate. Non conosco nessun fan di indie rock che si sia mai lamentato delle copie vendute dai Fugazi o dagli Shellac, o chi per loro. Alla maggioranza dei fan di rock indipendente non frega assolutamente un cazzo di chi si venda a cosa in cambio di cos’altro; quello che vogliono è musica che suoni vera e diversa dall’altra. Statisticamente, certa musica è rimasta migliore quando ha conservato la sua dose di umiltà.

Certo, non è una rivoluzione. Il punk e l’accacì e il rock indipendente scalcinato sono misure di allineamento e appartenenza alla stessa cultura che ti propina i Jim Morrison e le Avril Lavigne, non definiscono una classe di illuminati che riesce ad estraniarsi dalle cose del mondo. Li dovessi suonare ad un abitante di un villaggio in amazzonia, non saprebbe distinguere le differenze. Per chi ascolta è una questione di coscienza: la musica può esserci inculcata addosso, o può essere scelta da noi. Farla e ascoltarla costa soldi impegno e fatica, bisogna coltivare un giro di amicizie, una rete in cui tutti quanti a un certo punto sono tenuti a fare la loro parte. Non è un atteggiamento molto in voga, ultimamente: la possibilità di star chiusi in camera a scaricare musica e atteggiarsi a conoscitori (di non si sa cosa) ha dato un bel colpo alla musica indipendente.

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At Action Park è un disco di dieci tracce che sono dieci calci in faccia, trentacinque minuti totali, una sorsata. Architetture scarne in tempi dispari su cui gli strumenti s’aggrovigliano l’uno all’altro e le voci sgraziate di Steve Albini grattano via testi impossibili e bellissimi. (Steve Albini non ha mai ricevuto il giusto credito come autore di testi. La parola che ricorre più spesso è “grottesco”, ma descrive solo una parte della sua poetica). Batterie secche, basso arrogante, nessuno suona una nota di troppo. È un monumento ad una mentalità democratica della musica che vuole portare tutto ai minimi termini per renderlo sostenibile. La bellezza del disco ha reso impossibile ignorarlo.

I dischi i libri i fumetti e le persone ci hanno cambiato la vita. Certi dischi sono semplicemente belli, altri sono solo importanti, alcuni sono belli e importanti, e la vita non te la cambiano comunque. At Action Park è il disco più bello di sempre. Non è arrivato con l’intenzione di rompere degli equilibri: erano solo il gruppo della domenica di alcuni personaggi che stavano incidentalmente definendo un suono, ha rilanciato sulla posta, ha influenzato delle persone.

A un certo punto pensavo che nella vita avrei fatto qualcosa di completamente diverso, poi la vita e le persone e le cose hanno scelto per me. Quando leggi queste cose sui giornali ascolti i racconti di gente che ha ascoltato Back In Black ed è rimasta fulminata. Con At Action Park non succede. A un disco come At Action Park ci arrivi da introdotto, hai già scelto cosa ti piace e quanto sei disposto a pagarlo. Gli Shellac, agli occhi di un fan di metal pesante, avevano un suono che sembrava povero e incompleto. Poi sono semplicemente rimasti lì, ho sempre avuto voglia di ascoltarli. L’incantesimo di quella musica funziona ancora come dieci o quindici anni fa. Tra i massimi privilegi del mio ascoltare musica c’è quello, banalissimo, di averli potuti conoscere e aver avuto l’occasione di invecchiare con loro.

Gli Shellac esistono ancora e fanno sempre le stesse cose. Un mesetto è uscito il loro ultimo disco, un album formidabile intitolato Dude Incredible. Pezzi che suonano da anni ai concerti. Fanno un disco ogni sette anni, più o meno, senza legarci un tour. Steve Albini continua a registrare a tariffe abbordabili, ha costruito uno studio suo a Chicago, continua a lavorarci. Risponde regolarmente alla gente sul suo forum, gioca a poker e ha un blog di cucina. Bob Weston lavora anche in proprio, nel corso degli anni il suo nome è diventato la garanzia di un suono tra i miei preferiti e sta in calce ad alcuni tra i migliori dischi della storia (Rachel’s, June of 44, Get Up Kids, Low…). Todd Trainer sbarca il lunario a Minneapolis. Ai concerti si presentano con tute da lavoro e pantaloni sbragati. Ai concerti si fermano un attimo e rispondono alle domande del pubblico. Come si fa a tenere in piedi un gruppo per vent’anni, senza farlo diventare il proprio impiego? Servono due cose, come nel testo di Il Porno Star. Come ad andare in bicicletta. Sergio aveva ricominciato, appena finito l’inverno; a una salita cattiva gli era venuto il fiatone e non riusciva a farlo passare. Il giorno dopo ha iniziato a fare controlli. Se n’è andato nel novembre del 2011. La chiesa era piena di gente, sembrava il funerale di Pantani, erano venuti da tutta Italia, son dovuto rimanere fuori schiacciato contro il fondo del piazzale. Il corporate rock misura il successo degli artisti contando quanta gente sta sotto al palco.

