The Broken Man.

 

Esistono infiniti modi di stare male, infinite declinazioni ma il dolore è uno solo e quando c’è vorresti solo che sparisse. È democratico il dolore: non risparmia nessuno, nessuno ne è immune, come la morte opera seguendo disegni imperscrutabili e come la morte è presenza costante, connaturata alla vita. In pochi hanno la forza di affrontarlo da soli, e ancora meno gli strumenti per sviscerarlo, spiegarlo, dargli una forma che possa contenerlo e sublimarlo rendendolo così anche solo minimamente più sopportabile.
Matt Elliott è uno specialista del dolore. Un luminare del dolore. Il suo diploma se l’è conquistato sul campo, i suoi dischi le tesi di laurea, ognuno a suo modo imprescindibile per chiunque stia soffrendo come un cane per qualcuno o qualcosa, ognuno un luogo oscuro dove rifugiarsi con la certezza di essere compresi sempre, perché come diceva Wittgenstein Solo chi è molto infelice ha il diritto di compatire un altro, e sembra che Matt Elliott sia clinicamente incapace di smettere di essere infelice.
Ogni suo disco è un colpo al cuore, ma questa volta è speciale. The Broken Man è lo strappo senza ritorno, la resa finale. Esaurita la speranza in un domani migliore da conquistare col sangue e la lotta armata, estinta la curiosità verso le cose del mondo e con essa la capacità e la voglia di indignarsi ad ogni nuova ingiustizia nel mondo, abbandonata ogni fede in utopie di sorta, quel che resta è solo dolore che mangia l’anima, un dolore individuale che diventa assoluto, inconsolabile, un torpore universale che unisce tutti gli afflitti di questa terra nel tormento e nella solitudine crudele e nel silenzio. Oggi Matt Elliott siede alla destra di Hank Williams, di Townes Van Zandt, di quei pochissimi altri che hanno saputo dare un suono alla sofferenza. Se siete vivi e state male The Broken Man è indispensabile.

 

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Matt Elliott italian tour 2012

 

Tanto se ribeccamo: CODEINE


Il problema è che alla gente è piaciuto il disco sbagliato. Non capita sempre così d’altronde? Ma stavolta è diverso, questa volta è una questione personale. Di Frigid Stars non me ne è mai fregato un cazzo, non ha mai fatto parte della mia vita, non mi ha mai detto niente della mia vita. Viceversa, The White Birch mi tiene compagnia da più tempo di quanto sia disposto ad ammettere; è un porto sicuro a cui tornare ogni volta che la situazione non migliora, quando stare male non è più un’opzione, è come un amico che c’è sempre, come un cane che non muore. Non risolve niente, non è compito di un disco del resto, ma è taumaturgico almeno quanto una carezza o una pacca sulla spalla o le parole giuste al momento giusto, e quelle parole non smettono di fare lo stesso effetto – non su di me almeno.
Soltanto in un secondo momento subentra la consapevolezza che musicalmente era e resta anni luce distante (non indietro o avanti) da qualsiasi altra cosa sia mai stata e sarà mai registrata, un suono più vicino a un’idea, a uno stato della mente, un inverno perenne dove l’aria gelida è quasi sempre immobile e il sole non sorge mai, le esplosioni di chitarra un grido muto nella tormenta, la sola presenza mortale in un deserto di ghiaccio a meno ottanta gradi sottozero, lontano da ogni insediamento umano, lontano da tutto. Era il 1994 ma sono quei casi in cui il tempo perde di significato, comunque hanno aperto una strada che nessuno poi ha percorso – tantomeno la congrega di allegroni slowcore del periodo (probabilmente la scena più insensata e peregrina di sempre). Quando si sciolgono li piangono in pochi. Non ricordo le ragioni alla base dello split, lette tra le righe di una delle rare interviste postume e immediatamente dimenticate, ma ho sempre pensato che sia stato giusto così: oltre The White Birch era – è – impossibile spingersi.
Che i Codeine vengano ricordati soprattutto per Frigid Stars è solo un’altra delle infinite ingiustizie perpetrate quotidianamente nel mondo, sia pure in buona fede. Nessun problema finché il loro nome resta confinato nel limbo dei ricordi, fantasma di un passato ormai sempre più lontano, al massimo tirato fuori come sofisticato gimmick per svoltare nelle conversazioni scacciafiga (“te li ricordi quelli lì? quelli là?” – inserire nomi di gruppi dimenticati a caso, meglio se sconosciuti); diventa una beffa crudele quando li scopri riformati e ritornanti senza un perché come dei Refused qualsiasi. Per ora si limitano a scorrazzare per i festival ma se mai torneranno in tour che dolore sarà, ragazzi: ignorarli o prendere parte al karaoke? Quale che sia la scelta, una cosa è certa: sarà sbagliata.

una per Keith Caputo che sta cambiando sesso.

