il listone del (ehm) martedì: DIECI CICCIONI CHE CI RENDONO LA VITA MIGLIORE.

La leggenda del RUOCK ha permesso ai suoi principali esponenti di dedicarsi a qualsiasi attività girasse a loro per la testa, a patto che queste attività non inficiassero l’impatto scenico delle foto sui giornali. A livello di immaginario sei una leggenda se ti mangi un pipistrello e un obeso di merda se ti mangi dieci pipistrelli al giorno. C’è un certo grado di accettazione di artisti dichiaratamente nazisti, pedofili, comunisti, cristiani, tossicodipendenti ed omicidi, ma continua un certo grado di autocensura della stampa quand’è il momento di parlare di un musicista sovrappeso, buttando alla peggio il discorso in caciara parlando di un generico disinteresse per i formalismi e l’estetica maggioritaria e continuando ad ignorare il problema, cioè che strafogarsi di cheeseburger è RUOCK e integrare con il tofu è LENTO, e che l’unico modo di non ingrassare scolandoti una bottiglia di Jack Daniels a sera è di morire di cirrosi epatica prima che succeda. La lista che segue, dunque, comprende dieci persone con problemi di peso che rappresentano a ragion veduta il meglio del meglio che la musica RUOCK ci abbia mai dato e che continuano ad alzare le spalle, affogarsi di pasta e suonare duro/veloce/incazzato. La riduzione a dieci nomi ha imposto scelte drastiche e l’esclusione di gente tipo Pink Eyes, il ciccione dei Raging Speedhorn, il batterista di Vasco Rossi, Fletcher dei Pennywise, il bassista dei Kepone, Daniel Johnston e una barcata di altri. Non ci siamo soffermati sull’origine dell’obesità (medico, alimentare, psicologico, photoshop), quindi può darsi che qualcuno dei nomi inclusi non ami sentirsi ricordare di essere un ciccione.

D.BOON
I Velvet Underground dell’arcòr, più o meno, un gruppo che non raccolse tantissimo ai tempi ma che ispirò una legione di musicisti che ancor oggi pagano debito, erano un power-trio di San Pedro con alla chitarra un ciccione matto che saliva sul palco e saltellava a destra e a manca in un modo che ricorda vagamente la prima volta che vai in discoteca a quindici anni. Il fatto che i Minutemen abbiano composto solo musica bella e che Dale Boon sia morto in un incidente alla fine dell’85 ha cristallizzato la cosa in un attimo infinito a cui chiunque faccia musica indie deve piegarsi. Puoi stare lì con il ventre piatto, la testa bassa e i capelli davanti agli occhi a percuotere la tua chitarra atona, ma quello che ti ha insegnato a suonare così era un culone sudato che l’avresti guardato e preso per il culo.

BOB WESTON
Il bassista più stiloso in attività, ad occhio e croce, pesa intorno al quintale. Si piazza al lato sinistro del palco con le gambe leggermente divaricate e i piedi in fuori piantati per terra; spara fuori una dozzina di pezzi suonando pesantissimo e guardando fisso davanti a sè come un autistico, con un’aria tipo chissà se in camera stanotte c’è il bidè. Incidentalmente, come ingegnere del suono, ha messo la firma su una sfilza di dischi talmente belli e importanti da fare quasi invidia a quelli messi in fila dal sodale Steve Albini. Nel corso degli anni ho sviluppato una specie di dipendenza da Bob Weston. Per l’ultimo lustro ho cercato forsennatamente in giro per i negozi un paio di scarpe uguali a quelle che gli ho sempre visto ai piedi, senza successo tra le altre cose. Non mi arrendo.

KIRK WINDSTEIN
Di tutti gli obesi del giro southern metal andiamo a scegliere il più cazzuto e pittoresco, chitarrista dal tocco indelicato con una voce strozzata che a una quindicina d’anni dal primo giro sul lettore di un disco dei Crowbar ancora non mi sono abituato alla paura che fa. L’inclusione di Kirk Windstein ha significato l’esclusione di alcuni pezzi da novanta (ma anche centoventi) tipo Jim Bower e Vinnie Paul, anche se probabilmente Vinnie Paul è un’esclusione bella pesante e di suo sarebbe incazzatissimo all’idea di essere accomunato con uno di questo giro. Vabbè.

I POISON IDEA
I Poison Idea sono un gruppo composto quasi esclusivamente di ciccioni. Questa cosa si ripercuote nella musica, che è sboccata veloce e violenta come poche altre musiche e che veniva suonata in condizioni abbastanza al limite dell’umano da rendere sostanzialmente impossibile bloccare il cervello sui ciccioni da sfottere.

I FRATELLI CONNER
La scena di Seattle si prestava benissimo ad accogliere ciccioni ributtanti al suo interno, ma i gruppi di primo piano erano composti quasi tutti da musicisti anoressici (Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains eccetera). Fanno eccezione il non-poi-così-obeso Kim Thayil, uomo d’altri tempi, e il non-poi-così-geniale Tad Doyle, che sul fatto di esser grasso ci ha marciato abbastanza da tirarci fuori i soldi per un’auto, o qualcosa del genere. E ovviamente King Buzzo, che comunque non è sempre stato grassissimo e non mi piace l’idea di mettere i Melvins a rappresentare il grunge. Voglio dire, sarebbe come dire che i Kyuss erano un gruppo stoner (ok, ho sbagliato esempio). I miei obesi preferiti del giro Seattle sono comunque, da sempre e per sempre, i fratelli Van e Gary Lee Conner, rispettivamente bassista e chitarrista degli Screaming Trees e principale ragione estetica della Grande Menata della stampa mondiale sugli Screaming Trees, vale a dire che avrebbero dovuto fare molto più successo di quello che avrebbero meritato. Ma voio dì, manco Lanegan da solo ce l’ha fatta a diventare Eddie Vedder, tanto valeva che continuasse a farsi fare i riffoni dai fratelli Conner che COL CAZZO sarebbe uscito un Blues Funeral demmerda.

