PITCHFORKIANA: Palms, Locrian, Fuck Buttons, Valient Thorr, Jamie Cullum

ho cercato “BEARDO” su google immagini e mi si è aperto un cratere mentale

PALMS – S/T (Ipecac) I Deftones sono un gruppo del cristo e della madonna, e questa cosa me la ripeto spesso come una sorta di mantra che –sono convinto- ci darà un giorno qualcosa di più dell’emotività plastificata di mestiere in repeat che mi rende ormai impossibile riascoltare i dischi (per carità onestissimi) da Saturday Night Wrist in poi. Nel frattempo Chino Moreno esce fuori con l’ennesimo side-project, questa volta con tre Isis (non Aaron Turner) a confermare la sua fede nella Causa del metal, un genere che con l’altra mano giura e spergiura di non praticare. Del disco non serve che sappiate altro: Chino Moreno + gli Isis. A diciannove anni sarebbe stato il mio sogno bagnato, ma a diciannove anni queste cose NON SUCCEDEVANO e quando succedevano s’è imparato abbastanza presto che era meglio se continuavamo a sognare e a bagnarci; in dodici anni di progetti laterali s’è imparato abbastanza bene, comunque, che se c’è un genio nei Deftones non è sicuramente Chino Moreno. Per carità, onestissimo ma se non ha Stephen Carpenter dietro al culo fa fatica a esistere, proprio. Finisce che il disco dei Palms te lo ascolti per capire se a questo giro è riuscito ad infilarci un pezzo decente. Se vi fidate del mio NO potete risparmiarvi la solita sbobba in sei movimenti da otto minuti l’uno. Per carità, onestissimo. (5.0)

LOCRIAN – RETURN TO ANNIHILATION (Relapse) Non sono quel che si dice un cultore dei Locrian (proprio zero) ma tra gli ascolti sparguglioni che ho dato alla sterminata discografia del gruppo ho sentito roba molto migliore del primo disco di Return to Annihilation. Ne ho sentita anche di peggiore, certo, ma il punto è che era chiaro che il primo disco su Relapse avrebbe contenuto il solito minestrone di ambient dronata, sfoghi rumoristi e altre noiosità che permettono ai giornalisti di Pitchfork di citare gente il solito LaMonte Young, il quale mi perdonerete il caps lock ma voglio metterlo in chiaro NON NE HA NESSUNA COLPA. Ecco. Dicevo: il ritorno dei Locrian non è un discaccio da buttare, ma oltre a essere il genere musicale più noioso e inutilmente frequentato dell’ultimo lustro Return to Annihilation può essere tenuto in sottofondo a basso volume mentre cucini una torta salata vegan a una ragazza con una margheritina tatuata sul polso che mette piede sulla soglia di casa tua per la prima volta, e magari lei ti chiede chi è che suona e tu pronunci la parola Locrian alla francese. La domanda che ci poniamo, alla fine di tutto, è quando cazzo è successo che “un disco di metal estremo impossibile da mettere in sottofondo per creare l’atmosfera” sia diventata una richiesta irragionevole. Vaffanculo. (4.6)

FUCK BUTTONS – SLOW FOCUS (ATP) I Fuck Buttons hanno due problemi. Il primo è che fanno musica stupida, e questo non è un problema di per sè quanto legato al fatto che la gente che mediamente si occupa dei loro dischi scrive di musica per gestirsi un bizzarro piano di ammortamento della laurea al DAMS arte. Il secondo problema è che questa cappa di sovrainterpretazioni della loro musica finisce per grigliare i loro dischi. Vi spiego come la vedo io: il più bel pezzo mai realizzato dai Fuck Buttons, e la definitiva incarnazione della loro arte, è il remix di Andrew Weatherall della prima traccia del primo disco. Avete presente? Un bel riffone sintetico alla Growing-maniera con un beat a quattro quarti sotto. Ok, questa cosa sembra chiara anche al gruppo, che da Tarot Sport in avanti ha iniziato a legarsi progressivamente alla musica dance. Ma per via di tutte le irragionevoli aspettative accademiche legate alla musica dei Fuck Buttons e per il fatto che i FB non hanno gli strumenti cognitivi per soddisfare tali aspettative, i loro dischi sono trattati infiniti di come cazzo si possa scomporre la stessa sbobba in tre pezzi invece di tirarne fuori uno solo decente e tirato che abbia tipo il beat della traccia numero 1 e l’ubriachezza markstewartiana della traccia numero 3 ma con il riffone portante della traccia numero 2, o anche solo il riffone portante della traccia 2 ma con una cazzo di drum machine sotto. E così che i loro dischi, pur essendo divertenti e appunto stupidi e riascoltabili potenzialmente all’infinito, danno una sgradevolissima sensazione di cock-teasing che lascia stremati alla fine dell’ascolto. (6.4)