Keith Caputo 2011

 

 

I Life Of Agony erano un luogo della mente dove mi rifugiavo ogni volta che stavo male e sapevo e sentivo che nell’immediato futuro sarebbe andata ancora peggio. Non so cosa avesse fatto scattare l’empatia (il fatto che condividessero il batterista con i Type O Negative probabilmente ha aiutato), ma quei quattro italiani bruttissimi capitanati da uno gnomo che assomigliava tanto a un galoppino mafioso preso male erano entrati nella mia vita come una coltellata nella pancia, e non ne sarebbero mai più usciti. Musicalmente erano un incrocio tra hardcore, metal, dark e sludge mai sentito prima né tantomeno poi; nei momenti veloci pareva di essere finiti in mezzo al pogo più violento e cattivo del mondo con la certezza che il soffitto sarebbe crollato da un momento all’altro, in quelli lenti era come farsi succhiare via il sangue da un’aspirapolvere mentre un rullo compressore ci sbriciolava gli ossicini. Il primo disco, River Runs Red (1993), è un concept sul suicidio; gli interludi Monday e Thursday sono registrazioni di messaggi dalla segreteria telefonica del protagonista, viene lasciato dalla ragazza e licenziato dal lavoro, in Friday – la traccia conclusiva – si ammazza. Nel mezzo alcuni tra i pezzi più dolorosi di sempre, indipendentemente da generi musicali e gusti personali di sorta; in pratica è l’esorcismo privato del bassista e paroliere Alan Robert, figlio di divorziati, il padre alcolizzato violento che gli menava. Al microfono c’è lo gnomo triste di cui sopra, Keith Caputo, un altro che quanto a infanzia disastrata non scherza manco per il cazzo (orfano a un anno, madre morta di overdose, padre mai conosciuto): la sua voce, un lamento carico di rabbia o l’urlo più triste del mondo a seconda di come consideriate il bicchiere (che comunque è sempre mezzo pieno ma di lacrime, per citare il poeta), è quel che rimane impresso più di ogni altra cosa, più ancora della musica, che è quanto di meglio il gruppo scriverà mai. Per il successivo Ugly (1995) la stesura dei testi viene divisa 70/30 tra Robert e Caputo, i tipi sì che ne hanno viste: i primi cinque pezzi in blocco sono roba da stendere un elefante. Seasons, I Regret, Lost at 22, Other Side of the River, Let’s Pretend (primo dei sei miliardi di pezzi di Caputo dedicati alla madre morta) toglierebbero la voglia di vivere anche al più arrogante fottuto pornodivo miliardario sulla faccia della Terra. Rapidi colpi di rasoio sulla carne viva come diceva Tamburini, impossibile azzardare un paragone che non implichi il concetto di soffrire gratis come cani senza alcuna speranza di riscatto. Il resto del disco non è altrettanto buono, ci sono anzi un sacco di filler orrendi (inclusa una cover al di là del bene e del male di Don’t You (Forget About Me) posta in chiusura) ma sticazzi, i Life Of Agony la loro storia l’hanno già scritta, marchiata a fuoco per sempre nei cuori dei deboli e degli umiliati. Soul Searching Sun (1997) è UNA MERDA. Spazzatura alternative rock (erano gli ani novanta, questa definizione aveva un senso) da far vergognare la più infima delle band da classifica generalista di allora e di sempre, un susseguirsi inesorabile di pezzi insulsi il cui vuoto pneumatico emerge in maniera anche perturbante; l’ansia di non avere un cazzo da dire. Unici momenti da salvare Weeds (comunque una cosetta rispetto alla roba vecchia) e le bonus tracks incluse nella versione digipack (a spiccare una rendition triphopeggiante di Let’s Pretend che in piena notte con un cannone gargantuesco è la morte sua). Nel mezzo del tour però Caputo lascia adducendo scuse, e il gruppo momentaneamente si sfalda; dovevano venire anche a Bologna, al Covo, a fine ottobre ’97, un trauma dell’abbandono che non ho mai superato. Rientrano in pista l’anno dopo con il sostituto più improbabile che si potesse immaginare: l’abbronzato Whitfield Crane dei relitti “divertenti” Ugly Kid Joe. Tempo un paio di tour e fortunatamente capiscono che non è cosa. Nel frattempo esce la raccolta di demo e B-sides 1989-1999, che contiene probabilmente il pezzo migliore mai scritto dai Life Of Agony, Coffee Break: cercate di procurarvelo a ogni costo, fosse anche l’unico loro brano che ascolterete mai. (Continua a leggere)