KEVIN SHARP
I Brutal Truth, gruppo di grindcorer anoressici newyorkesi capeggiati da Dan Lilker, si sciolgono dopo l’uscita di Sounds of the Animal Kingdom in seguito a dissidi tra i componenti. Quando ricominciano a girare dal vivo, poco meno di una decina di anni dopo, il cantante Kevin Sharp si è trasformato in un panzone barbuto ed affronta il palco come una specie di Henry Rollins sovrappeso. L’estetica del ciccione è più o meno tutta qui: carismatico, infoiato e preso d’assalto dalle prime file di fanatici, ovviamente tutti ultratrentenni e quindi tutti ugualmente sovrappeso. Grosse botte su grosse pance. La condivisione di alcuni gruppi permette a Kevin Sharp di stare in lista a rappresentare anche il molto più ciccione Shane Embury, che a me personalmente sta molto antipatico (voglio dire, alla fin fine è abbastanza chiaro che nei primi Napalm Death il genio erano TUTTI GLI ALTRI MEMBRI a parte lui, da cui il fatto che mentre la diaspora delle prime incarnazioni del gruppo generava cose tipo Cathedral Scorn e Godflesh e Carcass, loro prenotavano un ruolo di macchinetta automatica del metal estremo dentro cui son rimasti intrappolati).

YNGWIE MALMSTEEN
Il fatto che il più grande emissario del metal estetico tecnico e cafone, l’artista che perfino i fan dei Manowar considerano troppo infoiato per poterselo sparare a livello quotidiano, finisse per donarsi così intensamente alla propria arte da perdere cognizione della propria forma fisica e diventare un ciccione da guinness, insomma, sembrava scritto in cielo. La gente ha PAURA e continua a non comprenderlo, teme il confronto, esalta il post ed il pensiero laterale ad ogni costo, continua a non dargli credito e a liquidarlo come irredimibile merda de cane e a fare battute sui pantaloni di pelle che gli fasciano i coscioni giganteschi. Solo l’ennesimo prezzo da pagare per il più fiero ed autodistruttivo culturista della chitarra di fine secolo.

FAT MIKE
Michael John Burkett è il bassista, cantante e principale autore della musica dei NOFX. I NOFX sono il gruppo con il suono più merdoso con cui abbia avuto a che fare (punk rock melodico con chitarre plastificate a zanzara e basso più o meno intuibile in rare circostanze), e al contempo sono la dimostrazione che se dalle mani ti escono dei pezzi tipo Dying Degree puoi avere il suono più merdoso della storia ed essere comunque tra i migliori gruppi usciti fuori dagli anni novanta. Il nome con cui ha scelto di essere famoso lo squalifica agli occhi del grande pubblico, e il paradosso è che (specie ultimamente) Fat Mike non è per niente un ciccione, piuttosto una specie di finto obeso e finto idiota che suona musica finto-divertente. Come è logico, l’interpretazione popolare della faccenda non tiene mai conto dei finto,  bollando i NOFX come un gruppo di dementi senza talento che ha ispirato una generazione di dementi senza talento. E insomma, delle due è vera solo la seconda.

BETH DITTO
Non è l’unica donna col culone della storia del rock, e un po’ mi dispiace inserirla in lista dopo l’uscita del primo disco veramente brutto a firma The Gossip. Ma cristo di un dio è stato semplicemente troppo LOL vedere la cantante di un normale gruppo indie-cassa diventare il simbolo popolare di una ribellione estetica contro l’anoressia ed il velinismo, sull’onda di articoli di giornale che ne celebrano la sostanziale normalità (è (sinonimo di) GRASSA! è (sinonimo di) LESBICA! è (sinonimo di) MONOGAMA!) come un buco nero culturale da cui si sta sviluppando un mondo di nuove star della moda tutte indie, grasse, lesbiche e monogame che provano a far fuori la concorrenza, e basandosi ovviamente sull’assunto ideologico secondo cui qualunque donna abbia mai preso un microfono in mano sia sempre e solo voluta diventare Kylie Minogue o se va male la Pausini, e tutto questo dando del misogino a me perchè scrivo in questo capoverso che la cantante dei Gossip è cicciona e lesbica.

BOB MOULD
Il chitarrista e autore dei migliori pezzi del più grande gruppo mai esistito aveva le ossa grandi e una depressione cronica. Poi ha sciolto il gruppo, ha iniziato a dimagrire e ha prodotto musica sempre molto bella ma molto molto meno di quella che aveva prodotto negli anni delle ossa grandi, delle litigate col batterista e della depressione cronica. Si tratta probabilmente del miglior sponsor a favore dell’obesità e dell’infelicità.

Ma io lo so chi è Mark Lanegan (reprise)

l'estetica del rock.

