Il lunedì è infinitamente meno sgradevole al pensiero di un bel concertino gratuito a fine giornata all’Elastico; nello specifico, delle Sandwitches si dice che sono l’equivalente rock del personaggio che Jessica Chastain interpreta in The Tree of Life, non so per voi ma questo per me basta e avanza. Esserci (dalle 20, gratis). Martedì nel segno dei cantautori, da Richard Buckner al Bronson (21.30, dieci euro) a Maria Devigili in duo da Osvaldo (dalle 20, gratis) a Boxeur The Coeur al Teatrino degli Illusi (dalle 20, gratis). Mercoledì preparate gli acidi, prenotate un posto finestrino sull’astronave Delta 9 e sintonizzatevi sulla serata MeryXM più sballosa e viaggiosa di sempre; a partire dalle 20.30 il corriere cosmico Gino Dal Soler in carne, ossa e flow messianico parla del più grande libro sul folk psichedelico mai scritto in Italia: il suo. Non sarà una semplice presentazione di un libro, piuttosto un racconto fatto di parole, suoni ed immagini che hanno plasmato il free-acid-freak folk dagli anni 60 ad oggi. Una mappa sonica e visuale per l’orientamento, dedicata più ai neofiti che ai cultori che del genere sanno tutto o quasi. Musiche e visioni dentro un cerchio ininterrotto e come il titolo del video che presenteremo: “Be Glad for the song has no ending!”. Sto già fluttuando su Saturno al solo pensiero. Se invece la musica da sballoni fattoni non vi interessa e quel che volete è una bella botta di pagan-epic-folk-viking metal da far sborrare nell’armatura Odino mentre va alla guerra ecco per voi Moonsorrow, Tyr e Crimfall al Sottotetto (dalle 20.30, ventitré euro), e il gjallarhorn continua a risuonare. Ci sono anche i Junior Boys in supergay analog fattanza al Locomotiv (dalle 22.30, dodici euro più tessera AICS). Giovedì al Teatrino degli Illusi è di scena l’associazione a delinquere dei temibili fratelli Angeli(uno fotografa, l’altro suona la chitarra sarda preparata), dalle 22, un trip vero. Venerdì tra mafiosi ballerini, guitar heroes lesbici, jazzisti flippati e romagnoli urlanti sensibili ce n’è per tutti i gusti: rispettivamente, The Good Fellas al Locomotiv (22.30, dieci euro più tessera AICS), Kaki King al Bronson (21.30, dieci euro), Turbo Trio al Bartleby (21, gratis) e LaQuiete + Distanti al Covo (22, ??? euri). Sabato Chicks On Speed in live djset transgender pilotato al Locomotiv (22.30, dieci euro più tessera AICS), oppure festivalino foriero di gran legnate all’Ekidna a Carpi – ci suonano anche gli Storm{o}; info e flyer da stampare, fotocopiare e far girare Qui. Domenica The Field al Bronson (21.30, quindici euro) oppure The Babies al Mattatoio. È attiva la nuova casella postale per consigli, suggerimenti, minacce di morte, segnalazioni di bar mitzvah e quant’altro: lagendinadeiconcerti(at)gmail(dot)com. Scriveteci…
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Ma io lo so chi è Mark Lanegan
Ritorna William Elliott Whitmore, e questa volta lo senti che è speciale. Pur avendo continuato a incidere dischi con una certa strana regolarità (fino a tutto il 2006 al ritmo di un album e un EP a semestre, roba che manco i Kiss dei tempi d’oro, poi nulla fino al 2009 di Animals in the Dark), il mandriano dell’Iowa (che di per sé è come dire il meccanico di Detroit, ce ne rendiamo conto) non era più riuscito a raggiungere i picchi di pura, cristallina, incontaminata devastazione emotiva dell’immortale Ashes to Dust, ancora oggi e per sempre uno dei dischi più belli e strazianti degli anni Zero (e prima, e dopo, e oltre). Certo, qualche zampata da giovane vecchissimo leone ancora riusciva a piazzarla (Dry su Song of the Blackbird, che riprendeva il discorso esattamente da dove era stato interrotto alla fine di Ashes to Dust, There’s hope for you su Animals in the Dark, sorta di Love will save you ma campagnola e giusto un pelo meno amara) ma erano episodi isolati se si considera quanto i dischi prima fossero capaci integralmente di strapparti l’anima e farla a pezzetti con giusto qualche giro di acustica o banjo e il rantolo di un ultracentenario in fin di vita col catrame al posto del sangue nelle vene. Già, perché poi più passavano gli anni più la voce di Whitmore si normalizzava, ringiovaniva perfino, come una specie di