True believers: Mauro Berchi

 
A 16 anni stavo messo male
Vent’anni dopo: messo uguale
(Kaos, Dr. K)

Contro.luce è il sesto album dei Canaan. Il primo, Blue Fire, è del 1996; io ero già entrato nel gorgo, solo che ancora non lo sapevo. L’anno precedente soprattutto due dischi mi avevano sconvolto la vita: In Absentia Christi dei MonumentuM e Oneiricon – The White Hypnotic dei Ras Algethi, entrambe micidiali declinazioni dark doom tra le più estreme, cupe e disperanti di sempre, roba pericolosissima allora come oggi, domani, dopodomani eccetera. Ero al primo anno delle superiori e odiavo il mondo (credo ricambiato), dappertutto aria gelida e aspettare, faceva freddo la mattina ed era sempre buio, con quei dischi ci ho svoltato l’inverno. Non avevo idea che i Ras Algethi si fossero sciolti di lì a poco e che il leader Mauro Berchi (voce, chitarra e tastiere) avesse poi avviato un nuovo progetto – Canaan appunto – in parallelo a un’etichetta discografica che presto sarebbe diventata un punto di riferimento, una specie di Cold Meat Industry di casa nostra ma con dischi che non contenevano soltanto fischi vento soffi e fruscii, del resto la cura maniacale nell’artwork e nel packaging (custodie in digipack con libretti di gran pregio) e l’estrema selezione nella scelta del catalogo erano le stesse. Complice un’intervista rivelatrice su Psycho! nell’inverno del 1997 ricollego finalmente nomi e intenti, e da lì è la fine, l’appuntamento con un nuovo album dei Canaan diventa qualcosa con cui fare regolarmente i conti, ogni volta scoprirsi sempre uguali, sempre a rantolare nel fango: gli altri stanno ancora ridendo… e noi qui, a guardarci dentro, come direbbe qualcuno molto più saggio ed estremamente più sintetico del sottoscritto. Sotto il profilo dei testi quei dischi erano chiodi arrugginiti piantati a forza nella carne viva; musicalmente, una versione infinitamente più oscura e presa male dei Cure di Disintegration, chitarre sanguinanti, tastiere più soffocanti di una tonnellata di bitume e tutto il resto, con in più terminali inserti dark-ambient da far scappare via piangendo Lustmord. Dal terzo Brand New Babylon in poi la cosa si evolve seguendo traiettorie sempre più personali e irraggiungibili, sempre più nere della pece più nera, fino al punto di non ritorno di A Calling to Weakness (2002), capolavoro assoluto nonché tra i dischi da evitare ad ogni costo se state anche solo vagamente considerando l’ipotesi di farla finita anzitempo. Assieme a A Calling to Weakness, Contro.luce rappresenta lo state of art dello stare male, tra i pochissimi dischi degni di sedere alla destra di pilastri conclamati del soffrire peggio dei cani tipo White Light from the Mouth of Infinity (non a caso gli Swans sono il gruppo preferito di Mauro), Live at the Old Quarter, The Pernicious Enigma o qualche pezzo a caso dall’opera omnia del buon vecchio Gigi Tenco. Quella che segue è un’intervista a Mauro; le domande sul nuovo album sono di Reje, le foto le ho prese dal sito dei Canaan, gli errori sono miei. (Continua a leggere)