Una delle cose che mi danno più al cazzo nella musica rock è l’attitudine a parlare di certi gruppi come di non hanno riscosso il successo che meritavano o ancora peggio con la formula da loro inventata ci si sono arricchite decine di gruppi. I principi di questo genere sono gruppi tipo Fear Factory, come se avere inventato il techno-metal fosse un pregio. Un altro assolutamente in pole position erano gli Screaming Trees. Gli Screaming Trees erano probabilmente il gruppo grunge definitivo: pesantissimo indierock sabbathiano con pezzi sbilenchi, cantante in bilico tra origini indie-punk e aspirazioni blues, due ciccioni inguardabili in pantaloncini a rovinare tutte le foto promozionali. Avevano fatto uscire una manciata di dischi su SST, uno più bello dell’altro (il migliore è l’ultimo Buzz Factory, senza alcun cazzo il miglior disco della carriera di tutti i membri coinvolti) e sull’onda dei contratti che stavano piovendo a Seattle e dintorni nell’epoca dell’esplosione del grunge, riescono ad uscire con un disco major già nel ’91. L’album si chiama Uncle Anesthesia (prodotto da Chris Cornell) ed è ancora uno dei migliori compromessi tra suoni alla Jack Endino ed ambizioni da grande arena. Riescono ad infilare un singolo di successo solo con Nearly Lost You, nel successivo Sweet Oblivion: un buonissimo disco, ma niente di paragonabile al pop rock allucinato dell’epoca SST (certo, se Sweet Oblivion uscisse uguale nel 2011 sarebbe il mio disco dell’anno senza sforzarsi, ma a metà anni novanta possiamo permetterci di fare le pulci). Del resto l’anima commerciale della band è sempre stato il solo cantante Mark Lanegan: si smarca dal gruppo già nei primi anni novanta, chiudendosi in studio con uno stuolo di amici e riemergendo con un disco solista di bellezza assoluta intitolato The Winding Sheet in cui dà sfogo alle sue ambizioni da cantautore. Gli Screaming Trees, in ogni caso, continuano ad esistere lungo tutti gli anni novanta con tre dischi all’attivo (l’ultimo è Dust, decisamente meno bello dei precedenti anche se non ancora da buttare), frequentazioni Mad Season e una formazione piuttosto stabile che dal ’96 in poi si fregia persino di Josh Homme alla seconda chitarra. Nel 2000 i Trees si sciolgono ufficialmente: l’ultimo disco di studio è vecchio di quasi un lustro, i fratelli Conner traccheggiano con side-project di estrazione stoner (val la pena di ricordare almeno i fondamentali Valis, che in onore alla loro grandezza figurano nel roster Man’s Ruin con uno split), Lanegan fa uscire il suo ultimo capolavoro (Field Songs, non a caso l’ultimo album scritto con/da Mike Johnson). Da lì in poi Lanegan diventa un collaboratore fisso del gruppo di Josh Homme (la sua stessa carriera solista da lì in poi va considerata una sorta di estensione concettuale dei QOTSA, oltre che una fonte quasi inesauribile di dischetti di cantautorato senza nerbo) e degli altri si perdono le tracce in gruppi sempre più invisibili o troppo grossi per non farci la figura dei turnisti (manco di lusso). Da anni girava già la voce che li voleva gruppo sfortunato, che avrebbe potuto essere –boh- i Soundgarden ma era stato fatto fuori dal music-biz. Noi siamo arrivati a giochi fatti e l’abbiamo presa così, come una specie di postulato del rock’n’roll che ci ha accompagnato mentre diventavamo vecchi e bolsi e lamentosi. Secondo una forma mentis più snella gli Screaming Trees erano un perfetto e incredibile gruppo indie rock di dimensioni medio-grandi, diciamo simili a quelle dei Melvins, con cui il mercato dei grandi numeri s’è giustamente pulito il culo una volta finita di cavalcare l’onda dei Nirvana. La loro musica migliore sta ancora nei dischi a marchio SST, che diversamente da Uncle Anesthesia etcetera NON STANCANO MAI e possono tranquillamente supplire da soli al bisogno di rock di un appassionato esigente per almeno due settimane.

Salta fuori dal nulla, tuttavia, che c’è un disco dei Trees, registrato poco prima dello scioglimento nello studio di Stone Gossard e mixato da Jack Endino. Si chiama Last Words ed esce tra meno di un mese in digitale, senza –pare- nessuna reunion ad accompagnarlo e con una possibilità aperta per formati fisici futuri. L’idea più ragionevole sulla faccenda è che questi dischi non escono per un motivo fondato e che questo motivo ha MOLTO più a che fare con il valore artistico di quanto ne abbia con la mafia, il signoraggio bancario, i complotti delle major e la sfiga. AKA non ci perderei troppo il sonno. Ma insomma, sperare è pur sempre lecito.

QUATTRO MINUTI: Fucked Up – David Comes to Life (Matador/Rough Trade)

VIA
È stato facile lasciarmi prendere dall’entusiasmo la prima volta che ho sentito i Fucked Up: disco scannatissimo prodotto da dio, un impianto che stava allo standard nu-shoegaze (deerhunter, serena maneesh e un milione di cagnacci tipo a place to bury strangers) più o meno come i Dinosaur Jr stavano ai My Bloody Valentine, un cantante ciccione che urlava nel microfono come se lo dovessero mettere in galera il giorno dopo e dal vivo cantava nudo e si spolpava a forza di sudate. Era una cosa figa, funzionava. Il loro disco lungo precedente l’ho letteralmente CONSUMATO la prima settimana, poi è rimasto lì a prender muffa, perché OK l’impianto ma siamo quelli che siamo e ci piace la musica che ci piace (nella fattispecie invece di un gruppo sh**gaze con pesanti influenze hardcore preferisco ascoltarmi un disco hardcore con pesanti influenze hardcore, già che ultimamente ne sento pochissimo). il nuovo disco dura tipo novanta minuti, si chiama David Comes to Life e contiene la stessa identica musica in suite più o meno simili. Non è che non sia buono, ma già arrivare alla fine dello streaming gratuito su NPR è faticosissimo: sembra un samurai senza padrone del pop, un disco che si arrabatta come un pazzo in un’area libera da impedimenti morali e troppo fine a se
STOP

Badilate di cultura: “Precious”

 