Benjamin Button però bravo a scrivere canzoni che ti lacerano il cuore; fino al 2005 pareva un incrocio tra Tom Waits, l’ultimo Johhny Cash e un tabagista immortale che aveva da poco oltrepassato la boa del primo millennio di età; ora invece è effettivamente la voce di un mandriano trentatreenne che magari apprezza pure whisky e tabacco da masticare, ma senza abusarne. Ma questo non rappresenta più un problema dal momento in cui l’ispirazione dell’uomo torna ai livelli stellari di una volta: i due pezzi in streaming in anteprima dal nuovo, laneganiano Field Songs (che esce il 12 luglio, come il precedente ancora su Anti – ormai definitivamente la roccaforte certificata del vecchiume cool) dicono di una penna che affonda le radici fino alla carne e al sangue della tradizione, ridefinendo il concetto stesso di americana con la sola forza di una chitarra e dell’aria che passa attraverso le corde vocali. Sono canzoni senza tempo, che sono state scritte oggi ma potrebbero esser state scritte duecento anni fa o dopodomani che comunque la loro potenza rimarrebbe esattamente la stessa in ogni caso (magari al netto del costante cinguettio di uccelli registrato in sottofondo che alla lunga diventa leggermente fastidioso, almeno per chi come me vive in città e preferisce il rumore del traffico); canzoni che possono essere apprezzate anche se non avete mai visto una mucca in carne e ossa, non avete la minima idea di come si faccia a dissodare un terreno e dove vivete ci sono giusto i giardini pubblici. Se tutti i rednecks fossero come William Elliott Whitmore probabilmente il mondo sarebbe un posto un poco migliore (o perlomeno in giro ci sarebbe musica molto più bella).
La sagra dei maroni striscianti
Christian Zingales lo definirebbe “un matrimonio in Paradiso”: due tra i più grandi frantumacoglioni attualmente in circolazione insieme, la stessa sera, sullo stesso palco. Di Joanna Newson per anni sapevo solo che aveva suonato l’arpa nel disco dei Nervous Cop, estemporaneo side-project free-cazzeggio del tizio degli Hella di cui cito a memoria la recensione di Stefano I. Bianchi (che ricordo benissimo, a differenza del disco): Un tempo “progetti” come questo restavano semplici esercizi casalinghi, prove e divertissment della domenica pomeriggio. oggi diventano CD. Nervous reviewer.
Questo fino a quando nel 2006 qualcuno – forse pitchfork, ma potrei sbagliarmi – improvvisamente decide che l’allora ultimo disco di Joanna Newsom dovesse essere una roba grossa. Detto, fatto: Ys, spietato generatore di orchiti disumane fin dal titolo (che cita, forse involontariamente, gli ammorbanti Balletto di Bronzo, come a dire butta male e se non capisci sei stronzo due volte), diventa seduta stante il nuovo mai-più-senza dell’intellighenzia indie e in generale di chiunque, a qualsiasi titolo, pretenda di atteggiarsi a uno che ne capisce di musica. Le lagne per arpa e vocetta petulante da elfo dei boschi con la crescita rimasta bloccata a sette anni vengono sdoganate con una profusione di sforzi degna della costruzione della diga di Assuan, firme di solito affidabili sbarellano alla grande e in generale il plauso è unanime come ci si trovasse di fronte all’unica e ultima Opera d’Arte con la O e la A maiuscole della storia dell’umanità. Il tripudio di peana continua fino a investire le inevitabili classifiche di fine anno, che vedono Ys trionfare su ogni rivista, ciclostilato, rotocalco e sito Internet che voglia definirsi tale; pagato il dovuto al mestiere dell’appartenenza, dal primo gennaio 2007 il disco può dunque assolvere la funzione che gli è più consona, ovvero prendere polvere da qualche parte, fermare la gamba corta del tavolo o languire nelle vaschette dell’usato o nel cestino del desktop in attesa del prossimo repulisti. Per il nuovo album di Joanna Newsom bisognerà aspettare quattro anni; per essere sicura che nessuno al mondo senta il desiderio di ascoltarlo se ne esce con un triplo CD. La sfilza di recensioni sborranti è meno nutrita della precedente. Comunque sono tutte cazzate: NESSUNO ha ascoltato il disco, così come NESSUNO ha letto dall’inizio alla fine Alla Ricerca del Tempo Perduto o Critica della Ragion Pura e NESSUNO ha visto Il Decalogo o Heimat.