Il juke-box del suicidio

L’altro giorno Reje mi ha scritto che era uscito il nuovo dei Canaan. È una specie di rituale: Canaan e Colloquio sono i nostri Beatles e Rolling Stones, e la data esatta di uscita del nuovo disco è un evento da segnare sul calendario. In questo, Reje è sempre stato sul pezzo molto più di me, controllando quotidianamente il sito della Eibon – unica fonte per notizie di tal genere – e guai a sgarrare, con la perseveranza e la devozione che solo chi è stato un fan maniacale può conoscere. Quando è uscito l’ultimo dei Colloquio mi ha addirittura telefonato. Io, onestamente era da un po’ che avevo mollato il colpo, anche solo per una banale questione di autoconservazione: avessi continuato a sottoporre la mia mente e il mio fisico all’ascolto reiterato di quei dischi, a quest’ora non sarei qui a scrivere ma sotto un cipresso a farmi divorare anzitempo dai vermi. La ragione è che i Canaan (e i Colloquio, e i Neronoia, che è un progetto in cui confluiscono Canaan e Colloquio, il che è come dire morte più morte) avevano (hanno) il potere di amplificare ben oltre il limite dell’umanamente tollerabile una gamma di sfumature della tristezza virtualmente inesauribile.
Chi non ha mai sentito una canzone dei Canaan finora si è perso una delle colonne sonore migliori per i momenti (o giorni, o mesi, o anni, o vita) di disperazione più nera e dolore mentale più puro, senza filtri né barriere di sorta. Il leader e compositore principale del gruppo, Mauro Berchi, è un professionista della depressione; la sonda, la misura, la abita probabilmente da sempre, l’ha analizzata e vivisezionata instancabilmente, per anni, in lunghe interviste che somigliano piuttosto a esaurienti trattati di psicanalisi, l’ha plasmata a proprio piacimento (si fa per dire) lungo canzoni e dischi che sono la voce di chi la speranza l’ha già persa da un pezzo ma che comunque, per ragioni che ignoro, non riesce a farla finita, l’ha incanalata, attraverso una serie cruciale di uscite-chiave, in una piccola etichetta discografica che è stata un autentico faro nella notte senza fine degli afflitti, i deboli e gli umiliati (ma solo quelli con gusti musicali tendenti al dark più tetro, all’ambient più opprimente e al power electronics più molesto). Dopo aver subito un disco dei Canaan anche aver vinto alla lotteria sembrerà una disgrazia insormontabile. È roba pericolosa, roba che avvelena l’anima, che entra dentro la carne come una coltellata, ed è roba a cui – vai tu a sapere per quali masochistici motivi – non riusciamo a fare a meno.
Credevo di essermi liberato dell’allucinante cappa oppressiva dei Canaan dopo The Unsaid Words, disco che stranamente sentivo ‘distante’, che non mi rispecchiava al 300% come gli altri, e allora avevo lasciato perdere, avevo cercato altrove, ero perfino arrivato a dimenticarmi della loro esistenza dopo il secondo Neronoia; per alcuni mesi sono sicuro di non avere mai, nemmeno per un istante, pensato ai Canaan. Ma è impossibile cambiare quel che siamo, ecco perché non appena Reje mi ha scritto che sul sito della Eibon erano stati caricati due samples del nuovo album dei Canaan mi ci sono precipitato, e poi ho ritirato fuori l’intera discografia e me la sono sucata tutta dall’inizio alla fine, da Blue Fire a The Unsaid Words (che peraltro mi ha dilaniato come mai prima), un tour de force assolutamente scriteriato nelle pieghe dello stare male gratis, l’ultima idea che dovrebbe venire a un essere umano anche solo parzialmente sano di mente se non come anticamera del suicidio. Il prossimo step si intitola Contro.Luce, ed è una tortura a cui non vediamo l’ora di sottoporci. Non lo consiglio soltanto perché non vorrei cadaveri sulla coscienza, però insomma, sapete cosa fare.

L’agendina dei concerti Emilia Romagna – 11-17 ottobre

Allegria...