Lee Daniels è un negro frocio, e te lo sbatte in faccia come se la cosa dovesse in qualche modo riguardarti. Produttore di roba problematica in odore di Oscar (lo stigmatizzante Monster’s Ball, che di Oscar ne portò effettivamente a casa uno, e lo sgradevole quanto gratuito The Woodsman, che invece non ha vinto un cazzo), Precious è il suo secondo film da regista dopo lo straordinariamente brutto Shadowboxer (un intricatissimo polpettone interrazziale e gerontofilo che non ci si capacita come sia potuto uscite da intelletto umano, con un cast che pare assemblato tirando a sorte; un flop epico pericolosamente dalle parti del so bad it’s good più spinto), ha rastrellato premi in ogni dove – tra cui due Oscar su sette nominations – ed è una porcata che nuovamente si fatica a credere. Tratto dall’astioso romanzo Push, opera prima (e finora unica) in prosa della poetessa negra bisessuale femminista incazzosa übermilitante Sapphire, il film prende le mosse dalla vicenda – agghiacciante – di Claireece ‘Precious’ Jones, sedicenne negra obesa semianalfabeta ripetutamente stuprata dal padre tossicodipendente e per questo già madre di una bimba con la sindrome di Down opportunamente battezzata “Mongoloid” (…), rimasta nuovamente incinta (sempre dal padre), espulsa da scuola una volta appreso della seconda gravidanza e odiata dalla madre obesa disfunzionale perché – sostiene la genitrice – le ha rubato l’uomo. Finisce in una scuola speciale insieme ad altre debosciate del ghetto che dicono un sacco di parolacce; la maestra è una lesbica molto in gamba che di nome fa Blu Rain (…). Claireece impara cose profonde e piene di significato. La maestra le porta al museo. Nel frattempo la madre (una mostruosa Mo’Nique, giustamente premiata con l’Oscar) continua a coprirla di insulti proferiti con cadenza, loquela e atteggiamento da rapper, le tira stoviglie addosso e la obbliga ad andare a ritirare l’assegno della previdenza sociale. L’assistente sociale è una sciattissima Mariah Carey (…), evidentemente convinta che la condizione necessaria e sufficiente per essere un’attrice seria sia recitare struccata indossando squallidi completini della Upim; Mariah subodora qualcosa a proposito dell’incesto, ma tace e continua ad allungarle l’assegno. Claireece ha le doglie; viene trasportata in ospedale. Sgrava. Decide di chiamare il secondogenito “Abdul”. In ospedale conosce un inserviente gentile (Lenny Kravitz, credibile come infermiere quanto può esserlo Rocco Siffredi nei panni di un seminarista). Torna a casa. Scappa di casa. Va a vivere in casa di Blu Rain e compagna (e qui parte un’allucinante tirata pro-gay che farebbe venire voglia di prendere le spranghe anche a Nichi Vendola). Mariah Carey organizza un incontro madre-figlia dove ‘Precious’ impara che il padre – nel frattempo morto – aveva l’AIDS. ‘Precious’ va a fare il test: è sieropositiva, ma Abdul non lo è. Monologo incoraggiante con voce fuori campo, titoli di coda.
Il materiale umano di partenza, come detto, era (è) profondamente perturbante e autenticamente scomodo, e non oso pensare che film sarebbe potuto uscire se le redini del progetto fossero finite in mano a gente con l’attitudine e il know-how necessari per trattare degnamente questa roba, penso a Werner Herzog, a Jaco Van Dormael (che avrebbe tirato fuori ben altro che le sequenze oniriche da ciarlatani che invece si vedono qui), al primo John Singleton, che diamine!, perfino a Ulrich Seidl; il problema è che Lee Daniels di concetti quali pietà umana o etica dello sguardo e della visione se ne strafrega, arciconvinto com’è dell’indiscutibile giustezza e inoppugnabilità della sua visione delle cose, e per questo si limita a sfruttare una storia che contempla abissi di dolore, isolamento, abiezione e orrore dalle potenzialità infinite unicamente per costruirci sopra un film rigidamente a tesi che al confronto il vecchio cinema civile italiano era roba da pavidi moderati con la diarrea nelle mutande, insopportabilmente saccente e manicheo, tracimante l’insostenibile arroganza e la ripugnante protervia di chi dall’alto di cattedre che non si capisce perché mai dovrebbero spettargli ti viene a spiegare come va il mondo. E per farlo non arretra di fronte a niente, è pronto a tutto, anche a utilizzare i freaks in modo strumentale (la protagonista Gabourey ‘Gabby’ Sibide, oltre 160 chili, scelta tra decine di aspiranti attrici obese tra i 18 e i 25 anni). Ne esce una favoletta schematica e superficiale, greve e normativa, sgradevole e respingente più che altro per l’ego ipertrofico e lo smisurato autocompiacimento del regista (e per un montaggio bruttissimo e urticante peraltro avvallato da un’incomprensibile nomination agli Oscar, l’ennesima), che mira in alto con boria e ostinazione per dire, alla fine della fiera, che i froci sono buoni e quasi nient’altro, risultando così alla fine paradossalmente insultante proprio verso le categorie che con foga da inquisitore si affanna a difendere (come se negri e gay in quanto tali avessero bisogno di di un Lee Daniels qualsiasi con la sua seriosità turgida e mortuaria per venire “difesi”). Il classico sparo nel buio, o qualcosa del genere. Nessuna meraviglia che al Sundance abbia fatto sfracelli.