Josh Pearson era il cantante/chitarrista alla guida dei “fondamentali” Lift To Experience, trio di buzzurri baciapile texani, sorta di 16 Horsepower in sedicesimi con un immaginario agghiacciante da cowboy preso male tutto cappellacci e basette alla Pelù, roba che anche i Fields of the Nephilim dei tempi d’oro si vergognerebbero; il loro unico album, il doppio The Texas – Jerusalem Crossroads, un delirante concept biblico da far rimpiangere i testimoni di Geova quando vengono a rompere il cazzo a casa la domenica mattina, ha raccolto qualche consenso nelle frange più ottuse e bigotte degli States. Qui da noi non se l’è filato nessuno, tanto più che è uscito nell’estate prima dell’11 settembre. Naturalmente ora c’è chi giura che nel 2001 stava a sbronzarsi di vin santo insieme a quella vecchia sagoma di Josh, io la chiamo consapevolezza retroattiva, in ogni caso potenza dell’ADSL. Dopo anni di oblio nel segno della devastazione psicofisica e dell’amore per Cristo, l’ex basettato Pearson rispunta fuori con un barbone alla ZZ Top e un disco, Last of the Country Gentlemen, verso cui si ripete invariato l’effetto-Newsom: folgorazione istantanea e unanime sulla via di Damasco. Fioccano recensioni esagitate, interviste prone, dichiarazioni di amore eterno, copertine, comunioni, conversioni, con qualche inevitabile voce fuori dal coro di riflesso – comunque limitata alle message board – del solito bastian contrario di professione che ha da poco scaricato l’orribile leak in VBR che gira da prima dell’uscita (fatica sprecata: tutto il disco sta in streaming gratuito su Deezer). Qualche giorno fa l’ho ascoltato: sembra una versione dilatata della scena di Animal House con lo strimpellatore “introspettivo”, solo che qui dura quasi un’ora e alla fine non arriva nessun Bluto a spaccargli la chitarra. La voce pare quella di un Morrissey inumato. La voglia di sbattere su l’opera omnia dei Poison Idea a volumi disumani mi assale come fosse l’unica cosa da fare prima della morte cerebrale. Un matrimonio in Paradiso.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 28 marzo-3 aprile 2011
Correte a rispolverare i dischi dei Discharge e le VHS di Mad Max (il secondo e il terzo in particolare), e magari già che ci siete fate fare un altro giro al Divx di Threads scaricato l’altroieri: arriva la nube radioattiva. Prima che comincino a nascere vitelli con tre teste e pesci con sei occhi, che l’insalata diventi fluorescente e al posto delle dita ci crescano strane vibrisse retrattili forse faremo in tempo a spararci qualche concerto; nel dubbio, questo è quel che succede in città nella settimana sotto il cielo avvelenato da Fukushima.
Questa sera al Clandestino arrivano gli islandesi più svenevoli e autistici dai tempi del primo dei Sigur Ròs, si chiamano Hjaltàlin e riporteranno l’inverno nel tinello di casa a costo zero, dalle 22.30. Öæðùèèèèðýðvéöööö.