 

Nascondete pistole, coltelli, lamette da barba, corde e cavi resistenti di ogni genere, sigillate le prese di corrente e cercate di tenervi lontani dai fornelli: Matt Elliott è in città. E siccome l’uscita del nuovo album – di nuovo a nome Third Eye Foundation dopo un letargo della trip-hoppeggiante ragione sociale durato una decina d’anni (probabile Tanto se ribeccamo nell’immediato futuro se mi girano) – è rimandata al mese prossimo, è più che probabile che questa sortita sia finalizzata ad annichilirci definitivamente con un’ultima letale passata delle sue ‘Songs’; si comincia domani sera in Romagna per una data di cui non so assolutamente nulla a parte che il concerto si terrà a Santarcangelo, il consiglio che posso dare è di contattare l’organizzazione nella speranza di racimolare ulteriori informazioni. Quel che invece è certo è che mercoledì 13 suonerà al Clandestino a Faenza, gratis a partire dalle 22 (giovedì invece sapete dove l’han messo? Al Forum di Assago. Probabilmente per il LOAL) .
Comunque vada, giovedì 14 si torna a desiderare il dono dell’ubiquità: all’XM24 1400 Points de Suture e Night Terrors (dalle 22, quattro euro), al TPO la prima data dei riformati e più pisellanti che mai One Dimensional Man performing the album You Kill Me (dalle 22, dovrebbero stare sui dieci euro), i Calibro35 alle Scuderie (so soltanto che inizia alle 21.30, capace che chiedono anche qualcosa) e perfino il redivivo RAUM riapre i cancelli per ospitare nel suo sciccoso salotto tre live da paura, ovvero Lasse Marhaug, Lorenzo Senni e quel cazzone di Mattin (non azzardatevi ad applaudire al termine del suo set, a meno che non vogliate essere coperti di insulti dal diretto interessato). Se avete una vista portentosa le info al riguardo stanno sul cibernetico sito del locale, altrimenti potete pure cavarvi gli occhi come è successo a me.  Per i più spirituali in bolletta sparata c’è anche Lindo Ferretti alla chiesa di Sant’Agostino a Imola, gratis, dalle 21.
Venerdì il reducismo assume nuovi e inquietanti significati al Covo con i Levinhurst, ovvero il gruppo di Lol Tolhurst e consorte più Michael Dempsey, ovvero lo sfigato che ha suonato il basso in Three Imaginary Boys (e pure portasfiga: finirà poi negli Associates, nei Lotus Eaters e perfino nei Roxy Music di Avalon, tutti gruppi che si scioglieranno poco dopo il suo arrivo); inizio ore 22, per conoscere il prezzo bisognerà interrogare gli aruspici. Magari si riesce pure a fare la doppia: appena finito il concerto di corsa al Decadence, suona Simone Spiritual Front Salvatori. Quindici euro e dresscode obbligatorio, e se va fatta bene si rimedia pure una sega nella dark room. Altrimenti, tutti al Naima assieme a Dente Di Fata a sentire gli Iron Butterfly (venti euro: onesto), o a Reggio Emilia al Teatro Valli per Diamanda Galas (20.30, biglietti da diciassette a trenta euro).
Sabato ancora al Covo con Bologna Violenta (dalle 22, per il prezzo si dovranno decifrare le interiora di animali), altrimenti ci sono i Dillinger al Vidia (coi cafonissimi Cancer Bats di supporto, inizio ore 21.30, biglietti ventidue euro), Paul Di’Anno a Scandiano (dalle 22, l’ingresso dovrebbe stare a sette pidocchiosi euro… siateci!), oppure una bella gragnuolata di zozzo d-beat alla vecchia al Nuovo Lazzaretto con Deathraid + Kontatto (dalle 22, cinque euro).
Domenica ancora Matt Elliott, questa volta al Mattatoio a Carpi. Per chi sopravvive, ci risentiamo settimana prossima.

Sun Kil Moon – Admiral Fell Promises (Caldo Verde)