Lavoro nella stessa ditta, con tutti gli altri ragazzi. Tra di noi non abbiamo mai litigato. At Action Park sta sempre in macchina, lo riascolto sempre, non mi stanca mai. Stando a Wiki è uscito il 24 ottobre del ’94. Vent’anni tondi oggi.

Il disco più bello di sempre.

Quando dico “il disco più bello di sempre” non mento mai, però in realtà il disco più bello di sempre è più di uno. Ci sono tre ragioni per cui lo faccio: la prima è che mi permette di dare un’altra sfumatura a “uno dei miei dischi preferiti”. “Uno dei miei dischi preferiti” posso dirlo di centinaia di dischi. The More Things Change è uno dei miei dischi preferiti,  Zen Arcade è il disco più bello di sempre. La seconda è che mi permette di non scegliere tra Zen Arcade e, non so, End Hits o SxM. La terza è che le ragioni devono sempre essere tre. Il febbraio del 1993 credo sia stato freddo come di solito a febbraio, quando i Nirvana (la formazione è la stessa che ha inciso Nevermind, due anni prima, e che è esplosa in giro per il mondo) entrano in uno studio in culo al Minnesota per registrare il loro secondo disco di inediti su Geffen. il nome degli studi è Pachyderm. Un paio di mesi prima PJ Harvey ci ha registrato Rid of Me (uno dei miei dischi preferiti). Fuori c’è aspettativa. Kurt Cobain è già in down: ha sposato Courtney Love e avuto una figlia, viene massacrato dalle associazioni, divide il mondo tra pro e contro, è già diventato il simbolo di un’inclinazione che non ha idea di cosa sia. Vorrebbe stare bene, ma sta male. Se li ascolti nella provincia romagnola a quindici anni i Nirvana sono un gruppo rock. Magari un gruppo rock grandioso, che piace a tutti e che sta cambiando le cose ed è dappertutto, ma è –di base- un altro gruppo rock. La cosa della musica indipendente e dei Flipper e degli altri duemila gruppi preferiti di Kurt Cobain (il più grande critico rock americano) e di tutto quello che ci sta dietro la sai se hai qualche anno più di me sulle spalle, se leggi i giornali, se hai fatto il primo giro negli anni ottanta e magari racconti con nonchalance di avere visto i Nirvana al Bloom assieme a un altro centinaio di persone. La frase our band could be your life l’ho ascoltata per la prima volta a diciotto o diciannove anni. Odio arrivare dopo.

Per registrare In Utero i Nirvana possono scegliere il produttore che vogliono. È una specie di informale invito a una guerra civile: Kurt Cobain odia Nevermind, il modo in cui è uscito e quel suono così pulito: vuole qualcos’altro che forse sia solo suo, o forse vuole ributtarsi sul mercato dichiarando in faccia al mondo quali siano le sue origini, o forse vuole sabotare la propria carriera con un disco inascoltabile, tornare a suonare nei club e rimettere in piedi la propria vita. Forse vuole solo fare un disco che lo faccia stare bene mentre lo realizza. Difficile dirlo, e in fondo poco importante. Steve Albini lavora con chiunque, ma quando lavora per una major chiede più soldi. Per i Nirvana spunta un compenso di centomila dollari. Non prova alcun affetto per il gruppo. Di loro ha detto cose tipo “REM with a fuzzbox” e per lui non è un complimento. Il disco, secondo i piani, sarà registrato in due settimane al massimo. Albini lavorerà con il suo secondo, un ingegnere del suono di nome Bob Weston. C’è una foto con i Nirvana, i due ingegneri del suono, la figlia di Kurt Cobain e un cane.