Lavoro nel bordello di un castello

 
Avevo perso le tracce dei Cradle of Filth subito dopo Nymphetamine, che per carità non è neppure un brutto disco però a un certo punto anche basta, dai. E che tristezza ancora una volta il solito copione che si ripete tale e quale a sè stesso, passo dopo passo: il gruppo metal che firma per una major, la conseguente trafila di interviste corredate da foto stilose e infarcite di dichiarazioni sul genere “cercavamo un’etichetta capace di supportarci al 100%” o “nessuno ha provato a cambiarci, ci hanno lasciato piena libertà”, il disco che esce e i metallari non lo cagano perchè sta su major, la major che scarica il gruppo metal a calcioni nel culo non appena si rende conto che il disco ha venduto in sei mesi meno di quanto Britney Spears vende in un pomeriggio, il gruppo metal che abbassa le pretese, torna a firmare per una “indie” (con tutte le virgolette e i distinguo del cas(zz)o, ma è per capirci) e comincia a sfornare dischi in pilota automatico puro, scritti e eseguiti con la mano sinistra e con l’unico scopo di compiacere quella fetta di pubblico beota che possa garantire loro un sereno tirare a campare. Quel pubblico che caccia i soldi e quindi si aspetta, anzi pretende di sentire sempre la stessa merda, una pallida fotocopia degli esordi però senza un briciolo di cuore o di vita o di slancio verso qualcos’altro. E allora quel gruppo è finito. Negli ultimi anni quello stesso percorso era toccato ai Paradise Lost, ai Satyricon, agli Amorphis; soltanto i Satyricon sono riusciti a uscire dall’implacabile tritacarne dell’umano con parte delle ossa intatte e una credibilità non totalmente andata a puttane. Gli altri hanno deciso di rassegnarsi e continuare a tirare la carretta al fienile con improbabili “ritorni al metal” e via ad ammannire la merda di cui sopra. A ognuno il suo. E i Cradle of Filth non erano nemmeno il mio gruppo preferito, non stavano nemmeno tra i miei primi 500 gruppi preferiti, quindi sticazzi, perchè assistere allo spettacolo, perchè intristirsi? A dirla tutta non sono mai andato giù di testa per i Cradle of Filth, mi facevano simpatia le copertine porcellone, certo, e da quando ho letto che in Inghilterra avevano arrestato un tizio avrei veramente voluto indossare la maglietta con sopra la suora che si sgrillettava (purtroppo nell’unico negozio che la teneva stava a un prezzo assolutamente proibitivo, tipo 45.000 lire ma anche di più, ora proprio non ricordo), ma l’unico disco ad avermi mandato vagamente giù di testa è stato Cruelty & the Beast, il mio favorito, praticamente un album degli Iron Maiden però con una gallina sgozzata al posto di Bruce Dickinson; il resto, prima e dopo, era roba davvero troppo barocca e teatrale per i miei gusti, i pezzi sovraccarichi di trovate baracconesche da brutto musical, e inevitabilmente, una volta superata la soglia del quinto minuto, l’attenzione se ne andava affanculo e la voglia di sbattere su i Discharge o un Motörhead a caso diventava insopprimibile. Imparo ora che da dopo Nymphetamine hanno pubblicato altri tre dischi (di cui uno dedicato a un serial killer); l’ultimo è uscito da pochissimo, ha un titolo orrendo e una copertina timburtoniana, e sta in streaming integrale su AOL.com. Per me, è come rincontrare dopo tanti anni una compagna di scuola di cui non mi è mai fregato un cazzo.
Clicca qui per ascoltare l’album

 

 

Vaffanculo: Interpol – S/T (Matador)

(Julian Plenti’s first attempt with Photoshop, ©)

Vaffanculo! E sì che eravamo pronti a stracciare tutti i pregiudizi e a riaccogliere o forse accogliere per la prima volta in casa nostra gli Interpol, che avremmo amato definire “i poveri” Interpol e mettere per sempre sotto la nostra ala protettrice. Un sorprendente onesto disco di rock-and-roll, e tutto il resto. Manco per il cazzo!
Cosa succede ai gruppi, non lo capirò mai: fatto sta che questi modaioli magri di inizio decennio, influenzati da The The e Television e dotati di canzoni (almeno tre buone, NYC, Take You on a Cruise, Next Exit, il che fa più dell’intera discografia degli U2, anche senza contare la decina di pezzi discreti) e copertine nere per album dai toni cupi (il migliore Antics, del 2004), si sono da un momento all’altri trasformati in ciccioni sudati autori scoccianti di irritante non-pop privo di idee.

Qualche illusione di ripresa dopo il peggio che mediocre Our Love to Admire (2007) ci eravamo illusi di trovarla in Julian Plenti Is Skyscraper, mezzo album solista del cantante/chitarrista Paul Banks, mezzo ascoltato un anno fa, che di promettente aveva un paio di pezzi e soprattutto la copertina, con lui sfigato totale ridotto in mocassini e solitudine, coi capelli unti e la barba un po’ lunga.

Questa amarezza diffusa, unita al fallimento di uscire ancora su un’etichetta indipendente anziché nei supermercati – questo per il loro scarso appeal commerciale, e anche perché il rock è morto, certo -, ci faceva ben sperare per questo nuovo Interpol coi suoi segnali di ridimensionamento cui, per via di evidenti processi di identificazione, guardavamo con simpatia. Terribile errore. Le copertine orènde (Julian Plenti’s first attempt with Photoshop, ©) non mentono mai, e non mentono nemmeno i gusti musicali di Bono che ha messo il suo Bo(lli)no d’infamia sugli Interpol, che lo accompagneranno in tour facendo a pezzi i nostri miti adolescenziali di rockstar insensibili al fascino del denaro e, al contempo, le palle degli spettatori che sono lì per sentire Sweetest Thing, One e Ay Caramba e non questi micidiali dieci pezzi di merda – con menzione d’onore per Always Malaise (anche Sandokan era Sempre Malese, ahahha, vaffanculo, questa ve la meritate) che malaise mi ci fa diventare a me, a te, a noi tutti, già terribilmente messi a dura prova da vagonate di The National e simili, e ora del tutto annichiliti da anni di indie-rock stantio che pretende di comunicare per mezzo di testi intelligenti e non di chitarre elettriche. Ma se è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza (1 Corinzi, 21),  allora noi ci teniamo per sempre i Sunn, i Pissed Jeans e tutti gli altri brutal-metal-fregnoni e le loro magliette sporche e sudate e i riff di chitarra e tutto il resto che un giorno, è certo, cancelleranno anche il ricordo di questi anni zero che stanno finendo nel peggiore dei modi. Dai che ci siamo quasi.