VALIENT THORR – OUR OWN MASTERS (Volcom) è difficile giudicare i dischi dei Valient Thorr sulla base della musica in essi contenuta (noiosetta) piuttosto che sul fatto che siano realizzati da dei malati di mente che li metti su un palco e ti tirano fuori il concerto del millennio e sulla base di questi dischi terranno altri concerti del millennio. Non lo faccio. (7.1)

JAMIE CULLUM – MOMENTUM (Universal) è il primo disco di Jamie Cullum che ascolto. Prima di oggi l’unica canzone che ho sentito di Jamie Cullum è quella che sta nei titoli di coda di Gran Torino e probabilmente se me lo chiedete il minuto dopo che l’ho ascoltata vi dico che è la più bella canzone mai incisa da un essere umano (in quella bizzarra dialettica sognorealtà che rende grandi certe canzoni in quanto di contrappunto a certe scene di film, tipo gli Audioslave per Michael Mann). A volte le cose non le ascolti perchè non vuoi rovinare IL SOGNO e LA PERFEZIONE, altre volte perchè hai degli altri cazzi per la testa; direi che nel caso di Cullum siamo più dalle parti della seconda. La buona notizia, ad ascoltare Momentum, è che a quanto pare non mi son perso niente. (4.9)

Cose assurde che succedono.

CaveIn_Cover

Una cosa che -così, a caso- ci riconcilia con il mondo della musica è che l’uscita n.13 dell’etichetta degli Unsane (Coextinction,  già dato) è una registrazione nientemeno che dei Cave In, risalente tra l’altro al 2002: due pezzi finiti su Antenna e uno di Tides of Tomorrow, la fase prog-melodico-malcagata del gruppo di Boston che amiamo più o meno da sempre e che da adesso in poi è endorsata da Chris Spencer in persona.

Basta poco a farmi contento. Il disco non l’ho ancora sentito, l’ho comprato in digitale a scatola chiusa -solita trafila di sempre- e ora lo piazzo in auto. Ci sono cose peggiori da comprare con tre euro.

MATTONI issue #18: THE ATOMIC BITCHWAX

Beccati questa Fritz Lang.

