PITCHFORKIANA: Palms, Locrian, Fuck Buttons, Valient Thorr, Jamie Cullum

ho cercato “BEARDO” su google immagini e mi si è aperto un cratere mentale

PALMS – S/T (Ipecac) I Deftones sono un gruppo del cristo e della madonna, e questa cosa me la ripeto spesso come una sorta di mantra che –sono convinto- ci darà un giorno qualcosa di più dell’emotività plastificata di mestiere in repeat che mi rende ormai impossibile riascoltare i dischi (per carità onestissimi) da Saturday Night Wrist in poi. Nel frattempo Chino Moreno esce fuori con l’ennesimo side-project, questa volta con tre Isis (non Aaron Turner) a confermare la sua fede nella Causa del metal, un genere che con l’altra mano giura e spergiura di non praticare. Del disco non serve che sappiate altro: Chino Moreno + gli Isis. A diciannove anni sarebbe stato il mio sogno bagnato, ma a diciannove anni queste cose NON SUCCEDEVANO e quando succedevano s’è imparato abbastanza presto che era meglio se continuavamo a sognare e a bagnarci; in dodici anni di progetti laterali s’è imparato abbastanza bene, comunque, che se c’è un genio nei Deftones non è sicuramente Chino Moreno. Per carità, onestissimo ma se non ha Stephen Carpenter dietro al culo fa fatica a esistere, proprio. Finisce che il disco dei Palms te lo ascolti per capire se a questo giro è riuscito ad infilarci un pezzo decente. Se vi fidate del mio NO potete risparmiarvi la solita sbobba in sei movimenti da otto minuti l’uno. Per carità, onestissimo. (5.0)

LOCRIAN – RETURN TO ANNIHILATION (Relapse) Non sono quel che si dice un cultore dei Locrian (proprio zero) ma tra gli ascolti sparguglioni che ho dato alla sterminata discografia del gruppo ho sentito roba molto migliore del primo disco di Return to Annihilation. Ne ho sentita anche di peggiore, certo, ma il punto è che era chiaro che il primo disco su Relapse avrebbe contenuto il solito minestrone di ambient dronata, sfoghi rumoristi e altre noiosità che permettono ai giornalisti di Pitchfork di citare gente il solito LaMonte Young, il quale mi perdonerete il caps lock ma voglio metterlo in chiaro NON NE HA NESSUNA COLPA. Ecco. Dicevo: il ritorno dei Locrian non è un discaccio da buttare, ma oltre a essere il genere musicale più noioso e inutilmente frequentato dell’ultimo lustro Return to Annihilation può essere tenuto in sottofondo a basso volume mentre cucini una torta salata vegan a una ragazza con una margheritina tatuata sul polso che mette piede sulla soglia di casa tua per la prima volta, e magari lei ti chiede chi è che suona e tu pronunci la parola Locrian alla francese. La domanda che ci poniamo, alla fine di tutto, è quando cazzo è successo che “un disco di metal estremo impossibile da mettere in sottofondo per creare l’atmosfera” sia diventata una richiesta irragionevole. Vaffanculo. (4.6)

FUCK BUTTONS – SLOW FOCUS (ATP) I Fuck Buttons hanno due problemi. Il primo è che fanno musica stupida, e questo non è un problema di per sè quanto legato al fatto che la gente che mediamente si occupa dei loro dischi scrive di musica per gestirsi un bizzarro piano di ammortamento della laurea al DAMS arte. Il secondo problema è che questa cappa di sovrainterpretazioni della loro musica finisce per grigliare i loro dischi. Vi spiego come la vedo io: il più bel pezzo mai realizzato dai Fuck Buttons, e la definitiva incarnazione della loro arte, è il remix di Andrew Weatherall della prima traccia del primo disco. Avete presente? Un bel riffone sintetico alla Growing-maniera con un beat a quattro quarti sotto. Ok, questa cosa sembra chiara anche al gruppo, che da Tarot Sport in avanti ha iniziato a legarsi progressivamente alla musica dance. Ma per via di tutte le irragionevoli aspettative accademiche legate alla musica dei Fuck Buttons e per il fatto che i FB non hanno gli strumenti cognitivi per soddisfare tali aspettative, i loro dischi sono trattati infiniti di come cazzo si possa scomporre la stessa sbobba in tre pezzi invece di tirarne fuori uno solo decente e tirato che abbia tipo il beat della traccia numero 1 e l’ubriachezza markstewartiana della traccia numero 3 ma con il riffone portante della traccia numero 2, o anche solo il riffone portante della traccia 2 ma con una cazzo di drum machine sotto. E così che i loro dischi, pur essendo divertenti e appunto stupidi e riascoltabili potenzialmente all’infinito, danno una sgradevolissima sensazione di cock-teasing che lascia stremati alla fine dell’ascolto. (6.4)

