Non mi è mai importato molto di Alfonso Cuaron e se questa è l’introduzione, avrete già capito che posso andare a parare solo da due parti: “… ma Gravity è un filmone pazzesco” oppure “…per questo sono andato a vedere Escape Plan.”
Gravity è un filmone pazzesco. La sua “fisica con licenze” non basta a metterlo nel genere fantascienza, al massimo è un film da esperienze estreme tipo quelli in cui c’è uno incasinato e infreddolito in cima a montagne innevate o bloccato in un crepaccio a bere urina e mangiarsi braccia. Ma anche questo è riduttivo. Gravity è il film che per la prima volta dà un senso al 3D che non sia l’accumulo (suca James Cameron) ed è un’opera angosciante e viva sulla Natura, l’appartenenza, il limite (suca tardo Terrence Malick). Un’ora e mezza benedetta da una grandissima tensione iniziale con dialoghi immersi in piani sequenza hitchcockiani in cui bisogna stare attenti ai dettagli e alle deviazioni che preannunciano il disastro. Da lì in poi il film procede come una classica corsa contro il tempo, dove lo sviluppo non cerca la sorpresa, ma l’esecuzione magistrale con la sensazione di vertigine restituita da un 3D che scalza qualsiasi grandangolo o zoom/carrello, raggiungendo l’apice della profondità nelle frequenti soggettive della protagonista. E intervalla il percorso con segmenti di calma apparente che non fanno altro che aumentare l’angoscia un po’ perchè la quarantanovenne Sandrina nazionale in mutande fa ancora la sua porca figura, un po’ perchè le parti “al sicuro” nelle varie stazioni spaziali sono un costante assedio da parte del vuoto. Non che l’ansia nello sguardo di Gravity sia una novità assoluta (nel mondo videoludico le sezioni a gravità zero di un Dead Space erano già tremendamente efficaci e trascinanti in tal senso) e la sensazione di uno spazio non semplicemente ostile, ma estraneo, letale senza appello, era già materia di quella splendida, crudele serie televisiva che era Stargate Universe. Quello che Cuaron è riuscito a tirar fuori dal cilindro è una parabola semplice nei caratteri e nei concetti, spaventosa nelle conclusioni che rimarcano la nostra fragilità e la necessità della nostra piccola cupola dispersa nel cosmo, ma al contempo dona a quegli squarci di Terra una divinità al di fuori di qualsiasi retorica o religione.
Per questo subito dopo sono andato a vedere Escape Plan. Insomma, Gravity mi lascia in eredità un’angoscia e una strizza (si, strizza! Paura!) che devo sfogarmi immediatamente. Nel senso che sento che se mi rimetto a pensare al film comincio ad urlare, come Homer nell’episodio dei Simpson in cui afferma l’importanza capitale dello sbomballarsi di tv e cazzate varie. Poi insomma: parliamo di un film con Stallone e Schwarzenegger in versione real buddy, non finto buddy alla mercenari, mica di pizza e cavolfiori. La sala è la stessa, rapida corsa al botteghino, scaramuccia colla cassiera (“Ma non sei appena uscito da Gravity?””Eh.” “Cristo.”) 3, 2, 1, trailer di Thor (potenziale 7), trailer di quella roba tipo Hunger Games colle astronavi (potenziale 4), partenza. Non è immondizia, ma come carcerario d’evasione non va fino in fondo (a ¾ si trasforma in un action duro e puro), come commedia non ha dialoghi brillanti e visivamente è piatto come una tavola da surf (fermo restando che ero reduce da un’avanguardia del livello di Miami Vice). Le cose migliori sono riprese dalla prima stagione di Prison Break, Sly è più vecchio del solito, Arnold in formissima tanto che nella mia mente confusa sono sicuro che alla fine Sandra Bullock punterà sull’austriaco. Ah sì, ad un certo punto Schwarzy impazzisce e comincia a blaterare in tedesco in una versione gigiona e steroidea di Linda Blair: vale il prezzo del biglietto (non è vero). I mussulmani sono i nuovi negri e i negri sono 50 cent borghese nel ruolo inutile della vita. Amy Ryan ti ricordi com’era bello The Wire? Jim Caviezel continua imperterrito nel sottolinearsi come la grande promessa non mantenuta degli ’00, con il fantasma di Donald Sutherland che lo prende da dietro ancora e ancora, tanto che alla fine gli tocca fare una smorfia simpatica prima di esplodere. Vinnie Jones ha girato le sue scene davanti al blue screen con la Performance Capture per diventare una copia in CG di Vinnie Jones. La presenza di Sam Neill è una cosa a metà tra il cammeo e un padrone di casa che gli rompe i coglioni per l’affitto. Le spirali virali della mediocrità di Escape Plan stanno mangiando le eccezionali sensazioni lasciatemi dal film di Cuaron ad una velocità proporzionale a quella dello sputtanamento di Vincent D’Onofrio come viscido traditore.
Finisce il film che mi sono dimenticato Gravity. La prossima settimana voglio provare con La donna che visse due volte e Checco Zalone.