Eccolo dunque il colpetto da stronzo, la Prova Di Forza, la dimostrazione di prevaricazione gratuita e assolutamente non richiesta. Io ti spiezzo, il mio uccello è più grosso del tuo, e chi sarà mai questo Jimi Hendrix, io ho fatto 975.000 dollari l’anno scorso tu quanto hai fatto?, guarda come vado a canestro, il mio SUV è più ingombrante di una portaerei e inquina quanto Fukushima all’ora di punta, ho le palle grosse come cocomeri e mi sono appena scopato tuo padre. The Local Fuzz è la trasposizione in musica del teppista più antipatico e pieno di sé che alle elementari ti rubava la merenda umiliandoti fino alle lacrime durante la ricreazione; se fosse un film sarebbe Novecento (grandeur epocale e durata estenuante e bestemmie di bambini e cazzi barzotti di De Niro e Depardieu compresi), se fosse un libro sarebbe l’Ulisse, però lungo il doppio e senza punteggiatura. Somiglia piuttosto a un film porno o a una partita di calcio infinita, gesto atletico allo stato puro, con la differenza che qui è divertente: quarantadue minuti di stoner blues rock psichedelico e tastierato alla vecchia, un monumento al fuzzbox che Mark Arm al confronto è un dilettante piagnucoloso, motivato e animato da una carica di testosterone come manco un plotone di camionisti in un bordello dopo un viaggio non-stop di sei mesi. Gli Atomic Bitchwax, fino ad oggi poco più di un simpatico gruppetto di onesta manovalanza stoner delle retrovie, noti più che altro per essere partiti come side-project del biondo Ed Mundell (chitarra stordente nei Monster Magnet migliori), hanno scritto con The Local Fuzz il loro Presence, il loro Time Does Not Heal, però tutto condensato (si fa per dire) in un unico pezzo. Soprattutto, ci risparmiano l’immenso strazio di dover subire qualche bolso clone del cazzo di Robert Plant che latra BABY BABY BABY BABY BABY nei momenti più atroci (il disco è interamente strumentale), e anche soltanto per questo RISPETTO a prescindere. Certo ci sono alcuni momenti (per la precisione ai minuti 18, 23, 29, 35 e 38) in cui la continuità cede e si passa brutalmente da una sequenza di riff a un’altra senza apparente costrutto, ma questo succede comunque senza mai pregiudicare lo scopo principale del pezzo, che è mettere simpaticamente i piedi in testa a chiunque sia convinto di saper suonare in modo più viscerale, stronzo e drogato dei tre cazzoni sballoni qui presenti. The Local Fuzz è sicuramente il MATTONE più divertente intercettato finora.

DISCONE: Cave In – White Silence (HydraHead)

Il momento più terribile della storia dei Cave In è l’uscita di Antenna. Nelle intenzioni sarebbe l’album della svolta: viene registrato con i soldi di RCA, la label ha deciso di puntarci, fa pressione sul gruppo e riesce ad ottenere un disco più pop di Jupiter. Antenna non è quel che si dice un brutto disco, ma non ha un pubblico ideale a cui aggrapparsi: Jupiter se n’era creato uno per quanto era bello, ma una cosa è spacciare Radiohead e Pink Floyd agli orfani dell’emo e una cosa è una major che ti vende come se fossi i QOTSA: il gruppo lo scopre a sue spese durante il tour, incontrando una risposta inesistente che li convince a cospargersi il capo di cenere, riprovare ad essere -almeno- un gruppo di punta del giro Boston-accacì, rivisitare il proprio suono aggiungendo dosi quantomeno generose di metalcore simile a quello degli esordi ma MOLTO più finto e piacione, fatto apposta per accaparrarsi gli spicci di un pubblico potenziale fatto di metallari in transito con frangetta, occhi bistrati, maglietta nera e polsini di cuoio. Quando RCA ascolta i provini per il disco successivo, intitolato Perfect Pitch Black, si mette a ridere. Scarica il gruppo senza battere ciglio e permette la pubblicazione di PPB sotto il marchio Hydrahead nel 2005, a suggello di uno dei momenti più tristi e sfigati della storia dell’accacì, dell’etichetta di Aaron Turner e sicuramente del gruppo di Stephen Brodsky. La band si scioglie un annetto dopo. Il bassista mette insieme un progetto a due con un altro ex-OldManGloom, lo chiama Zozobra e incide pure qualcosa, con un buon riscontro di pubblico e critica. Per i concerti gira con i due chitarristi dei Cave In. I quali annunciano di essersi riformati nel 2009, un po’ a sorpresa, con un EP intitolato Planets of Old che segue l’onda di PPB, e queste dieci righe non sono il mio provino per Virgin Radio bensì un modo come un altro per dire che del fatto che i quattro bostoniani siano tornati con il primo disco lungo da sei anni a questa parte, in linea di principio, non mi frega quasi niente.