VALIENT THORR – OUR OWN MASTERS (Volcom) è difficile giudicare i dischi dei Valient Thorr sulla base della musica in essi contenuta (noiosetta) piuttosto che sul fatto che siano realizzati da dei malati di mente che li metti su un palco e ti tirano fuori il concerto del millennio e sulla base di questi dischi terranno altri concerti del millennio. Non lo faccio. (7.1)

JAMIE CULLUM – MOMENTUM (Universal) è il primo disco di Jamie Cullum che ascolto. Prima di oggi l’unica canzone che ho sentito di Jamie Cullum è quella che sta nei titoli di coda di Gran Torino e probabilmente se me lo chiedete il minuto dopo che l’ho ascoltata vi dico che è la più bella canzone mai incisa da un essere umano (in quella bizzarra dialettica sognorealtà che rende grandi certe canzoni in quanto di contrappunto a certe scene di film, tipo gli Audioslave per Michael Mann). A volte le cose non le ascolti perchè non vuoi rovinare IL SOGNO e LA PERFEZIONE, altre volte perchè hai degli altri cazzi per la testa; direi che nel caso di Cullum siamo più dalle parti della seconda. La buona notizia, ad ascoltare Momentum, è che a quanto pare non mi son perso niente. (4.9)

dischi stupidi: MUSE – THE 2ND LAW (Warner)

La cosa peggiore dei Muse, qualcuno di voialtri si piglierà male a leggerlo, non è la musica. La cosa peggiore dei Muse è l’esistenza del gruppo. La seconda cosa peggiore dei Muse è che l’esistenza del gruppo non può essere ignorata. Se i Muse non esistessero o se fossero dei Darkness qualsiasi, la musica dei Muse non sarebbe un problema o sarebbe comunque normalissima musica di merda fatta più o meno apposta per segnare a mo’ di bandierina rossa la gente che possiede loro dischi come noti ascoltatori di musica di merda, una categoria di cui tra l’altro fa parte un sacco di gente simpatica e bravissima a fare il proprio lavoro, quindi insomma, senza rancore. Non è così.

I Muse sono con te ogni momento. Anche quando il loro ultimo disco non è uscito di recente e non senti le radio passare i loro pezzi al posto di qualsiasi altra cosa passi per radio, c’è un sentore nell’aria che non accenna a sparire, s’infila tra le scapole come un coltello e rende noioso e senza senso qualunque discorso sulla musica in cui ti trovi coinvolto durante la giornata (da internet in poi passare tutto il tempo libero a parlare di cretinate sulla musica non vuol più dire che sei un idiota totale).

Prendiamo, più o meno a caso, il nuovo disco dei Grizzly Bear. Ora, io non odio i Grizzly Bear, sono bravissimi nel genere che fanno e sono dei buoni autori di canzoni, caratteristica che di per sè (specie in questo periodo storico) li rende molto più fighi della media dei gruppi del nostro tempo. Però i Grizzly Bear hanno un’attitudine troppo al centro delle correnti e/o il fatto che siano così gentili e perfetti nel loro essere occasionalmente sporchi dà alla loro musica un fastidioso gusto da giro nei bassifondi, come se l’indie-folk fosse una condizione transitoria dell’esistenza sulla strada per diventare Yusuf Islam, quindi per certi versi una cosa sbagliata e sospetta dal punto di vista politico, come se in realtà i Grizzly Bear non avessero voluto fare davvero i dischi che stanno facendo e stiano sfregandosi le mani alla Bruno Vespa sussurrando a mezza bocca vedrai tra cinque anni col singolo alla fine del nuovo film di Wes Anderson. Per farsi quest’opinione uno come me passa diverso tempo sui loro dischi, li riascolta continuando a trovarli tutto-sommato-carini e registrando il fatto che non scatta quel fatidico click che ti mette in perfetta sintonia con un artista/gruppo, e poi magari si infila in una discussione su Friendfeed o su FB o su qualche forum e la spiattella a tutti preparandosi ad argomentare e non farsi dare del troll mentre continua a sentirsi il disco. Poi il disco dei Grizzly Bear finisce e magari inizia il nuovo disco dei Muse, il peggior coacervo di puttanate messe in musica dai tempi del disco precedente dei Muse, un buco nero culturale in cui Matt Bellamy e soci ripescano a cazzo qualsiasi brutta cosa sia mai stata messa in musica (Jean Michel Jarre, i Queen, i peggiori U2, il glam-metal e tutto il resto) e lo frullano in un contenitore nuovo di musica ancora più priva di gusto, senso e vergogna. Qualsiasi altro esempio recente di musica sbagliata semplicemente non può competere. E nello stesso momento io sto lì a dire cose brutte dei Grizzly Bear, sentendomi come uno che va a fare una vacanza in Congo e si lamenta perchè nel bagno della sua camera il bidè non butta acqua calda.