Diciassette sessantesimi.

Bagattelle per un rientro (ma i ciccioni sognano pecore affamate?)

Agosto, è il più crudele dei mesi. Sono dimagrito quest’estate pur pesando adesso tre chili di più, e per festeggiare la cosa ieri, tornando a lavoro, ho vagato per l’intera pausa pranzo nel deserto quartiere Trieste, alla ricerca di pizza, trovando chiuse persino le tane dei topi, e dunque non mangiando, sudando, dimagrendo ancora.

Il senso di vuoto dato da un’estate che ci ha portato via Cossiga senza, a sorpresa, ridarci Moro e nella quale ho letto due quotidiani al giorno (da cui ho tratto che tra destra e sinistra preferisco l’uva passa), Pedro Pàramo, un libro di antropologia del cibo (nonostante apprezzi il relativismo culturale, non per questo mangerò il mio cane stasera) e un Dylan Dog e un Martin Mystère brutti come non mai, è accentuato [il senso di vuoto, per chi come me si fosse perso] dalla fine della stessa. In realtà non ho provato alcun senso di vuoto quest’estate, amo l’ozio nel quale prosperano idee, felicità e blog, il vero vuoto è dato dal lavoro e dal fortissimo bisogno di fare qualcosa di bello nella vita.

Così, appurato che ne farò 31 a breve e presto verrò ceduto al Chievoverona o addirittura in B per finire in pace la carriera, sto vagliando al momento le seguenti ipotesi per il mio autunno indaffarato: imparare lo spagnolo (pro: quando andrò in Messico potrò parlare con la popolazione locale e dire in spagnolo yo no soy gringo ottenendo sconti e l’ammirazione di mia moglie; contro: detesto i giochi di ruolo che si fanno ai corsi di lingua e tempo fa ho scritto di odiare la Spagna e svelerei così la mia incoerenza; infine SI STUDIA), imparare (bene) il tedesco (pro: in prospettiva, non dovrò più fingere di capire quando i miei datori di lavoro tedeschi mi si rivolgono nella loro lingua, e i libri scritti in tedesco potrò leggerli oltre che citarli nella bibliografia della tesi – dove mi sono permesso anche di giudicarli, eh: ma qui faccio herauskommen e confesso che non ho mai letto una stracazzo di riga in tedesco in vita mia – e potrei azzardare altre risposte oltre a “ja” e “ich denke ja”; contro: odio il tedesco, e hitler aveva notoriamente una palla sola), imparare l’arabo (ho trovato un’associazione rivoluzionaria filopalestinese vicino casa mia dove fanno dei corsi a poco. Pro: possibilità di scrivere divertenti resoconti su Bastonate, presenza di droga assicurata, non necessità di lavarmi; contro: perdita di tempo totale, impegno notevolissimo per conseguire zero frutti, rischio di avvicinarmi per quieto vivere al popolo viola, possibilità di arresto o di tardiva mia adesione alla questione ebraica), fare yoga (pro: possibilità di carriera come yoghi, bubu o santone d’altro tipo; contro: scoperta dell’omosessualità pressoché certa, rischio di mia vestizione in lino bianco, abbandono di tutti i vizi, irritabilità dei miei cari a fronte della mia superiore saggezza), fare volontariato in un canile (pro: milioni di amici sinceri come solo i non umani sanno essere, sentimenti forti a cannone, lacrime calde, buone sensazioni riguardo a me stesso, buona impressione presso la gente o cattiva impressione abbinata a mio senso di superiorità, conoscenza dell’animale-cane da riutilizzare nella costruzione del rapporto con il mio cane personale, energie ora sprecate per lamentele nevrotiche e Bastonate reimpiegate in qualcosa di utile; contro: puzza de cane DEVASTANTE, difficoltà di conciliare una vita lavorativo-affettiva normale e un impegno in posti ultraperiferici con nomi tipo Casal Finocchio o Torre In Cula, il mio cane verrebbe trascurato da me, impegnato con altri cani, e dovrebbe essere trasferito in canile); volontariato per una associazione in difesa dei diritti degli obesi (pro: possibilità di sentirmi magro, sincera simpatia per la causa, disprezzo di chi usa ciccione come insulto; contro: essere genericamente considerato un obeso qualora mi presentassi al telefono con una frase tipo “Buongiorno sono Daniele della Associazione Amici Bucioni”; mangiare fuori never ever again), praticare il kendo (pro: materiale per Bastonate – che si chiama così proprio in onore di questo sport, nel caso non lo sappiate – come se piovesse, possesso di una maschera e di una corazza riutilizzabili ogni carnevale, possibilità di carriera e medaglia olimpica; contro: omosessualità impugnata e sfogata con altri omosessuali in maschera, docce in comune con i camerati del dojo e poi tutti in circolo a vedere chi ha davvero il bastone, piedi nudi esibiti). Infine c’è la possibilità-alfa, ossia di iscrivermi a un corso di ballo lindy hop con mia moglie (pro: possibilità di controllo-stalker sulla vita di lei, nonché di strapparla dalle possenti braccia muscolose dell’istruttore Roberto – pronunciato come nella canzone di Lady Gaga – dai fianchi stretti e dal culetto atletico; contro: la mia virilità definitivamente buttata al vento, goffaggine d’altri tempi, prese in giro dai bulli – anche se un film per donne nel 2060 mi rivaluterà mostrandomi come simbolo della libertà; io, anziano, farò un piccolo commovente cammeo in cui volteggerò leggiadro nonostante l’età -). Mi risolverò nel non far nulla salvo forse poche cure mediche, ma mi cullerò ancora nell’incertezza fino al ventinove o al trenta.