E invece salta fuori che i Cave In hanno ancora un paio di cartucce. Oggi esce il nuovo disco, il primo lungo da sei anni a questa parte, dal titolo White Silence. L’etichetta è sempre HydraHead. Dentro al disco c’è tutt’altro che silenzio bianco: voci compresse, urla sguaiate, produzione incasinatissima. La musica inizia come una cosa ispirata fatta da uno di quei gruppi black metal di redneck americani da cameretta che vanno di moda adesso, poi succede più o meno qualunque cosa: echi di Jupiter che spuntano fuori da pezzi degli Old Man Gloom e agitano le braccia per non affogare (nel 2004 li avrebbero chiamati sbuffi in superficie), sfoghi pinkfloydiani talmente gratuiti che al confronto i Comets On Fire più spinellati eran roba da chierichetti, un paio di botte hardcore, trame di un minuto, parti melodiche, feedback di chitarra e cose simili. In certi momenti sembra di sentire Adam McGrath che si rompe le unghie contro le corde della chitarra. In tutto questo non è davvero possibile segnare che White Silence sia quel che si dice un disco coi pezzi: sembra più che altro un blob informe scritto come per mettere insieme il bignami di tutte le cose che i quattro membri della band hanno mai suonato nei dodicimila gruppi a cui hanno preso parte, concedendo ad ognuna non più di due minuti, cucendo tutto assieme alla Frankenstein maniera e suonandolo con una violenza che pure Dave Curran si dovrebbe togliere il cappello. Non sarà Jupiter, ma se conti che vien fuori da un gruppo morto e sepolto c’è da piangere di gioia.

Il post-post

Il postrock è uno di quei generi su cui la gente, a tipo VENT’ANNI dalla sua informale fondazione, ha ancora l’istinto naturale a pontificare. Presenti inclusi, ovviamente. Per quanto mi riguarda, il più influente contributo all’argomento di questi ultimi anni viene da un amico di Imola che dopo un pranzo pesantissimo alla cooperativa dei pescatori di Cervia aveva deciso che vogliono tutti essere post. Io voglio diventare bravo. Mi sono preso una cotta culturale e non l’ho ancora smaltita. Nel corso dell’ultimo decennio il dettame bravi > post è stato adottato alla grandissima da quella particolare fetta di p*strock che s’era mezza a cazzeggiare a man bassa con la melodia e le aperture orchestrali E QUINDI svilito prima ancora di essere formulato, ma questo se vogliamo è un altro discorso che allungherebbe il pezzo di tremila battute che non vi servirebbero, quindi passiamo direttamente al punto.

Una settimana fa ero a vedere i Mogwai. I Mogwai sono un gruppo scozzese di cui dire male è quasi impossibile o di cui è possibilissimo dire male a patto di essere pronti a buttare nel cestino tutto il roster Temporary Residence, i Pelican, i folli Isis e tutto il postcore apocalittico con aperture melodiche, Giardini di Mir(o)))), il finale di Miami Vice e le musiche di Friday Night Lights, quasi tutte cose che a conti fatti non dispiacerebbe nemmeno troppo buttare nel cestino a parte. I Mogwai li avevo visti una volta diversi anni fa, un concerto all’aperto che non mi fece impazzire e per il quale diedi la colpa al malumore, al fatto che fosse all’aperto e all’idea che in generale queste cose richiedono disposizione d’animo e una ragazza con cui limonare (mancarone disposizione d’animo, mancarone limonare). Il problema è che i Mogwai non mi hanno mai fatto impazzire nemmeno su disco, o meglio ho sempre trovato quasi tutti i loro dischi carini al punto da averne ADDIRITTURA comprato qualcuno ma non è che li metto nello stereo su base mensile pensando che finalmente i mogwai. Il mio disco preferito dei Mogwai è Come On Die Young, ma non saprei dire perché (forse perché lo chiamano amichevolmente Cody), oppure Young Team, oppure Happy Songs perché c’è Hunted by a Freak. Mi piace Auto Rock perché sta –appunto- alla fine di Miami Vice e Miami Vice è il più bel film degli anni duemila e mi ha fatto prendere benissimo anche l’ultimo disco degli Audioslave. E poi basta. Ho visto il DVD di quel cioccolataio di Vincent Moon (presto su questi schermi un bel pezzo-rosicata su quanto mi fa schifo al cazzo Vincent Moon), ho pensato che fossero fighi e anche piuttosto diversi da come ricordo di averli visti io. Dell’ultimo disco in giro si fa un gran dire, anche m.c. si è preso bene su questi stessi fogli, la musica è molto Mogwai e probabilmente lavora un pelo di più su certe cose quintessenziali. L’ho ascoltato due volte ma forse non ero nell’umore –fantastico ma non perfetto, direbbe quel tipo di Glamorama. Mi trovo a rivederli dal vivo perché Delso la sta menando ininterrottamente coi Mogwai da mesi, perché ho un amico con il quale posso fare il viaggio e perché potrebbero –dovrebbero- fare Auto Rock regalandomi il mio momento Miami Vice. Mi presento in completo Armani con maglietta rosa sotto. Il concerto costa 22 euro.