Il punto è che i Muse possono tutto sommato stare in una discografia come la mia e la vostra. Hanno suonato di spalla ai Deftones e ai RATM in festival italiani, lo so perchè c’ero, e la gente faceva sì con la testa immaginandoseli più avanti in scaletta l’anno successivo. E hanno continuato un processo di plastificazione della musica che ha qualcosa di sublime e fascinoso nel suo andare contro qualsiasi buon senso legato al gusto musicale di chiunque io conosca, lasciando volentieri ai Coldplay (altro gruppo di cui ti viene da dire tutto il male possibile e poi ti ricordi dei Muse) l’ingombrante ruolo di nuovi Radiohead/U2, diventando un concetto bruttissimo che riesce a far coesistere pomp rock di merda e pop di merda nello stesso format in cui tutto è gigantesco e luminoso e pieno di visual per la gioia dei settantamila che si dirigono verso San Siro col cartoncino di sangiovese del Ronco e la maglia del tour precedente dei Muse. E nel contempo ogni nuovo disco di Bellamy & Co. mette in piedi un nuovo dibattito tra quelli pro e quelli contro, nel quale pesi da una parte l’oggettiva bruttezza della loro musica e dall’altra il fatto che suonino bene dal vivo e/o abbiano un passato rispettabile. Che tra l’altro non è: uno si ascolta Showbiz e anche se non sono ancora presenti i pezzi plagiati da una Another One Bites the Dust è già tutto lì dentro, in nuce, manco troppo nascosto nei riffoni cock rock delle varie Muscle Museum a battere il tempo di un britpop dopatissimo stile ecco i figli di OK Computer (voglio dire, guardando ai Muse i Radiohead di Kid A assumono davvero un senso). E sì, la griglia dei sostenitori tra chi ha un’idea anche solo vaga di musica si sta assottigliando, ma continuano a essercene, vivono tra noi e li sostengono in quanto gruppo in continua mutazione che non siede sugli allori. Questa cosa con i Maroon5 non succede, nemmeno a fronte dell’occupazione militare di Radio Deejay all’uscita di ogni nuovo singolo. Perchè? A che pro? Continuo a non capire. Continuo ad ascoltare ogni nuovo disco dei Muse per rendermi conto quanto e come sia possibile SBAGLIARE un disco con a disposizione un budget potenzialmente illimitato e un personale che ti permetta di fare qualsiasi cosa tu voglia, di quanto il gruppo tocchi nuove frontiere del cattivo gusto e della vergogna. Mi ritrovo con le mani in mano e la morte nel culo, e credo che davvero The Second Law sia il punto di arrivo, l’esperienza limite, il disco più cafone in senso sbagliato della storia della musica. E poi mi rendo conto che prima o poi lo dimenticherò, passerò ad altre battaglie e darò un senso al tempo che perdo ad aggiornare Bastonate. E poi i Muse faranno un altro disco e lo metteranno in streaming sul Guardian e ci ritroveremo tutti daccapo, tutti dalla stessa parte della barricata a darci di gomito e offrirci birre sfottendo chi si fa la notte in bianco per comprare il biglietto in prevendita a 80 euro.