Domani dovrebbe esserci Stefano Bollani che reinterpreta i pezzi di Frank Zappa al Teatro Carisport a Cesena, anche se l’aggiornatissimo sito del posto dice diverso; 3-1 Vaffanculo in ogni modo. Mercoledì a MeryXM suonano i Satan Is My Brother: FSCHHHHHHHHHHHH, FRRRRRRRRRRRRRRRR RRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRRR KKKKKKKKKKRRRRRRRRRRRRRRRRSCHHHHHHHHH e via dicendo. Al momento non riesco ad accedere al sito dell’XM24 quindi dovrete credermi sulla parola. Inizio presentazione intorno alle 20.30, inizio concerto intorno alle 23. Mercoledì e giovedì al Palanord ci sarà anche Degustacion de Titus Andronicus, il nuovo pirotecnico e mangereccio allestimento di quei mattacchioni de La Fura Dels Baus, inizio ore 21.30, ingresso trenta euro, obbligatorio presentarsi ingioiellati e/o con la faccia da stronzi di chi se la tira così per il gusto di tirarsela: il pubblico sarà di quelli di un certo livello. Giovedì alziamo il dito medio a Van de Sfroos alle Celebrazioni (tra parentesi, sarebbe anche il caso di cominciare a bruciare fino all’ultimo degli agghiaccianti manifesti della Lega Nord di cui Bologna è ultimamente tappezzata…), c’è Tizio al Circolo della Grada (di solito è gratis con tessera Arci ma capace che stavolta chiedono dù spicci, non so).
Venerdì c’è tale Dan Deacon al Locomotiv; lui è l’ennesimo protégé di quelle merde di pitchfork ma ad accompagnarlo c’è la Banda Roncati e solo per questo il concerto vale almeno tutta la risma di biglietti (che stanno a dieci euro l’uno più tessera AICS); l’inizio è fissato attorno alle 22.30, il che lascia un margine di manovra per poi catapultarsi al Sottotetto per quella che probabilmente sarà la jam dell’anno, per non dire del decennio, per non dire della vita: Alien Army reunion, e per chi sa non è necessario dire altro. Dieci euro più tessera Sottotetto il lasciapassare per la Storia. E sabato si replica con Colle der Fomento giù al TPO (dalle 22, dieci euro) a dare la merda a qualunque fiacco MC che quando hanno cominciato manco stava ancora dentro ai coglioni di papà. Magari si riesce a fare la doppia con PropheXy e Stereokimono alla Farm (che sta a un centinaio di metri dal TPO). C’è anche la lardosa Miss Kittin al Link e gli stoccafissi elitaristici Ulver al Bronson (21.30, venticinque euro).
Gran finale domenica con concertone frigotecnico all’XM24 (maggiori informazioni, flyer ecc. appena riesco ad accedere al sito); ci sono anche i Twilight Singers al Locomotiv (sedici euro più tessera AICS, no rianimazione, di spalla dei tizi che si chiamano Craxi, poveri cristi…), Lloyd Cole in chiesa e, per chi ci crede, ennesima tranche dell’infinito Glam Fest all’Estragon.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 21-27 marzo 2011

al prossimo che sento cianciare a proposito della "dignità dei giapponesi" gli infilo questo vinile su per il culo.
È arrivata la primavera, come diceva anche Marina Rei. L’ex Fragilecontinuo festeggia da par suo con un concerto aperitivo di BeMyDelay + Rella the Woodcutter; oggi pomeriggio dalle 19, prima tutti ai Giardini a suonare le prime trombe della stagione. Martedì gran festa per gli amanti del thrash metal coi riffettini puliti a mitraglia e il giubbetto di jeans con la toppa dei Forbidden e tanti altri loghi improponibili, arrivano i lungocriniti Lazarus A.D. e i molesti latinos Bonded By Blood (originali fin dal nome) in data unica al Blogos (dalle 21.30 con Criminal Side e Injury di spalla; quindici euro). Mercoledì a MeryXM si parla di Frigidaire insieme a Vincenzo Sparagna (non un coglione qualunque che ha scoperto il più grande giornale della storia dell’Umanità l’altroieri chissà come); imperdibile, dalle 20.30. Poi dopo c’è anche un concerto.
Giovedì il delirio: per i froci stilosi ci sono gli Stereo Total al TPO (dalle 22, non so il prezzo), per gli hipster senza una ragione ma col frangettone colorato gli Everything Everything (purtroppo niente a che vedere con gli Underworld a nessun titolo) al Covo (dalle 22, ingresso boh?), mentre per le teste metal che si sentono molto vikinghe o celtiche nell’animo la nuova edizione della Pagan Fest all’Estragon (dalle 18.30, venticinque euro, non entri se non indossi almeno un capo in pelliccia di vero animale morto possibilmente soffrendo, vegetariani e astemi fuori dal cazzo). Venerdì rispolverate il crocifisso della nonna e la tonaca stile “il nome della rosa” del carnevale scorso, al Locomotiv arrivano i Current 93 in data unica (dalle 22, ventitrè euro più tessera AICS, fondamentale una flebo di sali minerali da casa che probabilmente si evapora); poi un paio di cucchiaiate di horse power e via di nuovo in forma per Villalobos al Kindergarten (trentacinque euro). Sabato si festeggia il decennale dell’Atlantide con Raein, Sumo, Affranti e release party del nuovo D.U.N.E. (dalle 22.30, siateci che dice che l’anno prossimo la chiudono); domenica Glam Fest al Sottotetto coi mitologici Vain e tanti altri gruppi che farebbero diventare eterosessuale ingrifato anche Ratzinger.