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Questa foto l’ho vista per la prima volta due settimane fa, in un pezzo su Rolling Stone. Grazie Chiara. Per la maggior parte della gente immagino sia la foto dei Nirvana con quelli che gli hanno registrato il disco. Per me ha un valore speciale: contiene tutta la mia musica preferita. L’anno successivo uscirà il primo disco del progetto musicale di Steve Albini con Bob Weston, assieme a un batterista del Minnesota di nome Todd Trainer (categoria “il disco più bello di sempre”). Albini e Weston, anche separatamente, produrranno i più sensazionali dischi degli anni novanta e oltre. I Nirvana hanno i nervi a pezzi e sono al loro apice creativo. Le session di registrazione secondo le cronache sono tranquille, con un momento di frizione quando arriva Courtney Love e inizia a metterci il becco. Steve Albini consegna i nastri al gruppo, Cobain fa sentire i nastri alla casa discografica e ai tizi viene un colpo. Si tratta di roba grezzissima, tutt’altro che in bassa fedeltà ma incentrata su un’idea di suono totalmente diversa da qualsiasi standard del ragionevole si possa pensare per un disco pop rock -anche oggi. Le voci non sono doppiate, quasi inintelligibili in certi sfoghi strumentali, le batterie sono piene di echi, come se fossero state registrate dentro l’hangar di un aeroporto. Le tracce parlano perlopiù di tante sfumature diverse per cui l’esistenza fa schifo; i tizi della Geffen non si fanno pregare troppo e decidono di rispedire i nastri al mittente. Delle tracce viene detto “non all’altezza degli standard del gruppo”. Del disco in sé viene detto “impubblicabile”. Kurt Cobain passa dall’euforia dei primi giorni a un’insicurezza cronica; si parla di remixare il disco, Steve Albini s’infuria e rifiuta. Il lavoro di Andy Wallace su Nevermind sembra bruciare ancora un bel po’, finisce con una disputa e la soluzione di compromesso di rimettere le mani sui pezzi che diventeranno singoli. Lo farà il produttore dei REM Scott Litt. e il disco uscirà nel settembre del 1993. Il titolo voleva essere Odio me stesso e voglio morire, ma qualcuno fa cambiare idea a Kurt Cobain.

Nella maggior parte dei casi le situazioni in cui ti ascolti un nuovo disco sono sempre più o meno le stesse, quindi non è facilissimo ricordare cosa hai provato e quando e cosa pensavi fuori dalle orecchie. Questo per i sedici anni: quando sei più adulto semplicemente non hai più quel genere di spinta emotiva e ti occupi di cose che hanno un senso. Però molta gente che ascolta musica ha dei rituali: chi se l’ascolta in cuffia da solo in un viaggio in treno, chi spegne la luce, chi si prende in mano un libro e tutte quelle perversioni lì. Io avevo un mangianastri e facevo quel che potevo. Alcune cose dei dischi che ascolti si perdono nel tempo, alcuni dischi la prima volta manco ti piacciono. Anche quelli belli. Ce ne sono alcuni fatti apposta per non piacerti al primo giro, anche se sono meno di quelli che pensa chi li produce, i dischi. Di In Utero non ricordo dov’ero o con chi o a che volume, no, il volume me lo ricordo, era tutto a destra e io il pomeriggio ero quasi sempre da solo in casa. L’inizio del disco invece è come un film, tutte le volte: ci sono tre colpi di bacchette e poi uno SBRANG terrificante caciaronissimo e poi parte uno dei riff meno carichi della storia del gruppo. I primi due versi li conoscono pure i bambini ma fanno male tutte le volte. E Kurt Cobain li canta e sembra ubriaco. È il più bell’inizio di disco che io abbia ascoltato e il gruppo per ora sta scherzando. Uno se ne accorge quando inizia la traccia due, che invece è la cosa più violenta a cui i Nirvana abbiano mai messo mano e uno dei massimi capolavori di Steve Albini. Da lì in poi ognuno ha la sua classifica. La mia contiene quasi tutte le tracce del disco: persino i pezzi remixati da Litt sono anni luce avanti da certi scempi perpetrati dalla coppia Vig/Wallace su Nevermind. Saltuariamente i ricordi si legano a pezzi di tracce e linee di testo portandomi alla mente il viso di una persona che ho amato o un posto dove stavo o qualcosa che ho detto o non detto a qualcuno, ma per la maggior parte del viaggio, dentro In Utero, sei nella testa di qualcun altro. Di dischi che fanno questo effetto ce n’è pochini, se togli quelli che suonano falsi rimangono cose tipo World Coming Down, metà della produzione di Alan Vega, Life Time, Fausto Rossi e non so nemmeno io che altro. O forse esistono dischi che succedono nella testa delle persone e non suonano come la lettera di un suicida o un grido d’aiuto e magari qualcuno parla di se stesso anche quando parla di lacrimogeni che ti esplodono in faccia e poliziotti che ti prendono a manganellate, ma soprattutto di questi ultimi dubito abbastanza.