Navigarella: GIORNALISTI MUSICALI VS. NEMICI DELLA MUSICA

Lana del Rey ha cantato dal vivo una versione non disprezzabile di Heart-Shaped Box, e quando dico non disprezzabile intendo dire in realtà darsi fuoco. Mentre la rete si divideva più o meno a metà tra colpevolisti a prescindere e innocentisti a prescindere (tutto si può dire di Lana del Rey meno che non sia stata coerente nel non far nulla per farsi odiare da chi la ama o farsi amare da chi la odia, in questo vera popstar-chiave del nostro millennio), Courtney Love ha detto una cosa su twitter tipo AHAHAH STAI CANTANDO UNA CANZONE SULLA MIA FIGA. Continuano le celebrazioni della morte di Kurt Cobain.

C’è una prima anticipazione del nuovo disco degli Animal Collective, uno dei pochi gruppi bolliti da anni e anni che in realtà no. Anche il disco nuovo sembra poterci piacere molto.

Sta per uscire il secondo disco della Corin Tucker Band. Il primo disco della Corin Tucker Band è una delle pochissime testimonianze audio del fatto che si possa fare musica rock normale senza necessariamente venire inclusi in un gruppo di spocchiose teste di cazzo che fanno musica rock mimando un anacronistico ritorno alla normalità nel disperato tentativo di venire considerati un nuovo trend di gente a cui forse non frega un cazzo di niente ma io guarderei bene cosa c’è sotto (cosa che tanto per dire non è riuscita alle molto più considerate Wild Flag, cioè le ex-Sleater Kinney senza Corin Tucker, autrici di un disco brutto e triste in culo su cui si è sviluppato un minuscolo hype un paio d’anni fa). Il secondo disco della Corin Tucker Band, a giudicare dai primi due estratti, promette d’esser quasi meglio del precedente, e meno male che ci sono i volti nuovi di vent’anni fa ad indicare nuove strade da percorrere ai volti nuovi di adesso.

A proposito di anacronismo, c’è un flame molto divertente sul facebook di Edoardo Bridda. Edoardo Bridda sarebbe il boss o uno dei boss di SentireAscoltare. Sulla sua pagina ha postato il link a una recensione di Ondarock dei Wild Nothing uscita (a quanto pare) un mese prima del disco. Lamenta il fatto che quelli di Ondarock si sono sempre dichiarati contrari a questa cosa e via di questo passo. Nei commenti al post si scatena una specie di guerra delle coscienze, interviene perfino Claudio Fabretti con un tono tipo “io sono il boss di Ondarock, sono intervenuto qui ma ora c’ho degli altri cazzi da fare e comunque di quel che fate voi me ne frego”. In realtà è lo scontro tra due modelli di giornalismo musicale: il primo si sbatte a duemila per essere sempre sul pezzo, il secondo si erge a roccioso bastione del mercato musicale tradizionale, supporta etichette distributori e artisti e se ne va per la sua strada. La cosa più tenera è farsi il viaggio e pensare che dietro tutto questo ambaradan ci sia una lotta senza esclusione di colpi per diventare il web magazine italiano più influente della storia E una recensione arrivata un mese prima influenza irrimediabilmente l’ascolto, bruciando la recensione dell’altro sito e determinando in maniera indelebile il gusto dell’ascoltatore in merito al disco dei Wild Nothing. Bridda mette il tutto sotto forma di domanda: e voi cosa farete? Pubblicherete la recensione dei Wild Nothing in questi giorni o quando sarà uscito il disco? Difficile a dirsi, ma immagino che Bastonate non pubblicherà la recensione del disco di merda dei Wild Nothing, parlo senza averlo ascoltato MA avendo letto la recensione di Ondarock, prima della data di uscita ufficiale. Né dopo, credo, ma non si può mai dire. Ho scritto cose per entrambe le webzine, una parte del mio passato che non ricordo con orgoglio.

 

E dato che abbiamo iniziato a rompere i coglioni alle webzine, andiamo con una rapida rassegna di recensioni italiane del nuovo disco dei Baroness. Ora, il disco per quanto mi riguarda è una ciofeca prog anni settanta suonata con un briciolo di gusto e senza un briciolo di botta, con un approccio tipo “ora ti spiego il post rock e tu lo capirai anche se metallaro e ignorante” (che dopo dieci anni di Neurosis in tutte le salse mi sembra pure un po’ patetico). L’elenco serve a dimostrare quanto e come un disco per il quale è in corso un PLEBISCITO (di quelle che ho letto la stroncatura più violenta è quella di metalitalia, in numeri un 6,5) contenga in quasi tutte le recensioni un riferimento al fatto che è un disco che dividerà gli ascoltatori.