Partono come parte l’ultimo disco. Lo eseguono quasi per intero quasi per niente il resto, una scelta che se non fossimo nel 2011 dei dischi che non si vendono potremmo dire promozionale. Il concerto, considerato che stiamo parlando di rock orchestrale/arioso/melodico pieno di cavalcate e bordate di rumore, è piuttosto freddino. I suoni professionali-issimi, la gente piuttosto ben presa, il gruppo non troppo carico e tutto il resto. Tra le cose vecchie sparano una New Paths to Helicon 1 che probabilmente è l’apice del concerto assieme al mattone finale di 20 minuti di circostanza. Niente momento Miami Vice. Va tutto benissimo, ma se per gli Shellac il collega m.c. parlava di poco più di un karaoke per introdotti qua siamo due passi oltre.  In certi momenti sembra che potrebbero riscuotere lo stesso numero di applausi  stando sul palco a giocare a FreeCell coi visual che scorrono e la musica che pompa da un CD. Persino lo svacco rumoristico finale sembra una specie di barzelletta sporca per filosofi del rumorismo applicato a ‘sto cazzo di niente. Mi sento derubato della mia anima e dei miei 22 euro e mi dirigo all’uscita prima che sia finita tutta la cagnara.

Una delle poche altre volte che mi sono sentito in questo modo è stato un paio d’anni fa, quando gli Explosions in the Sky (probabilmente ad oggi i figli più cagati di Barry Burns) hanno suonato in questo stesso locale, a pochi giorni dall’ATP da loro curato. Non propriamente un concerto coraggioso, eseguirono più o meno per intero il loro disco più riuscito (The Earth is not a Cold Dead Place) e poco altro. Il pubblico urlava a ogni break come se fosse a un concerto del Blasco, a volte faceva perfino i cori dietro alle melodie. Sapete, no? Come quando allo stadio cantavano il riff di Seven Nation Army, però con le chitarrine di First Breath After Coma (uno dei tanti danni prodotti dal libero arbitrio). Sto parlando di ‘sta cosa perché l’altra notizia in merito a ‘ste cose è che sta per uscire il loro nuovo disco ed è stato messo fuori un pezzo in anteprima. Il lavoro si chiamerà Take Care, Take Care, Take Care. La musica contenuta è sarà la stessa musica che stava sugli altri dischi, cioè una versione appena più dinamica e loffia e orchestrale di quella degli zii di cui sopra. Gli unici due momenti in cui gli EITS sono stati speciali sono stati

1 quando hanno infilato i pezzi, cioè ai tempi dell’esordio e di The Earth etc etc.,

2 quando abbiamo sentito gli stessi pezzi a fare da contrappunto sonoro alle storie da eroismo quotidiano per fotomodelli/e di Friday Night Lights.

