
(foto di Kekko)
La ragione per cui i Melvins sono ancora qui mentre tutti i loro compagni di strada prima o poi hanno mollato è che la loro visione è più forte di tutto. Più forte del tempo, che passa per tutti ma evidentemente non per la loro musica, sempre sgradevole e sbilenca e opprimente, sempre meravigliosamente ottundente e pervicacemente uguale a sé stessa. Più forte della vita, con tutti i suoi scomodi ostacoli che vanno dalla fame agli stenti alle bollette da pagare alla droga ai mille bassisti che vanno e vengono all’invecchiamento precoce al bisogno intrinseco di trovarsi un lavoro dignitoso. Più forte perfino dei Melvins stessi, che pure ci hanno provato a domarla, ad addomesticarla a uso e consumo di major, network tv e platee avide di marionette cenciose da spremere fino all’ultimo brandello di umanità nei favolosi anni novanta: dischi per Atlantic, videoclip e improvvise manie di grandezza dello scriteriato Joe Preston (d’un tratto convintosi di essere diventato una rockstar) non hanno intaccato l’inossidabile attitudine respingente, molesta e anti-umana che da sempre è il motore del gruppo. Brutti come la fame, pesanti come un macigno da dieci tonnellate rivestito di cemento armato, lenti e implacabili come la morte in un ospizio, i Melvins hanno attraversato indenni oltre un quarto di secolo di storia della musica pesante, creando scene, lambendone di striscio altre, comunque tracciando un segno indelebile in discipline tra le più diverse e disparate tra cui (almeno) metal, noise, doom, ambient, stoner, sludge e ovviamente “grunge”. Continuano a incidere dischi di cui non frega un cazzo a nessuno (a parte il solito nugolo di irriducibili più dissociati di loro) e a portare i loro grugni inguardabili e i loro temibili ventri da birra a spasso per il mondo a una media di un disco-tour all’anno, inarrestabili come un carrarmato pilotato da un mongoloide. Probabilmente soltanto la morte li fermerà. Quella di stasera è soltanto l’ennesima tappa del viaggio. Sul palco iniziano in due; sembra di vedere (e sentire) due spastici al saggio di fine anno. King Buzzo è bruttissimo. Voglio dire, più del solito. Chiunque ha accostato fino alla nausea la sua improponibile zazzera a due modelli: Robert Smith e Telespalla Bob, ma la verità è che lui somiglia piuttosto a una gattara totalmente andata di cervello, una di quelle vecchie svalvolate senza denti che vedi aggirarsi nei rioni blaterando cazzate a caso. Indossa una vestaglia nera con un grosso pentacolo cucito all’altezza delle gambe e probabilmente nella sua mente questa è una trovata simpatica. Il colpo d’occhio provoca il vomito. Dale Crover, da par suo, tracima tessuto adiposo da ogni piega di una maglietta troppo stretta, sbuffa e ansima e sfoggia con strafottenza un quadruplo mento da camionista baffuto da far sembrare marmoreo un budino créme caramel dentro la lavatrice. Ma è quando si aggiungono i nuovi innesti, il bassista-cantante Jared Warren e il secondo batterista Coady Willis, che la serata entra nel vivo. Lo show è diviso in due set dalla durata quasi identica (entrambi attorno ai tre quarti d’ora), il primo incentrato sulle cose più recenti, il secondo sui vecchi classici; i volumi sono impressionanti, il suono di chitarra qualcosa di difficile da immaginare, figuriamoci da sentire: magmatico, ribollente, schiumante, il suono di una fossa di liquami tossici dotati di vita propria. L’incedere delle batterie un meccanismo infernale che ridefinisce il concetto stesso di “metronomico”. L’aria si fa pesante, il pavimento trema: è come se il terreno si preparasse da un momento all’altro a spalancarsi in una voragine senza fondo né scopo. Sembra di assistere a un rituale pagano di cui soltanto gli officianti conoscono le regole; la sensazione, incancellabile, è di qualcosa di pericoloso, tenebrosamente imponente, malsano, qualcosa di profondamente sbagliato che si insinua inesorabile fin dentro alle ossa, a cui è del tutto inutile opporre resistenza. Come rimanere, ammaliati, immobilizzati, a contemplare l’abisso. Quando l’ultima nota si dissolve nell’aria è come se una mano invisibile avesse allentato la stretta alla nostra gola. Concerto dell’anno, se non fossimo sul pianeta Terra ma in qualche universo parallelo lovecraftiano, agghiacciante a partire dal nome, tipo R’lyeh. Terminale.
P.S.: l’inizio del concerto tre quarti d’ora prima dell’orario indicato ci ha impedito di assistere alla performance dei Porn. Bestemmie a iosa.

(foto di Kekko)
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