Intanto, il gruppo americano rimarrà vittima di un’antica contraddizione: se proponi sempre le stesse cose, sei monotono e pecchi di capacità evolutiva; ma se cambi strada e tenti qualcosa di nuovo, sbagli comunque e l’accusa è di aver ceduto la purezza artistica alle sirene del mercato. (metal.it)

“Yellow & Green” è quindi il disco che pone definitivamente i Baroness su un altro piano, rispetto al metal estremo e al post hardcore delle origini, e lo fa con lucidità e cognizione di causa, applicando strutture e concetti cardine della storia del rock al proprio stile originario, approdando a una sintesi stilistica inaspettatamente viva e fertile. (metallus)

Per ascoltare “Yellow & Green” ci vogliono orecchie nuove e maggiore sensibilità, bisogna riconoscere l’evoluzione del sound e i motivi alla base di questa scelta. Per gli scontenti ci sono sempre i dischi rosso e blu, per tutti gli altri “Yellow & Green” potrebbe essere un valido motivo per spendere ore e ore cullati dalla bellezza che solo la musica può offrire. (spaziorock)

grazie a una band come i Baroness è possibile che si inauguri una nuova stagione nel mondo della musica metal. Una stagione che dividerà, che creerà scompiglio, che farà perdere ai Baroness il pubblico più intransigente, ma farà loro guadagnare il rispetto di chi, anche dal metal, chiede un’evoluzione. Ed oggi, si dica chiaramente, i Baroness sono una delle forme più evolute di metal con la quale possiate confrontarvi. (sentireascoltare)

Non abbiate paura ad avvicinarvi a questo Yellow And Green: aprite la vostra mente ed ascoltatelo fino a farlo entrare in circolo dentro di voi, solo così riuscirete a mettevi in contatto con le anime di questa band eccezionale (che è vero non hanno ancora messo a fuoco perfettamente la propria strada, ma che sicuramente hanno dimostrato di sapersi mettere in gioco) (metallized)

Scandalo, capolavoro. Si sono venduti, anzi no, hanno fatto il loro miglior disco. No, no, è un album vergognoso, l’ho cestinato subito; però si sono rinnovati nel migliore dei modi. Stanno facendo come i Mastodon, sono meglio dei Mastodon. Abbiamo già sentito, e probabilmente sentiremo ancora a lungo, i pareri più disparati sul nuovo album dei Baroness, nome sempre più conosciuto che sta travalicando i confini del panorama sludge metal a cui era relegato. Alcuni giudizi ci sembrano affrettati, altri espressi con eccessiva presunzione, tanto perché al giorno d’oggi se non ascolti i Baroness sei un po’ “indietro” (però fino a pochi anni fa eravamo ancora quattro gatti a vederli, chi è indietro allora?) (gotr)

Il bello dei “nuovi” Baroness è, forse, anche questo: ascoltare capitolo per capitolo con viva e rinnovata curiosità, senza sapere bene dove porterà lo step successivo. Un genuino disorientamento che, se per alcuni sarà testimone di un decadimento mentale e qualitativo senza freni, per noi è il simbolo di quella decomposizione di cui in avvio: il salutare decesso dell’ordinarietà verso nuovi orizzonti, nuovi traguardi. (storia della musica, e questa è IMPORTANTE che ve la leggiate tutta, possibilmente sotto l’effetto di qualcosa)

Badilate di cultura: STA USCENDO IL SOLE E CHI L’HA USCENDO SEI TU

I veri idioti sbagliano gli apostrofi a voce.

Azael è il nickname di un tizio che si chiama Massimo Santamicone e del quale so qualcosa perchè sta su twitter. Un po’ scrive poesie un po’ racconti un po’ stronzate sui social network, e in non-ottemperanza della prassi online che impone di impezzare la gente via mail e magari farci qualcosa assieme o un do ut des o che altro, continuo a non averci mai parlato e a non sapere chi sia esattamente. Se avete mezz’ora da perdere, comunque, vi conviene far partire il video sotto e riconciliarvi in via definitiva con concetti tipo blogging, blogfest, reading etcetera.