Non c’è comunque niente di peggio che aprire un blog e trovarci fastidiose considerazioni personali di un nessuno come me. E una voce da qualche parte urla COSA HA A CHE FARE LA MUSICA CON TUTTO QUESTO?, e io non posso darle torto pur ricordando che a ben vedere la musica non ha nulla a che fare con nessuna rock band ad oggi in attività fuorché forse la Rollins Band (che suppongo ancora in attività), il tour solista di Greg Dulli e la serie tv Californication. Ieri ho regalato a Valentina il nuovo disco degli Arcade Fire – lei lo ha ascoltato stamattina in macchina andando a lavoro e mi ha detto che è bello, e questo giudizio è definitivo e valevole per tutto il mondo: compratelo con fiducia a scatola chiusa -, cui ho aggiunto d’impulso Disintegration dei Cure (funziona sempre) e The Waste Land di Thomas Stearns Eliot (a parte un paio di riempitivi, è sempre un gran bel disco). Stasera ascolteremo Fred Neil e i Waterboys in vinile bevendo vino rosso.

La mia passione per la musica sta diventando sempre più retroattiva, come nel caso dei vecchi. I gruppi che vanno oggigiorno non mi interessano e a dire la verità non li conosco proprio – tempo fa ero al Circolo per vedere Micah Hinson e ho notato di non aver mai sentito nominare la maggior parte delle band in programma in quel periodo. Ha chiuso il negozio Vinile di Terracina, dove comprai Lies dei Guns n’Roses, un disco degli Scisma e uno dei Pitch, e anche se quanto ho appena scritto sembra alludere al 1995, in realtà tutto ciò è successo un anno o due fa. Ho letto su Bastonate che è uscito un nuovo disco dei Peeesseye, e questo mi ha scosso un po’ dal torpore (ma cercando Peeesseye su Google come primo risultato esce “after being in the wastelands for years…” e questo, nel mostrarmi che è tutto collegato e queste righe che scrivo erano il vero motivo per il mio acquisto di ieri, mi ha sgomentato e perciò non sono andato avanti), e su Libero che la Nannini è incinta a 54 anni, e che l’opinione pubblica si divide al riguardo. E’ giusto dunque che una donna abbia un bambino in tarda età e nonostante l’omosessualità? Avere figli è un diritto, lo è la stessa vita? Cosa dice bell hooks? E la Professoressa Mary Warnock? Bè, per fortuna qui non siamo a Filosofia ad Oxford (e manco al Dams di Teramo a dire la verità) e posso dire in tutta libertà che alla vecchia lellona j’ha scureggiato er teschio (© di alcuni ragazzini che ho sentito usare quest’espressione sull’autobus), e a ben vedere ha scureggiato ancor di più il teschio di chi l’ha messa incinta – ma forse è stato un demone, e dunque da quel ventre uscirà Uno Di Noi e tutto ciò deve essere accolto come un segno positivo.


Quello che ho davvero fatto quest’estate è stato: compilare liste.

I miei intellettuali preferiti sono al momento: Hank Moody e il Papa.
Le persone morte che stimo: Akira Kurosawa, Francesca Woodman, Albert Ayler, E. E. Cummings.

Le vive: Luke Perry (in quanto Dylan), David Duchovny (in entrambi i ruoli), Kyle McLachlan (come agente Cooper e Ray Manzarek). E se ehi mi state dicendo che sono tutti attori di serie tv, posso aggiungere alla lista Leo Strauss e se ma ehi Leo Strauss è morto e neanche da poco, affanculo, dunque aggiungo il ciccione di Mean Creek e Ahmadinejad.

I miei dischi metal preferiti: Raza Odiada (Brujeria), Far Beyond Driven (Pantera), Blaze (Darkthrone).

I miei dischi black-metal preferiti: Blaze (Darkthrone), Filosofem (Burzum), Blaze (Darkthrone).

Le mie opere filosofiche preferite: Tractatus (Wittgenstein), Filosofem (Burzum), Blaze (Darkthrone).

I dischi pop: Se questo è un uomo, La Tregua, Disintegration.

I concetti: la Predestinazione; la Giustizia come disgiunta dalla Legge; la Relatività Culturale. Blaze (Darkthrone).

Le cose più fastidiose: il palio di Siena, la Repubblica, il viavai di cinesi sul trenino delle Ferrovie Laziali.

Le mie competenze preferite tra quelle che non ho: matematica, fisica, cinema d’avanguardia.

Arti marziali: kendo, budokan, Filosofem (Burzum).

Cani: 1. Kalami, 2. Pongo, 3. Miki. Nomi per cani: 1. Ufo 2. Fido 3. Fifa. Animali: il Cane, la Scimmia, la Giraffa. Animali odiati (dal più al meno): 1. La Blatta 2. L’Umano 3. Il Gatto.

La mamma o il papà? La mamma.

La moglie o la mamma? La moglie.

L’ebreo o il palestinese? L’ebreo.

Marx o Freud? La Yellow Pecora.

Segue un lungo post scriptum tratto da Yahoo Answers (domanda: “Qualcuno mi racconta la barzelletta della yellow pecora?”):
“— La yellow pecora —

C’era un pastore che aveva un gregge di pecore.
Era molto povero, ma la fortuna volle che un giorno una sua pecora partorì una pecorella speciale: era tutta gialla. Decise così di chiamarla “yellow pecora”.

Turisti provenienti dal mondo intero venivano a vedere la Yellow pecora pagando fior di quattrini, e il pastore cominciò presto ad arricchirsi.

Ma un giorno la Yellow pecora sparì nel nulla, senza lasciare traccia alcuna.
Così il pastore chiamò i suoi tre figli e gli disse:
“figlioli, io vi voglio molto bene, ma come ben sapete la yellow pecora era la nostra unia reale fonte di guadagno. Se non la ritrovate vi ammazzo.”

Sollecitati da tanta premura, i tre fratelli si riunirono; il più grande disse:
“sono il primogenito, andrò io a cercala.”