 
Ormai ho perso il conto delle uscite targate Mark Kozelek negli ultimi anni. Che l’uomo avesse deciso di passare alla cassa non è più un mistero per nessuno da almeno un decennio, e per carità, è una scelta che rientra nel suo pieno diritto; ricordo ancora una sua intervista, doveva essere l’inizio del 2001, in cui dichiarava di vivere in una stanzetta in affitto con l’incubo perenne dello sfratto esecutivo, all’epoca evitato per un soffio grazie al cachet percepito per la sua partecipazione in Quasi Famosi. Veniva veramente da chiedersi perchè gli altri sì e lui no. E che diamine! Gentaglia impresentabile imperversava ovunque (tanto per ricordare, una delle new sensation dei tempi erano i bruttissimi Kings of Convenience), mentre otto anni di carriera irreprensibile con i Red House Painters bastavano a malapena a coprire parte delle spese di una vita di stenti. Mi si era stretto il cuore nel leggere quelle parole, e ad aver saputo il suo indirizzo gli avrei immediatamente spedito qualche dollaro e un paio di scarpe per l’inverno. Musicalmente nessun problema comunque, finchè la qualità ha tenuto: l’EP Rock’n’Roll Singer (2000) era decisamente buono, così come What’s Next to the Moon (2001, raccolta di classici degli AC/DC dell’era Bon Scott spogliati di ogni alito di vita e aggressività, trasfigurati e resi irriconoscibili), per quanto strampalato e bizzarro – o forse proprio per questo – continua ad avere un suo perchè. Nel frattempo era finalmente uscito anche il canto del cigno dei Red House Painters, Old Ramon, bloccato per anni da beghe burocratiche con la major incompetente di turno che non voleva pubblicarlo ma nemmeno intendeva cederne i master, e anche quel disco era un bel disco. Con la nascita dei Sun Kil Moon, poi, la penna dell’uomo era tornata a volare alto: l’esordio Ghosts of the Great Highway (2003) è un capolavoro assoluto, perfettamente in grado di tenere testa alle cose migliori degli anni d’oro, a volte perfino capace di superare vette di ispirazione e lirismo fino ad allora ritenute inviolabili (pezzi come Salvador Sanchez o la torrenziale Duk Koo Kim aggiornavano l’antico canovaccio portandolo al livello successivo grazie all’innesto, perfettamente riuscito, di poderose distorsioni e perfino – incredibile! – qualche assolo). Ghosts of the Great Highway è stato anche l’ultimo sussulto di ispirazione prima del diluvio di uscite assolutamente prescindibili a voler essere buoni: l’album di cover dei Modest Mouse si dimentica agevolmente; i mille live per sola voce e chitarrina sono una noia mortale, tutti, dal primo all’ultimo; la ristampa di Ghosts of the Great Highway comprende un secondo CD di scarti e out-takes che definire ‘superfluo’ sarebbe fare uno sgarbo alla categoria; di April  (nel mezzo c’è stato il ruolo di spalla “saggia” dell’insopportabile Jason Schwartzman nel caruccio Shopgirl, innocuo adattamento cinematografico del romanzo d’esordio di Steve Martin) sono molto belli solo gli ultimi due pezzi, il resto è pilota automatico puro, un tedio da orchite fulminante che si fa fatica a crederci. E ora il ritorno con il moniker Sun Kil Moon, nella pratica nulla cambia: c’è solo Kozelek con la sua chitarrina spagnoleggiante, del resto assumere personale da mettere dietro agli strumenti – e affittare una sala prove, per giunta – avrebbe comportato spese. Gli ingredienti sono gli stessi delle ultime 5.674 uscite: voce mormorata riverberata mugugnata, chitarrina languida mezzo brasileira, comunque sempre picchiettata tipo plin-plon, qualche foto virata in seppia di particolari desolanti e/o posti abbandonati in culo al mondo, ed ecco pronto un altro disco. Anche i testi sembrano assemblati tramite un generatore automatico di liriche ‘alla Mark Kozelek’: ricordi d’infanzia, qualche figa che forse gliel’ha data (questo non lo dice mai direttamente, lo lascia intuire, perchè sennò poi le anime belle si scandalizzano), modelli di macchine (nota bene: Kozelek non sa guidare), nomi e marche, luoghi e date buttati lì un po’ a cazzo, l’Oceano, la spiaggia, ancora ricordi. In tutto questo manco mezzo secondo che non lasci il tempo esattamente come l’ha trovato. Quel che più intristisce è il senso di automatismo smascheratamente alimentare che emerge implacabile dal quadro generale, come se Kozelek avesse scritto e registrato il materiale con la mente già proiettata alla prossima uscita – probabilmente un live in Oklahoma in edizione limitata, gli stessi pezzi più qualche ripescaggio dei Red House Painters per accontentare i reduci, o magari una mezzoretta scarsa di cover di qualche gruppo scrauso, tipo i REO Speedwagon o Ted Nugent, il tutto rigorosamente riarrangiato per lagna salmodiante e chitarrina plin-plon, in ogni caso roba nemmeno brutta, semplicemente inesistente. Che fine indecorosa per uno dei più grandi poeti della musica rock degli anni ’90.