Visto il video e letto qualcosa in giro per la rete, mi sono scaricato i pdf regalati da Azael nel suo sito. Azael si limita a raccogliere tutte le minchiate che scrive su twitter o friendfeed in un anno e farci una quarantina di pagine in pdf con licenza creative commons. Lette tutte una in fila all’altra, senza soluzione di continuità, hanno un senso bizzarro. È da qualche mese che sto pensando di copiarlo, ma non ho ancora iniziato a mettere da parte le minchiate che scrivo su twitter. Voglio dire, stanno su twitter, speriamo si siano salvate da sole (ne dubito). Magari un giorno faccio il pdf. Non sarà carino come i suoi. Nel frattempo di libri suoi ne è uscito un altro e si chiama Sta uscendo il sole e chi l’ha uscendo sei tu. Per la prima volta l’ha messo a pagamento: 89 centesimi, da scaricare nei vari formati (qui il pdf). Sarebbe carino da parte vostra investirli in una cosa su cui abbia senso investirli, cioè –appunto- il LOL e uno che si scrive da solo i suoi libri di minchiate e che quando decide di farli pagare li fa pagare novanta centesimi, stima per eccesso.

streamo: BIOSPHERE – L’INCORONAZIONE DI POPPEA

NO ALL’ITALIA DEI BANCHIERI

Smaltite le acrobatiche texture dell’opus magnum biospheriano, L’INCORONAZIONE DI POPPEA sottopone al trattamento del fondamentale artista minimal norvegese la tradizione operistica mitteleuropea in un’orgia di field-recordings la cui devastante nudità esplode in tutto il suo spericolato intimismo. Decine e decine di telefonatedei nostri fans ogni giorno ci intasano la casella chiedendoci come mai Amy Winehouse è morta in così tenera età e soprattutto di spiegare la differenza tra un giornalista musicale e un blogger musicale. Su Amy Winehouse non ho una vera e propria opinione, per quanto riguarda la differenza tra giornalisti e blogger è che mentre i primi scrivono ogni pezzo pensando alla loro reputazione e ad un discorso generale, i secondi pensano più che altro alla figa e a fare quarantasei accessi singoli. Noi redattori di Bastonate invece cerchiamo di barcamenarci tra l’una e l’altra, lasciandosi spesso andare in arditi processi mentali i cui picchi ci portano persino ad approcciare le tizie nei posti generici dicendo cose tipo ciao, già ai tempi dell’uscita scrissi che Kid A era ideologicamente sospetto, scopiamo?, e su alcune delle cose che ho detto sopra non sto mentendo. Il tutto è una complicata premessa per dire che contrariamente ai giornalisti musicali, a uno come me l’uscita di un disco di Biosphere intitolato L’INCORONAZIONE DI POPPEA, ovviamente col caps lock., mi prende bene a prescindere da tutto e in un modo così innocente e fiero che non ho la minima intenzione di capire come cazzo gli sia venuto in mente di farlo. Comunque, in attesa che Ondarock o Sentire Ascoltare caghino fuori una parafrasi del primo capoverso, c’è un disco di Biosphere (artista che seguiamo appassionatamente e con continuità dai tempi del fondamentale Substrata, vale a dire che di alcuni suoi dischi ci siamo scaricati gli mp3 con Napster o Audiogalaxy e magari ne abbiamo comprato pure un paio quando Wide faceva gli sconti e probabilmente i redattori m.c. ed asharedapilekur li hanno pure passati un paio di volte sullo stereo) intitolato L’INCORONAZIONE DI POPPEA in streaming su Bandcamp ed acquistabile a sette euro sempre su Bandcamp (l’ho scoperto ieri sul forum del Mucchio e ringrazio l’amico Luca per la segnalazione). Per metà è un disco di ardite rivisitazioni di suoni tradizionali in salsa minimal-ambient-morte norvegese e per metà sembra fatto di romanze normalissime e pallosissime su cui un metallaro alza e abbassa il volume a intervalli irregolari per fare incazzare la morosa che lo sta ascoltando, e sì, ho qualche scheletro nell’armadio pure io. Possibile disco dell’anno e ideale coronamento di tutto il discorso maximal-casualissimo inaugurato e fortunatamente terminato con un orribile articolo di Simon Reynolds forse su Pitchfork, che ha hauntato tutto il 2012 e generato una nuova razza di indierockers sospesi tra Black Dice e cartoni animati giapponecri tipo Rainbow Island e simili. Massimo rispetto.