Girò tutta la campagna ma non la trovò; girò tutta la egione ma della pecora nulla.
“tornò dal padre e gli disse:
“babbo, l’ho cercata ovunque ma non cè!”
“ah sì, bene bene…”

E lo uccise con una fucilata.

Il secondogenito allora disse al fratello rimasto:
“Vado io a cercarla ora, sono rimasto il più grande”.

Girò tutta la nazione, andò in Tv, ma niente.
Tornato dal padre disse:
“Papà, mi dispiace, ho fatto del mio meglio ma non l’ho trovata”
“ah si? bene bene…”

E sparò anche al secondogenito, uccidendolo.

Il terzo e ultimo fratello rimasto decise che era ora di ritrovare quella maledetta pecora. Girò tutto il mondo, mise annunci in rete, andò in diretta internazionale: nulla.

Torno dal padre mesto, sperando nella pietà del genitore.
“papà, senti, sono l’ultimo figlio rimasto… non l’ho trovata la pecora… ho cercato ovunque!”

“ah sì, eh… bene bene…”

E lo uccise col solito fucile.

Fine.

Vabè dai ve ne racconto un’altra sennò vi deprimete:

C’era una vecchietta viveva sola col suo cane. I figli erano ormai grandi e vivevano lontani, e il suo compagno era passato a miglior vita.

Un girono decise di fare un viaggio in reno, ma la sfortuna volle che il treno deragliò.

La vecchia signora si svegliò in ospedale, e il suo primo pensiero fu per il suo amato cane. Chiese ai medici come stava, lro gli risposero che stava in infermeria per curare alcune ferite profonde. In realtà il cane era morto nell’incidente, ma preferirono non dare questa notizia così triste ad una anziana ancora in ricovero.

LA vecchia guarì e fu dimessa, ma ancora non gli venne detto del sua cane.

Una mattina, mentre lei si trovava sul suo letto, sentì grattare alla porta
“è lui!” pensò “lo hanno dimesso!”

piano piano si alzò dal letto, scese le scale
attraversò tutto il corridoio,

aprì la posrta e..







STREAMO: The High Confessions – Turning lead into gold with the High Confessions

 
The High Confessions è il nome del nuovo supergruppo in città. Il mastermind alla base dell’intera operazione è universalmente identificato in Steve Shelley, rubicondo batterista dei Sonic Youth, uno che, con quella faccia e quel fisico, te l’immagini al massimo a cuocere hot-dogs in una bancarella a Little Italy piuttosto che a sorseggiare Martini all’ultimo vernissage a SoHo con gli amici galleristi Lee, Kim e Thurston. E infatti si è scelto un degno compagno di merende: alla voce troviamo infatti un’altra faccia da relitto della working class che non farebbero avvicinare a un party in un loft neanche con un palo lungo trenta metri. Lui è il titanico Chris Connelly, uno che negli ultimi venticinque anni ha militato praticamente in qualsiasi gruppo industrial europeo e non, era tra gli amichetti preferiti di Al Jourgensen quando i Ministry erano ancora i re del mondo, e parallelamente a tutto questo ha portato avanti una carriera solista di assoluto rispetto (in particolar modo il materiale licenziato da Wax Trax! nel magico triennio 1990-92). La line-up è completata dal basettato Sanford Parker (bassista dei Minsk, chitarra e voce nei malmostosi Buried At Sea e nella grezzissima all-star black metal band Twilight, session man per i live dei Nachtmystium nonchè apprezzato produttore e ingegnere del suono) e dal bohemienne Jeremy Lemos (nella foto è quello vestito come un idiota), già nei dronanti White/Light e ingegnere del suono a sua volta.
L’esordio, pretenziosamente titolato Turning Lead into Gold (in italiano sarebbe “Trasformando il piombo in oro“) with The High Confessions, è uscito incredibilmente su Relapse il 20 luglio scorso; lo si trova in streaming quasi integrale (manca una bonus track inclusa nella sola edizione digitale, comunque assente nelle versioni ‘fisiche’ CD e doppio LP) a questo indirizzo. Sono cinque pezzi per una durata totale di cinquantatrè minuti e qualche secondo. Nell’ordine abbiamo: l’iniziale, robotica Mistaken for Cops, voce adulterata tipo dietro un megafono, chitarrismo acuminato e ossessivo, batteria pestona che evoca il ritmo di una catena di montaggio. Il pezzo finisce in dissolvenza dopo quattro minuti. La blaterante e PiLiana Along Came the Dogs, torrenziale tour de force (per meno di tre minuti non entra nella categoria MATTONI) tra incomprensibili vaniloqui stratificati e sovrapposti, tribalismi alla Metal Box (ma senza le chitarre stridenti e la paranoia) e dronate montanti sul finale. La cantilenante, notturna The Listener tra echi lunari, clangori metropolitani, minacciosi rintocchi di piano, drumming ipnotico e numeri da Jah Wobble degli incapaci.
In Dead Tenements è la voce a diventare lydoniana. Per il resto la solfa non cambia: salmodiare allucinato, feedback e bordoni a pioggia, drumming tribalistico/metronomico, qualche WOOOOOOOOOSSSSHH di synth analogico qua e là e tutto che sale sale sale e scende scende scende poi ancora sale sale sale poi ancora scende scende scende ma comunque non arriva mai a esplodere. In ogni caso la ventata desolante sul finale non manca.
Più o meno lo stesso nella conclusiva Chlorine and Crystal, solo che qui ci sono le chitarre lancinanti e la batteria fa tù-tùm stile primo disco dei Joy Division; sembrerebbe quasi un out-take di Exterminating Angel di Robin Crutchfield se solo al posto delle chitarre ci fossero le tastiere e il pezzo fosse un bel pezzo. Forse esagero ma per me questo disco è una mezza ciofeca.