Black Heart Procession @ Estragon, Bologna (5/12/2009)

Seguire i Black Heart Procession fin dall’inizio significa essere testimoni di una delle più implacabili, scientifiche e inesorabili mutazioni dall’oro zecchino alla merda purissima avvenute nella storia del rock recente. Partiti come entità tra le più temibili e impietose nello scrutare nella tristezza umana più silenziosa e macerante attraverso tre album che sono altrettanti capolavori di disperazione incisa nella carne, letteralmente commoventi per ispirazione e rigore, precipitano in un micidiale guazzabuglio di ritmi spagnoleggianti, figure di plastica da karaoke di Tom Waits dei mentecatti, seghe (nel senso dell’utensile) pizzicate modello busker incapace e americana rassicurante e addomesticata da Marlboro Country nello sconvolgente Amore Del Tropico; il misfatto prosegue nel non meno sconcertante The Spell, con il recente Six che tenta maldestramente fin dal titolo di riparare tornando a battere antiche strade. Il problema è che il repertorio live del gruppo insiste nel tralasciare quasi completamente i primi tre dischi, il che – con tutto il rispetto e tutti i distinguo del caso – per noi equivale ad andare ad andare a un concerto di Neil Young sperando di sentire roba da Everybody Knows This Is Nowhere (o, al limite, da Harvest) e trovarsi Landing On Water riproposto interamente dalla prima all’ultima nota. Loro comunque se ne fregano: Pall Jenkins cerca con successo assai scarso di accendere una candela che si trova ai suoi piedi, in una serie di mossette e ragionamenti mugugnati a mezza voce che sono la ridefinizione del concetto di “autismo”. Toby Nathaniel, da par suo, sorseggia qualcosa da una tazzona gigante, di quelle che ci trovi sopra le scritte spiritose, con la verve di uno che sta facendo colazione la domenica mattina a casa della nonna in pigiama e ciabatte. C’è anche un ciccione che pare la copia subnormale di Will Oldham a suonare una lastra di metallo; la formazione è completata da due negri, il più scuro sta al basso e sembra un incrocio tra Mick Collins e Corey Glover come è adesso, il più chiaro è alla batteria e ha l’aria di uno scagnozzo strafatto di crack che sta per combinare uno scherzo terribile.
Per i primi due-tre pezzi la cosa funziona: sembra effettivamente di essere stati catapultati in qualche buco di culo di paesino rurale della provincia americana più infima, dove ubriacarsi all’unico bar della zona è l’unico sport praticato e il sesso tra consanguinei una pratica ordinaria, perfino banale. Poi però lo scenario stanca presto, dal momento che a mancare sono le canzoni (riescono perfino a massacrare Blue Tears stravolgendola fino a renderla irriconoscibile), e la band – negri esclusi – pare convinta di starci facendo un favore a stare lì a sfracellarci i coglioni inanellando un pezzo brutto dopo l’altro. Ma la maglietta del nuovo disco è molto bella e non resisto alla tentazione di comprarla, e alla fine sono soltanto più povero e più scoglionato.

Piccola nota a margine: va bene che l’arte non ha prezzo, ma sedici euro a fronte di un’ora e un quarto di concerto – bis compresi – fa abbastanza rodere il culo. Sono più di venti centesimi al minuto: a telefonare alle cartomanti (o a qualche chat-line porno) ce la si cavava con meno. E magari, ascoltando le loro baggianate, ci si divertiva pure di più.