Il resto, appunto, segna la carriera di un gruppo troppo impegnato a tirare i remi in barca per poter cavalcare la storia del pop di questi anni da protagonista. Il punto è che per un momento ci avevamo davvero sperato, poi la band ha tirato il freno e deciso di gestire l’esistente. La cosa peggiore dei loro dischi post-The Earth è che non sono brutti o sbagliati, anzi. Sono perfettamente in linea con il loro impianto di base, cioè quelle due chitarrine che nei momenti di pathos s’incrociano come le campane di una chiesa. Ci sono perfino segni di evoluzione, qualche beat elettronico micragnoso messo lì a cas(zz)o e qualche pezzo sotto i sei minuti, forse per vedere che aria tira nel Paese Reale. Il problema è che per quanto si possa essere insistenti nel continuare a suonarla a volume altissimo la musica degli EITS da The Rescue in poi non offre un singolo momento di emozione o spontaneità, sostituendole con quegli sdoppiamenti di chitarra a campanellino che fanno tanto prog-rock. L’ultimo disco degli EITS da questo punto di vista è sarà  il degno successore di quello prima e non è sarà necessario mettersi a lavorare di cervello sulla cosa. Questo mi dà il permesso informale e infondato di agganciarmi a un discorso-pippone più generale che considera il modo in cui l’idea di Postr*ck, ammesso ce ne fosse una, era nata in contrapposizione a un certo tipo di approccio celebrativo e pomposo e in una ventina d’anni di attività è arrivato ad una forma definitiva che sembra la celebrazione-alla-enne, un macrosistema della pomposità in cui i gruppi cercano di fingere per quanto possibile di non dare nell’occhio durante la performance (tipo tenendo i capelli sugli occhi) e sparando roba quanto più caciarona, standardizzata, carica, monumentale, elegante, allineata, triste e malinconica sia dato ascoltare oggi giorno. Tutto sommato è lo stesso bisogno di emotività ex-post che sta avvelenando le altre avanguardie del rock peso, ivi compresi gruppi come Earth o Sunn (o))) –figurarci i vari Om, Orthodox e via affastellando, per non parlare di una Chicago quasi equamente divisa tra dischi dei Tortoise sempre più prog metal e gli spin-off etnici dei vari Doug Scharin e Rob Mazurek. A breve usciranno dischi nuovi a firma This Will Destroy You e persino Low, che non ho ancora sentito ma immagino, e in generale mi sembra di stare dentro un paradosso in cui certi paradossi virtuali (la recensione standard di un disco post-qualcosa su una webzine) sono collassati nel mondo reale (la musica che sta dentro i dischi) con il risultato che i gruppi di oggi stanno agli STESSI gruppi quindici anni fa come le mie foto facebook stanno alla mia faccia vera. Magari sto esagerando, ma per sicurezza oggi solo dischi di Laghetto e simili.

buon Natale

Questa è veramente geniale: The first digital only single / EP from jesu, with a possibility of very limited vinyl and CD editions in early 2011.Written, recorded and mixed by Justin K Broadrick alone in Nov / Dec 2010, during the writing and demoing of the forthcoming jesu LP for Caldo Verde. Inspired by the onset of the Christmas period and the emotions and feelings of nostalgia, joy and sadness that the period often evokes (dal blog di Justin Broadrick).
Il pezzo è un piccolo miracolo di industrial post metal cupissimo e disperante che le vene te le fa taja’, probabilmente la cosa migliore incisa a nome Jesu dopo l’irraggiungibile primo album; sentire Broadrick pronunciare chiaramente le parole “Merry Christmas” fa un effetto strano, più o meno come se il Papa dicesse “viva la figa” durante un’omelia. Ma non è una sensazione spiacevole, anzi; semmai è qualcosa che accresce il senso di straniamento già abbondantemente presente, come perdersi nel mezzo di una tormenta nella parte più buia e squallida della città, la neve fino alle ginocchia, il vento gelido dritto in faccia, gli occhi lacrimanti dalla brina, le dita dei piedi che iniziano a perdere sensibilità. Del resto del testo non sono riuscito a decifrare manco mezza parola tanto il lancinante salmodiare di Broadrick è sepolto sotto riverberi di chitarre taglienti come ghiaccio sulla pelle; ma forse, tutto sommato non è poi così importante. Forse, tutto il senso del pezzo sta lì, in quel “Merry Christmas” malcerto esalato da qualche parte nella nebbia a un minuto e quindici secondi dall’inizio, sospeso per un istante nella tempesta, già dissolto nel gelo.
A seguire due ‘remix’ ad opera dello stesso Broadrick, in realtà un’unica lunga coda della lacerante title-track; ancora chitarra su strati di synth e rintocchi di campane lontane nel Pale Sketcher mix, soffocante ambient dronata nei quattordici terminali minuti del Final mix. La migliore strenna natalizia sentita da… boh, forse da sempre. Purtroppo per ora solo in digitale, a tre sterline sul sito della Avalanche Inc. Buon Natale a tutti.