DISCONE: PIL – This is PIL

È da qualche tempo che non riesco più a leggere o sentire la parola PUNK senza provare un moto di fastidio, ed è abbastanza bizzarro se pensi che tuttora non riesco a non ammettere che  Fresh Fruit for Rotting Vegetables è il mio disco preferito. È che semplicemente da qualche anno i discorsi sul PUNK hanno perso completamente la brocca: non è mai stato chiaro cosa significasse come definizione, ma credo che fino a una quindicina/ventina d’anni fa tutti fossero d’accordo che PUNK supponesse una situazione in cui qualcosa rompeva vistosamente delle regole culturali esistenti e formalmente rispettate. Poi il termine è tornato di moda, e poi rompere le regole era diventata una specie di regola fissa ed oggi siamo arrivati al punto in cui se un disco non è immesso sul mercato in una forma inusuale (download, streaming gratuito, nameyourprice, applicazione iPad, video interattivo, esecuzione dal vivo in mezzo a un cerchio del grano etc etc etc) finisce a vendere duecento copie tra i tuoi parenti e non è detto che non ci finisca comunque, e quindi essere punk è la regola anche per Rihanna e secondo l’interpretazione corrente del termine è possibile considerare punk un normalissimo disco folk registrato da un ex artista non-folk, sulla base che –semplicemente- non è una cosa a cui l’artista in questione è avvezzo.

Da questo punto di vista non stupisce (anche se irrita) il fatto che John Lydon, cioè uno dei principali modelli a cui si pensa nell’usare il lemma in questione, si prenda la briga di esistere giostrandosi in contemporanea tre identità in palese conflitto l’una con l’altra: cantante dei Pistols riuniti ormai su base triennale, comprimario di lusso in programmi TV spazzatura ed artefice unico di un progetto PIL rimesso in strada dopo vent’anni di inattività. La reunion dei Public Image Limited era già stata fastidiosa al tempo dell’annuncio, quando diventò chiaro che non era altro che un ripescaggio del moniker con un turnista delle Spice Girls al posto di Jah Wobble e Keith Levene dimenticato da qualche parte all’inizio degli anni ottanta. D’altra parte il terreno era favorevole all’Uomo: per prima cosa i PIL sono la sega mentale di John Lydon dal terzo disco in poi, e –soprattutto- la fanbase dell’Uomo consta perlopiù di una serie di post-rockers avvinazzati e propensi a considerare puro genio qualsiasi cosa esca dal suo cilindro, ivi compreso farsi dilaniare in diretta TV da un branco di struzzi. Nei tempi che viviamo è molto difficile trovare qualcuno il cui impatto culturale resista così tanto a fronte di così poco sforzo.

L’Uomo, dal canto suo, ha sempre avuto un’invidiabile nonchalance nel prestarsi alle peggiori pantomime a cui possa prestarsi una rockstar dismessa, e di certo gli va riconosciuto un talento naturale di equilibrista delle situazioni (o situazionista dell’equilibrio), almeno fin dai tempi della prima reunion dei Pistols, con quel bizzarro aplomb stile sto facendo una cosa specifica in questo momento e questa cosa che faccio non mi sta definendo come persona che a conti fatti gli ha evitato di esser preso sul ridere o sul serio in un sacco di momenti chiave e di diventare un’icona pop contemporanea qualunque fosse il periodo a cui il termine contemporaneo si riferisse. La cosa ha un suo senso soprattutto se consideriamo appunto lo svilirsi sostanziale del termine punk, una specie di limbo ideologico secondo cui avanguardia è una dimensione musicale introdotta tra la fine del ’77 e il ’79 e riprodotta per filo e per segno nei trent’anni successivi facendo attenzione a non sgarrare mai.