Melvins @ Estragon, Bologna (1/12/2009)

(foto di Kekko)

La ragione per cui i Melvins sono ancora qui mentre tutti i loro compagni di strada prima o poi hanno mollato è che la loro visione è più forte di tutto. Più forte del tempo, che passa per tutti ma evidentemente non per la loro musica, sempre sgradevole e sbilenca e opprimente, sempre meravigliosamente ottundente e pervicacemente uguale a sé stessa. Più forte della vita, con tutti i suoi scomodi ostacoli che vanno dalla fame agli stenti alle bollette da pagare alla droga ai mille bassisti che vanno e vengono all’invecchiamento precoce al bisogno intrinseco di trovarsi un lavoro dignitoso. Più forte perfino dei Melvins stessi, che pure ci hanno provato a domarla, ad addomesticarla a uso e consumo di major, network tv e platee avide di marionette cenciose da spremere fino all’ultimo brandello di umanità nei favolosi anni novanta: dischi per Atlantic, videoclip e improvvise manie di grandezza dello scriteriato Joe Preston (d’un tratto convintosi di essere diventato una rockstar) non hanno intaccato l’inossidabile attitudine respingente, molesta e anti-umana che da sempre è il motore del gruppo. Brutti come la fame, pesanti come un macigno da dieci tonnellate rivestito di cemento armato, lenti e implacabili come la morte in un ospizio, i Melvins hanno attraversato indenni oltre un quarto di secolo di storia della musica pesante, creando scene, lambendone di striscio altre, comunque tracciando un segno indelebile in discipline tra le più diverse e disparate tra cui (almeno) metal, noise, doom, ambient, stoner, sludge e ovviamente “grunge”. Continuano a incidere dischi di cui non frega un cazzo a nessuno (a parte il solito nugolo di irriducibili più dissociati di loro) e a portare i loro grugni inguardabili e i loro temibili ventri da birra a spasso per il mondo a una media di un disco-tour all’anno, inarrestabili come un carrarmato pilotato da un mongoloide. Probabilmente soltanto la morte li fermerà. Quella di stasera è soltanto l’ennesima tappa del viaggio. Sul palco iniziano in due; sembra di vedere (e sentire) due spastici al saggio di fine anno. King Buzzo è bruttissimo. Voglio dire, più del solito. Chiunque ha accostato fino alla nausea la sua improponibile zazzera a due modelli: Robert Smith e Telespalla Bob, ma la verità è che lui somiglia piuttosto a una gattara totalmente andata di cervello, una di quelle vecchie svalvolate senza denti che vedi aggirarsi nei rioni blaterando cazzate a caso. Indossa una vestaglia nera con un grosso pentacolo cucito all’altezza delle gambe e probabilmente nella sua mente questa è una trovata simpatica. Il colpo d’occhio provoca il vomito. Dale Crover, da par suo, tracima tessuto adiposo da ogni piega di una maglietta troppo stretta, sbuffa e ansima e sfoggia con strafottenza un quadruplo mento da camionista baffuto da far sembrare marmoreo un budino créme caramel dentro la lavatrice. Ma è quando si aggiungono i nuovi innesti, il bassista-cantante Jared Warren e il secondo batterista Coady Willis, che la serata entra nel vivo. Lo show è diviso in due set dalla durata quasi identica (entrambi attorno ai tre quarti d’ora), il primo incentrato sulle cose più recenti, il secondo sui vecchi classici; i volumi sono impressionanti, il suono di chitarra qualcosa di difficile da immaginare, figuriamoci da sentire: magmatico, ribollente, schiumante, il suono di una fossa di liquami tossici dotati di vita propria. L’incedere delle batterie un meccanismo infernale che ridefinisce il concetto stesso di “metronomico”. L’aria si fa pesante, il pavimento trema: è come se il terreno si preparasse da un momento all’altro a spalancarsi in una voragine senza fondo né scopo. Sembra di assistere a un rituale pagano di cui soltanto gli officianti conoscono le regole; la sensazione, incancellabile, è di qualcosa di pericoloso, tenebrosamente imponente, malsano, qualcosa di profondamente sbagliato che si insinua inesorabile fin dentro alle ossa, a cui è del tutto inutile opporre resistenza. Come rimanere, ammaliati, immobilizzati, a contemplare l’abisso. Quando l’ultima nota si dissolve nell’aria è come se una mano invisibile avesse allentato la stretta alla nostra gola. Concerto dell’anno, se non fossimo sul pianeta Terra ma in qualche universo parallelo lovecraftiano, agghiacciante a partire dal nome, tipo R’lyeh. Terminale.

P.S.: l’inizio del concerto tre quarti d’ora prima dell’orario indicato ci ha impedito di assistere alla performance dei Porn. Bestemmie a iosa.

(foto di Kekko)