MATTONI issue #10: LESBIAN

 
Vincono già dal nome, soprattutto in tempi in cui per non finire immediatamente nei peer-to-peer l’alternativa è tra stupidissimi termini di uso comune ricontestualizzati (tipo The Music, Girls, Tombs, ecc.) o sigle illeggibili piene di simboli criptici tipo triangolini e altre merdate a incasinare il tutto (tipo l’intero fenomeno witch house, che poi tra l’altro mica ho ancora capito di che cazzo si tratti, ma comunque). Loro scelgono una terza via: nome ultracomune e ultrabeota “perché quelli belli, tipo Black Sabbath o Venom, erano già presi“. Sono in quattro, hanno inciso per Holy Mountain (che già di per sè stessa è una bella garanzia di alterazione mentale) e a guardare la foto sul sito dell’etichetta sembrano, nell’ordine: un ciccione che ama i Neurosis, un professore ex-hippie col cervello fritto dai troppi acidi ai tempi dei fiori nei capelli, un immigrato clandestino e un buzzurro rissaiolo coi tatuaggi anche nel buco del culo. Insieme suonano uno strano incrocio tra sludge, doom old school e progressive metal, fangosissimo e lisergico eppure cronometrico e intricato al tempo stesso; immaginatevi, se riuscite, una sintesi tossica tra Dream Theater, Grief, Lake of Tears e Facedowninshit, sarete comunque piuttosto lontani da un’idea anche lontanamente esaustiva. Uno di loro, Dan La Rochelle, ha suonato la chitarra negli ASVA per un paio d’anni, magari questo dettaglio può essere di aiuto. Il primo album è del 2007; Power Hor, un gioiellino di psichedelia malata e deviante che con un buon cilotto sdruso di bella (o un paio di cartoni) a supporto è la morte sua. I numeri già dicono tutto: quattro pezzi per sessantadue minuti di durata. C’è già un bestione di quasi 25 minuti, Loadbath, ma non è il pezzo migliore del disco, e comunque a quei tempi Bastonate (con annessa la vostra rubrica preferita) ancora non esisteva. Sempre del 2007 è un ‘Tour EP” con un pezzo di quarantasette minuti (dal temibilissimo titolo, Fungal Abyss), che purtroppo non sono ancora riuscito ad ascoltare; ho invece mandato a memoria lo split del 2008 con gli Ocean americani (altro gruppo per cui vale la legge dei grandi numeri), ma purtroppo entrambe le compagini in quell’occasione mordevano decisamente i freni: ‘soltanto’ dodici e quattordici minuti le durate dei rispettivi pezzi.
Tornano ora con un nuovo disco fuori, Stratospheria Cubensis, titolo delirantemente pseudointellettuale, produzione paludosa del paludato Randall Dunn e artwork sideral-tentacolare del funghesco Seldon Hunt. Un disco che è un po’ il loro The Age of Adz: smodato, incontenibile, eccessivo, irraccontabile, radicalmente altro da sè e da tutto, con il brano più lungo posto alla fine a riassumere e a tirare le fila e a fornire il senso ultimo di un suono e un metodo compositivo che non asc0lterete altrove. Black Stygian è il nome del mattone finale, ventidue minuti di delirio psych-sludge-prog-doom da far precipitare dal cielo gli arcangeli con le trombe e schizzare dalle viscere della terra i diavoli coi tromboni, un’ininterrotta, sfrenata cavalcata della Morte ma con un cannone grosso come un carciofo incastrato tra le arcate dentarie; se esistesse un ipotetico mash-up tra Jerusalem degli Sleep ma con il tiro e senza la narcosi chimica, e A Change of Seasons dei Dream Theater ma senza i barocchismi e le leziosità e le tastiere d’avorio e la suddivisione in capitoli, magari reinterpretata dagli Eyehategod in jam alcolica con Fates Warning e (Men of) Porn, forse quel pezzo avrebbe il suono di Black Stygian. Veramente devastante.