Quando finisce All Apologies sono sempre allo stremo delle forze. Questa cosa è difficile da spiegare a qualcuno perché presuppone che la persona con cui parli abbia vissuto da adolescente un periodo in cui la musica più eccitante veniva prodotta da un gruppo che non era pronto, emotivamente, a gestire l’attenzione di così tante persone. E che i cui dischi erano troppo buoni per buttarli fuori dal cono di luce sotto cui stavano così scomodi. Kurt Cobain riuscì a suicidarsi nell’aprile del 1994. Fosse vissuto per sempre, non avrebbe mai scritto e registrato un disco più bello di In Utero. È impossibile. Qualche anno dopo l’internet ci sputerà i confronti coi mix originali delle canzoni. Pezzi sfilacciati. Sono migliori. Suonano verissimi. Odio arrivare dopo. Non ha alcuna importanza.

C’è qualcosa di profondamente disonesto nel continuare ad ascoltare In Utero, c’è qualcosa di personale e non-nostro dentro, che averlo pagato soldi all’epoca non basta a scaricarcelo dalla coscienza. C’è qualcosa di disonesto anche nel prendere un album così figlio dei suoi compromessi e ributtarlo sul mercato in versione super-deluxe, remixato agli Abbey Road da un tizio (lo stesso Albini) che all’epoca non voleva sentirne manco parlare e completato di decine di tracce extra ad allungare il brodo e rendere il viaggio imperfetto e troppo lungo dopo la fine di All Apologies, che già la traccia nascosta in fondo, quando inizia dopo tutto quel silenzio, è troppo da gestire. Un disco che forse era già il massimo che potevamo avere: la testimonianza ultima di un’etichetta che voleva il disco pop e s’è trovata in mano un baccano infernale, di un chitarrista che voleva fare solo un baccano infernale e non riusciva a non buttare fuori le più belle canzoni pop della sua epoca, di un ingegnere del suono che voleva sparire dietro il suo lavoro e che nessuno lo cambiasse. Non ha alcuna importanza: l’altro lato è un mito troppo grande per starci lontani. Ci ha definito nelle sue mancanze e ci ha tenuto svegli. Abbiamo pazientato vent’anni, ora basta: il più bel disco dei Nirvana, il disco più bello di sempre, esce il 23 settembre a celebrare il compleanno in versione ipertrofica. Il menu lo trovate qui. C’è anche un teaser trailer sul tubo, ma è troppo anche per me.

quattro minuti: MISSION OF BURMA – UNSOUND

VIA

Rispetto alla massa di reunion di gruppi storici più o meno bolliti, più o meno compromessi e più o meno abbiam giurato di non parlarci mai più i Mission Of Burma hanno almeno avuto la decenza di rimettersi insieme in tempi non sospetti, senza grossissimi traumi alle spalle e –soprattutto- ripresentandosi al pubblico con una discografia che dire di tutto rispetto è un insulto al gruppo e all’intelligenza critica di un ascoltatore anche un briciolo attento. Unsound si infila dritto dritto nella tradizione dei Mission of Burma riformati, che poi sono più o meno i Mission Of Burma che ricordiamo: un disco di suoni storti che sicuramente abbiamo digerito e considerato “di genere” da tempo immemore ma che ce li riconsegna ai livelli di gruppi tipo Nomeansno o The Ex o qualunque altra band attiva da una trentina d’anni e lontana da tutti i canali che (non) contano, che non ha mai perso un briciolo d’entusiasmo e t’infiamma alla terza o alla quarta nota. E questa cosa è una delle pochissime che continuano a farci andare avanti e a farci sentire dei fan di musica autentici. Nei giorni in cui