Giovedì, venerdì e sabato al Sì dalle 19 alle 3 (sabato fino alle 24 poi gran festone finale al Locomotiv a oltranza) si terrà la nona edizione di Homework Festival: programma da urlo, prezzi ultracontenuti (soltanto cinque euro la sera del venerdì e dieci per il closing party al Locomotiv), cucina tipica, stare bene. Spettacolare l’immagine scelta a rappresentare l’evento; è il panorama che vedo ogni volta che vado verso l’XM. Bella la città.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 14-20 febbraio 2011
Probabilmente questa sera il Clandestino è il posto migliore sulla faccia della Terra per festeggiare San Valentino: dalle 22.30 il basettato Vincenzo Vasi (tra i più grandi suonatori di theremin al mondo, bassista mentale, vocalist stratosferico e un sacco di altre cose, uno dei motivi per cui sono orgoglioso di essere al 50% romagnolo) e il cronenberghiano Nicola Montefiori in coppia assassina e programma a tema (“The Look of Love” il titolo della serata) plasmeranno la celestiale colonna sonora per una notte che potrete raccontare ai vostri nipotini tra cinquant’anni.
Per la serie “ma tu guarda chi si rivede”, martedì gli Angra all’Estragon (dalle 22, ventidue euro); visti due volte con André Matos ai controlli, non avevo la minima idea che fossero ancora in circolazione. Chissà chi è che canta ora. Mercoledì perfino troppa roba in città: all’XM24 MeryXM con un libro catastrofista su Bologna e a seguire concerto frigotecnico con UTAT, Magic Towers e Colourful Mountain (dalle 20, gratis), UK Subs e Vibrators al Sottotetto (di questo non so né prezzi né orari, ma ho il sospetto che inizi presto e non sia propriamente a buon mercato), Silvio Indigesti Bernelli a colloquio con Dee Mo al Modo Infoshop (dalle 21.30), Sigourney Weaver (a dispetto del nome l’attrice non c’entra un cazzo) al RAUM, e pure in forse i Leng Tch’e al Nuovo Lazzaretto (“in forse” perché a parte un post sul loro myspace datato dicembre 2010 sembra scomparsa ogni altra notizia al riguardo: vedremo). Comunque giovedì tutti all’XM24 per i Marvin, non so cos’altro ci sia in giro, non so se ci sia in giro qualcos’altro, l’unica cosa che so è che questa è la serata.
Venerdì rock’n’roll passatista overdrive al Covo con i Guano Padano (nome meraviglioso) di ‘Asso’ Stefana (dalle 22), oppure mazzate sui denti al Nuovo Lazzaretto con la Mini Fast Fest (dalle 21); ci sono anche gli Hurts all’Estragon, ma non so voi ma a me già i Bros facevano schifo al cazzo e non vedo perché fare il bis con un gruppo ancora più fiacco degli originali. Sabato il delirio: Storm al Link, Wire al Velvet, ancora Vincenzo Vasi e Massimo Simonini in serata theremin all’Areasismica a Forlì, e per finire quel matto di Oldseed alla Salumeria del Rock (lui è un personaggio assolutamente da conoscere, oltre che un musicista di raro pregio e talento). Gran finale domenica al RAUM per Magic Towers + UTAT e Opium Child, oppure ancora all’XM24 per il Souljob Festival: delirio.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 24-30 gennaio 2011

il fatto che il bassista dei Godspeed You Black Emperor si chiamasse Mauro Pezzente mi faceva ridere. Pensavo che fosse un parente di Gigi lo Stronzo.