Il paradosso finale è che una delle più coinvolgenti critiche a questo stato mentale venga proprio dal disco nuovo a firma PIL, specie se anticipato da un singolino calligrafico ed evanescente come One Drop. Rimasto solo al comando e privo di qualsiasi obbligo morale, John Lydon esce allo scoperto con una dozzina di deliranti proclami millelire che se non stessimo parlando di un manigoldo verrebbe da paragonarle a Dujang Prang di Alan Vega. This is PIL si fonda sulla stessa idea estenuante di minalismo applicato al pop e lo rappresenta in modo molto più crudo e impressionante delle più rosee aspettative in merito, per esplodere in capolavori di nu-disco mongoloide alla Lollipop Opera che solleticano la voglia di evasione dell’ascoltatore prima di risbatterlo in mezzo a una strada. Non fosse per le occasionali (e brutali) rimpatriate dei Martin Rev e/o Mark Stewart e/o Robert Hood del caso, probabilmente non sarebbe possibile trovare tracce della musica contenuta in This is PIL in quasi niente di quello che sta in commercio. Lo stesso appeal da lavoretto a cottimo minimo sindacale dell’opera (che a conti fatti potrebbe essere riprodotta con gli stessi risultati in una decina di altri titoli da qui alla fine dell’anno) ne aumenta il fascino. Non so dire quanto durerà, ma al momento (e contro ogni aspettativa) l’ultimo disco dei PIL mi sembra la cosa più giusta da ascoltare in questi giorni.

PS: INTERNATIONAL DAY OF SLAYER. Fatevi sotto.

Piccoli fans: BLACK BREATH

Il mio amico Gilberto (non ho amici di nome Gilberto, ovviamente) mi chiama esaltato e mi dice che deve TROPPO farmi sentire un gruppo. Gilberto è un fighetto impenitente che ha ascoltato death metal fino all’anno prima, poi ha scoperto il rock anni sessanta/settanta e infine è caduto dentro al postrock, abbandonando in toto le cose che ascoltava in precedenza. Mi ha chiamato perchè gli hanno passato il primo disco degli Haunted e sta pensando di tornare al metal. Siamo nel ’98. La mia trippa non è ancora così terribilmente debordante. Ho una vita sessuale regolare per la prima volta da quando sono nato. Li ascolto e penso di tornarci pure io, al metal, anche se non credo di essermene mai andato.

La cosa va avanti per una mezz’oretta, poi il metal torna dove stava. Gli Haunted continuano ad essere un buon gruppo, ma non sono gli At The Gates, e probabilmente non sono mai riusciti a superare il problema fondamentale dei loro dischi -cioè che nessuno dei pezzi venuti dopo la traccia 1 del primo disco (Hate Song) riesce a superare la perfezione della traccia 1 del primo disco.

Black Breath è la nuova novità nuova di casa Southern Lord. La musica di casa Southern Lord sta smettendo le proprie inclinazioni avant e cercando una propria innocenza di secondo grado, declinandosi in recuperi vintage di rara bellezza ed in nuove band con un tasso di aggro che quasi quasi a Greg Anderson non glielo sospettavi più (con tutto che cercare di ricostruire chirurgicamente il filo della cappella è davvero qualcosa di molto andersoniano). Da questo punto di vista Black Breath è davvero un acquistone, e piazzare il loro primo disco sul lettore ci porta in territori che la maggior parte della gente che ci siamo auto-venduti come importante se li può giusto immaginare mentre se le tira. Non che Black Breath lo sia, importante: piuttosto è un buon modo per ripescare certi dischi che hai lasciato nello scaffale dei non li ascolto più, non si sa bene su quale base, tipo la seconda fase degli Entombed o -appunto- Haunted et similia. Che diocristo scusa se è poco, e aggiungeteci pure che sono di Seattle e che come prima influenza su myspace citano i Poison Idea. E parimenti, ovvio, si abbeverano a quel genere di immaginario del cazzo da cafoni che ultimamente sta tornando in auge -stile 3 Inches Of Blood o Valient Thorr, per capirci: fate conto che il primo pezzo si chiama Black Sin (roba da quarta elementare) ed è sottotitolato Spit On The Cross (roba da terza media). Sono talmente dritti e dozzinali che a metà del disco viene voglia di rileggere Musil per compensare. Probabilmente nemmeno loro andranno mai oltre la traccia 1 di Heavy Breathing -o quantomeno la prima metà della traccia 1, dopo diventa pure un po’ palloso- ma visto quanto vi costa scaricarvi i dischi ultimamente vi conviene dargli una possibilità. Probabilmente il primo disco di Black Breath è DAVVERO la cosa che state cercando di questi tempi per far tornare al metal il vostro amico Gilberto per un paio d’ore. No scranno no party.

E comunque il miglior gruppo Black-qualcosa su Southern Lord continua ad essere Black Cobra. Sai che notizia.