STOP

 

(oggi doveva esserci un Listone ma siamo ancora un po’ in ferie. Better luck next week)

cercasugoogle: SERATA CON BOCELLI (brainstorming)

Il seguente brainstorming riguarda chiavi di ricerca con cui la gente è entrata su Bastonate nelle ultime settimane. Grazie a tutti per il contributo. Grazie ad alcuni più che ad altri.

COCAINA PRIMA DEI CONCERTI
Non di recente. In effetti sono talmente povero che spesso e volentieri passo le settimane prima ad elemosinare accrediti a destra e a manca, in genere senza successo. Altro che cocaina. Però venerdì sera a Shellac accanto a me in prima fila c’era un fuorisede palesemente sotto cocaina che rompeva il cazzo.

JUSTIN BIEBER DA PICCOLO
Già è difficile pensare al J.Biebz sedicenne, mollami un secondo

QUANTO MANCA?
Diciassette minuti, quattro dei quali potrei impiegarli per una rece.

NON TI RICORDI DI KEN SIRO
Certo che mi ricordo, l’ultimo discendente della scuola nigeriana di Hokuto.

BASTONATE KEKKO E’ FROCIO?
Non è propriamente una domanda da minestra, ma continua ad apparire nelle statistiche, evidentemente per farmici fare un CSG all’uopo. Grazie. Allora, diciamo che a me piacciono molti maschi, alcuni dei quali proprio me li farei e per i quali non escludo di aprirmi anche alla passività, prima o poi. Perlopiù sono musicisti, economisti e tuttologi di quarta categoria, ma anche certi amici stretti me li farei senza forchetta. Per ora comunque sono un omosessuale non praticante.

VOCE DI JOHN FRUSCIANTE COME AVERLA
Diciamo che il risultato non varrebbe il sacrificio.

COME FARE PER CONTATTARE LA SUB POP PER
Non saprei, mandagli una mail.

MI BASTEREBBE PENSARE KEKKO 2010
Sì, beh, questa è un’autoanalisi brutale.

ENRICO GHEZZI COLPA DEL SOLE
Molto francamente non credo che Ghezzi abbia mai visto il sole in vita sua –tipo io l’ho incrociato due volte verso mezzanotte (trivia: una delle due volte era all’XM24 a vedere i Wolf Eyes. Eroe.) quindi probabilmente è colpa della madre o dei troppi film.

SIGNIFICATO DI DRONES
In inglese drone è il maschio dell’ape.

SERATA CON BOCELLI
Bocelli Andrea? Lo staff consiglia di non indulgere troppo in conversazioni sull’arte, perché di musica sembra non capirne molto e insomma, il cinema non è propriamente il suo campo.

IN ITALIA NON SI SCOPA PIÙ
Questo è un equivoco piuttosto comune. In realtà il coito è stato semplicemente privatizzato in seguito alla stretta dei conti pubblici durante la gestione Padoa-Schioppa. Esiste tuttavia una serie di esenzioni in merito alle quali ti puoi informare presso gli sportelli ASL.

CHE COS E’ UN ESTREMO
può essere un parassita distruttivo delle colonie dell’ape mellifera, esso infatti causa il danneggiamento dei favi cbandosi del miele immagazzinato e del polline. Se l’infestazione diventa sufficiente pesante, le api possono essere indotte ad abbandonare il loro alveare.

CHIUSURA DEI MANICOMI IN ITALIA
Fu un grave errore. Sarebbe stato meglio aprirli al pubblico come scuole di vita. (cit.)

IL CRACK SI FUMA
Ma anche no.

SHELLAC ESTRAGON SOLD OUT PERSONE
Non erano persone. Erano SCOIATTOLI! VERI SCOIATTOLI! Ed erano migliaia. Questa non è una qualche metafora o che. Cristo di un dio, questo è VERO.

LA BASTONATA ROMAGNOLA
Non esiste una traduzione letterale, e comunque il dialetto romagnolo non è una cosa scritta. Io tradurrei con slèpa.