Glass Candy / Chromatics @ Bronson, Ravenna (03/06/2013)

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Nella seconda metà del concerto i Chromatics smettono di suonare, tutti a parte Johnny Jewel, il quale sulla base del pezzo che sta finendo fa partire un’altra base più o meno uguale ma spaiata di ritmo, e per un minuto stiamo ad ascoltare questo groove strano e minimale e storto e non troppo danzereccio e pure piacevole. Ok, questo a ragion veduta è l’unico minuto di musica dei Chromatichs (almeno tra quelli suonati stasera) che non si possa trovare identico e meglio confezionato nel primo o nel secondo disco dei New Order. In linea di principio queste cose mi farebbero girare i coglioni, ma

1)      la scarsa originalità e il plagio spudorato sono stati depenalizzati da almeno dieci anni

2)      sono preso bene di mio.

In realtà qualcosa da dire ce l’avrei pure, nel senso che anche al netto di tutta la musica che ci siamo ciucciati dal botto degli Strokes ad oggi è ancora abbastanza difficile dover avere a che fare con concerti-evento che rimasticano roba che ti sei svolto da solo e in tempi non sospetti di fronte alle immaginarie risate dei tuoi immaginari amichetti metallari, ma l’analisi di questo genere di fenomeni e contro-fenomeni non può tener conto del fatto che alla fine il Bronson non è che sia stracarico di gente, e comunque c’è da fare i conti col punto 3 della lista di cui sopra e cioè che

3)      i Chromatics suonano benissimo.

Niente di eccezionale, sia chiaro: batteria, una o due chitarre e qualche macchinetta analogica. Per i Chromatics il fatto di essere vintage si estende alla coscienza che saper suonare in un gruppo pop significhi saper suonare insieme. Un mezzo uovo di colombo: serve esperienza, e questa roba si brucia in fretta. I Chromatics hanno dieci anni di dischi alle spalle e vengono (come tutto il progetto Italians do it Better) da un giro di gente ed etichette dove o facevi roba interessante o non ti copriva un cazzo di nessuno. Per quanto riguarda i concerti che richiamano un pubblico come questo (tagliando con l’accetta: un pubblico in mezzo al quale sono presenti almeno dieci ragazze a cui sareste tentati di chiedere di uscire nonostante sia quasi certo che vi risponderanno a risate e gomitini con le amiche. Non io, uno che conosco), i Chromatics rischiano di essere la cosa più solida con cui avrete mai a che fare: coverizzano Kate Bush, Neil Young e Blue Moon (chitarrina e voce, roba da brividi) e le portano tutte a casa. La cantante somiglia ad Annalisa Scarrone. Da non crederci. S’è fatta quasi mezzanotte e la gente si disperde un po’, è lunedì sera e io mi sento una nuvola di gas nervino nel cervelletto: ipotizzo che Glass Candy abbiano già suonato intorno alle 21,30, ma mi assicurano che non sono ancora saliti sul palco. Rimango indietro senza convinzione, mi dico che se butta male un risultato l’ho comunque raggiunto e posso tornarmene a casa a dormire l’ultima puntata di Game of Thrones.

Insomma i Glass Candy (ho sempre usato il femminile, le Glass Candy) salgono sul palco ad ora tarda e dopo mezza canzone sono a scapocciare a un angolo del palco. Non si riesce a spiegare benissimo cosa succede: sul palco c’è sempre Johnny Jewel, ma senza il gruppo a suonare e con Ida No al posto di Annalisa Scarrone. La  musica sembra la versione non-radical e non-chic di quando vivevo di fronte alla palestra e alle sette di sera iniziavano i corsi di aerobica per le quarantenni: parte la base italo-disco, il volume sale a livello disumano, un’istruttrice criptofascista senza alcuno skill danzereccio muove due passetti ti invita a muovere il culo urlando UNO DUE UNO DUE al microfono. Però il concerto dei Glass Candy non è né un bluff né una cosa sul genere so bad it’s good. Somiglia più al risultato di un esercizio di sottrazione strutturale lungo dieci anni su una musica che ha perso tutti i riferimenti per diventare, più o meno, gioia pura. Forse l’unico paragone possibile è Andrew WK: non è roba per puristi della disco, non è roba che apprezzi solo se hai più di duemila dischi in casa, non è roba per farti sentire figo; sfrondata di tutto, suona come la musica più onesta mai realizzata. Una piastra, un sintetizzatore, qualche effettino, un microfono, dei passi di danza malfermi. Difficile in mezzo a un concerto dei Glass Candy immaginare che questa cosa ha trovato un uso massivo in passerelle e spot pubblicitari: per il tempo che va avanti è più come il sesso anale passivo o una qualsiasi altra forma di celebrazione orgiastica pura e non accettata socialmente. Sulle prime file ci sono le facce più felici che si possano vedere a un concerto senza droghe: fanno i bacini con Ida, alzano le braccia tatuate al cielo, ballano come degli spastici, s’abbracciano, urlano. Tendenzialmente ci si tiene pure il telefonino in tasca. Nel resto d’Italia il Boss tiene una lezione di catechismo di tre ore e mezzo a San Siro, e da qualche altra parte Paola e Chiara annunciano l’imminente ritiro dalle scene. Difficile non pensare che il concerto dei Glass Candy non sia in qualche modo la summa. Per così dire.

(la foto è di Giulia Quintabà)