Avevo sentito di una data dei Mombu stasera al Clandestino ma ora non so più (dalla Rete sembra sparita ogni notizia al riguardo), nel caso contattate il locale prima, ne vale la pena (il concerto se c’è è gratis e loro spaccano). In ogni caso martedì non c’è un cazzo, si sverna da qualche parte oppure in casa a fissare le pareti; comunque il mood adatto per arrivare a mercoledì belli pimpanti per i Godspeed You Black Emperor (il punto esclamativo mettetelo un po’ dove volete) all’Estragon (dalle 22). Certo, non è il Link e non sono gli anni novanta ma loro suonano tanto e suonano bene e questo è il periodo dell’anno adatto per lasciarsi andare a lancinanti nostalgie al suono delle loro nenie (sperando che facciano soltanto roba dai primi due dischi). Costa ventidue euro ma li vale tutti. Contemporaneamente, a un prezzo decisamente più popolare (zero euri, gratis, a scrocco, a ufo, ecc.), continua l’appuntamento con MeryXM all’XM24: libro, documentario, cena e concerto da paura con il micidiale progetto Double Mussell (due sax, due bassi, due batterie, due synth = delirio improv massimalista). Meraviglia.
Giovedì quello svitato di Above the Tree suona la chitarrina mascherato nell’ufficio della Unhip (non so l’orario); altrimenti glam/rock’n’roll in dosi da uccidere un elefante al Thunder Dome (via Zanardi 92/D) in compagnia di Hapax, Hollywood Killerz e gli onnipresenti Lester & the Landslide Ladies (dalle 22.30, prezzo non pervenuto, probabilmente c’è da sottoscrivere l’ennesima tessera che vale soltanto lì). Venerdì probabilmente salterà fuori qualcosa di meglio ma per ora a parte Il Pan del Diavolo al Covo e Donatella Rettore (…) all’Estragon non so di nient’altro in giro e la vedo grigia. In compenso sabato revival thrash metal brasileiro all’Atlantide con Whipstriker, Atomic Roar, Iron Fist e Kalashnikov (dalle 22.30, prezzi politici e ascella commossa) e dj set molesto dei Pendulum al Link (dalle 23, diciotto euro); altrimenti, per i madrigalisti moderni Ataraxia in versione piano e voce a Modena (tutte le info sul loro leggiadro e macromediesco sito) e per i cafoni gotici Combichrist e Mortiis al Velvet. Domenica X-Mary allo Scalo San Donato o se siete in vena di gite fuori porta il tenebroso Wooden Wand al Mattatoio a Carpi a orario aperitivo.
QUATTRO MINUTI: James Blackshaw – All Is Falling (Young God)
VIA
Sarebbe anche un MATTONE, non fosse che il disco è diviso in otto “momenti” senza titolo; il regazzino che già ci aveva abbondantemente sfracellato i coglioni con lunghissime suite tra fingerpicking ipnotico di stretta osservanza Fahey e inserti di effettistica alla buona si lascia prendere da manie di grandezza (voglio dire, ancora più del solito) e gioca la carta del minimalismo orchestrale con (tra gli altri) violini, flauto, sax, voce e violoncello. L’effetto globale oscilla tra lo stucchevole, il patetico e il so bad it’s good, anche se l’ultima traccia è molto bella (ma sono solo otto minuti su un totale di 45). Verrebbe da dire: un po’ come l’ultimo degli Swans, ma poi
STOP
Sun Kil Moon – Admiral Fell Promises (Caldo Verde)
Ormai ho perso il conto delle uscite targate Mark Kozelek negli ultimi anni. Che l’uomo avesse deciso di passare alla cassa non è più un mistero per nessuno da almeno un decennio, e per carità, è una scelta che rientra nel suo pieno diritto; ricordo ancora una sua intervista, doveva essere l’inizio del 2001, in cui dichiarava di vivere in una stanzetta in affitto con l’incubo perenne dello sfratto esecutivo, all’epoca evitato per un soffio grazie al cachet percepito per la sua partecipazione in Quasi Famosi. Veniva veramente da chiedersi perchè gli altri sì e lui no. E che diamine! Gentaglia impresentabile imperversava ovunque (tanto per ricordare, una delle new sensation dei tempi erano i bruttissimi Kings of Convenience), mentre otto anni di carriera irreprensibile con i Red House Painters bastavano a malapena a coprire parte delle spese di una vita di stenti. Mi si