 
 
PS STREAMO: http://lesbian.bandcamp.com/album/stratospheria-cubensis

MATTONI issue #9: Sufjan Stevens

la droga gioca di questi scherzi

 

Impossible Soul è il mattone posto al termine di The Age of Adz, ritorno al formato album per Sufjan Stevens dopo un lustro abbondante di EP, ristampe, cofanetti natalizi, riarrangiamenti strani, raccolte di scarti e concept sinfonici dedicati all’autostrada. È un regalo prezioso Impossible Soul, ma come ogni cosa buona bisogna conquistarselo, bisogna arrivarci, nello specifico, tagliando il traguardo dell’ultimo pezzo di un disco sfiancante, smisurato, tonitruante, inqualificabile, smodatamente eccessivo, esasperatamente magniloquente, altamente perturbante e perfino sgradevole da subire perlomeno in un’unica mandata. Un disco che è come un’overdose di zucchero caramellato sparata dritta in vena, un’indigeribile melassa sciropposa che sconvolge i sensi e rimane appiccicata ai centri nervosi come miele guasto, un delirio di numeri da film Disney coi protagonisti froci, con arrangiamenti in addizione infinita di squilli di tromba, strati di synth obliqui, vocals distorte tipo vinile fatto girare alla velocità sbagliata (a un certo punto spunta fuori un vocoder orrendo) e bizzarrie analogiche di ogni sorta e genere, roba che al confronto Todd Rundgren o Barry Manilow diventano spartani e basilari come manco il Don Fury dei primordi. Una roba veramente al di là di ogni immaginazione, barocca e ridondante tipo Zaireeka però fatto male, con testi in perenne trip egomaniaco molesto da far sembrare Brian Wilson o Candyass tranquillissimi e riconciliati.
Senza Impossible Soul, tutto quel che lo precede sarebbe un soffrire inutile; perché è in quei venticinque magici minuti che ogni tassello di quel che sembrava un atroce mosaico scombinato e malamente assemblato (nel frattempo pare che lo stesso Stevens abbia avuto il suo bel da fare a mantenere il controllo di sé stesso) trova un ordine e una collocazione, che il disegno globale acquista un senso e le smodate ambizioni alla base dell’intero progetto diventano – finalmente – ben riposte. Nel suo esasperato, vitalissimo citazionismo di praticamente tutto lo scibile musicale mai registrato (dal country alla dance, dal minimalismo al pop elettronico, dal folk al musical fino alla classica contemporanea e addirittura alle schitarrate metal) Impossible Soul riesce miracolosamente a trovare un suo equilibrio, che è perfetto e inscalfibile e non smette di svelarsi mantenendo inalterata la magia mentre un ascolto tira l’altro, rischiando di diventare per davvero il pezzo più rappresentativo e al tempo stesso più radicale e teorico dell’intera carriera dell’artista, con buona pace di chi ancora aspetta il seguito di Illinois (campa cavallo che l’erba cresce, come diceva sempre mio nonno). Sta al pop come Mother di Goldie sta alla musica elettronica. Intanto pare che The Age of Adz stia collezionando la sua bella serie di stroncature. Anche questo fa parte del gioco.

FUMETTI: The Secret – Solve et Coagula (Southern Lord)

QUATTRO MINUTI: Black Angels – Phosphene Dream (Blue Horizon)

OMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMMM

 
VIA

OK, i Black Angels sono psichedelici, i Black Angels sono viaggiosi, i Black Angels cianno i capelli lunghi barbe unte le pupille dilatate e pare che fissare la copertina dell’ultimo disco mandi in paranoia il sistema neurovegetativo peggio che 24 ore filate davanti a una Dreamachine. C’è pure un pezzo intitolato True Believers, come la nostra rubrica; questo per dire che non è che gli si vuole male o altro. Il problema è uno solo: ai tempi della Man’s Ruin, gruppi come i Black Angels venivano sistematicamente ignorati perché troppo fiacchi, e dire che la Man’s Ruin metteva sotto contratto praticamente chiunque avesse una chitarra al collo e un pessimo rapporto con il sapone. Ora, non è che visto che la Man’s Ruin è morta da ormai dieci anni il concetto di base cambia

STOP