era stretto il cuore nel leggere quelle parole, e ad aver saputo il suo indirizzo gli avrei immediatamente spedito qualche dollaro e un paio di scarpe per l’inverno. Musicalmente nessun problema comunque, finchè la qualità ha tenuto: l’EP Rock’n’Roll Singer (2000) era decisamente buono, così come What’s Next to the Moon (2001, raccolta di classici degli AC/DC dell’era Bon Scott spogliati di ogni alito di vita e aggressività, trasfigurati e resi irriconoscibili), per quanto strampalato e bizzarro – o forse proprio per questo – continua ad avere un suo perchè. Nel frattempo era finalmente uscito anche il canto del cigno dei Red House Painters, Old Ramon, bloccato per anni da beghe burocratiche con la major incompetente di turno che non voleva pubblicarlo ma nemmeno intendeva cederne i master, e anche quel disco era un bel disco. Con la nascita dei Sun Kil Moon, poi, la penna dell’uomo era tornata a volare alto: l’esordio Ghosts of the Great Highway (2003) è un capolavoro assoluto, perfettamente in grado di tenere testa alle cose migliori degli anni d’oro, a volte perfino capace di superare vette di ispirazione e lirismo fino ad allora ritenute inviolabili (pezzi come Salvador Sanchez o la torrenziale Duk Koo Kim aggiornavano l’antico canovaccio portandolo al livello successivo grazie all’innesto, perfettamente riuscito, di poderose distorsioni e perfino – incredibile! – qualche assolo). Ghosts of the Great Highway è stato anche l’ultimo sussulto di ispirazione prima del diluvio di uscite assolutamente prescindibili a voler essere buoni: l’album di cover dei Modest Mouse si dimentica agevolmente; i mille live per sola voce e chitarrina sono una noia mortale, tutti, dal primo all’ultimo; la ristampa di Ghosts of the Great Highway comprende un secondo CD di scarti e out-takes che definire ‘superfluo’ sarebbe fare uno sgarbo alla categoria; di April (nel mezzo c’è stato il ruolo di spalla “saggia” dell’insopportabile Jason Schwartzman nel caruccio Shopgirl, innocuo adattamento cinematografico del romanzo d’esordio di Steve Martin) sono molto belli solo gli ultimi due pezzi, il resto è pilota automatico puro, un tedio da orchite fulminante che si fa fatica a crederci. E ora il ritorno con il moniker Sun Kil Moon, nella pratica nulla cambia: c’è solo Kozelek con la sua chitarrina spagnoleggiante, del resto assumere personale da mettere dietro agli strumenti – e affittare una sala prove, per giunta – avrebbe comportato spese. Gli ingredienti sono gli stessi delle ultime 5.674 uscite: voce mormorata riverberata mugugnata, chitarrina languida mezzo brasileira, comunque sempre picchiettata tipo plin-plon, qualche foto virata in seppia di particolari desolanti e/o posti abbandonati in culo al mondo, ed ecco pronto un altro disco. Anche i testi sembrano assemblati tramite un generatore automatico di liriche ‘alla Mark Kozelek’: ricordi d’infanzia, qualche figa che forse gliel’ha data (questo non lo dice mai direttamente, lo lascia intuire, perchè sennò poi le anime belle si scandalizzano), modelli di macchine (nota bene: Kozelek non sa guidare), nomi e marche, luoghi e date buttati lì un po’ a cazzo, l’Oceano, la spiaggia, ancora ricordi. In tutto questo manco mezzo secondo che non lasci il tempo esattamente come l’ha trovato. Quel che più intristisce è il senso di automatismo smascheratamente alimentare che emerge implacabile dal quadro generale, come se Kozelek avesse scritto e registrato il materiale con la mente già proiettata alla prossima uscita – probabilmente un live in Oklahoma in edizione limitata, gli stessi pezzi più qualche ripescaggio dei Red House Painters per accontentare i reduci, o magari una mezzoretta scarsa di cover di qualche gruppo scrauso, tipo i REO Speedwagon o Ted Nugent, il tutto rigorosamente riarrangiato per lagna salmodiante e chitarrina plin-plon, in ogni caso roba nemmeno brutta, semplicemente inesistente. Che fine indecorosa per uno dei più grandi poeti della musica rock degli anni ’90.