MATTONI issue #9: Sufjan Stevens

la droga gioca di questi scherzi

 

Impossible Soul è il mattone posto al termine di The Age of Adz, ritorno al formato album per Sufjan Stevens dopo un lustro abbondante di EP, ristampe, cofanetti natalizi, riarrangiamenti strani, raccolte di scarti e concept sinfonici dedicati all’autostrada. È un regalo prezioso Impossible Soul, ma come ogni cosa buona bisogna conquistarselo, bisogna arrivarci, nello specifico, tagliando il traguardo dell’ultimo pezzo di un disco sfiancante, smisurato, tonitruante, inqualificabile, smodatamente eccessivo, esasperatamente magniloquente, altamente perturbante e perfino sgradevole da subire perlomeno in un’unica mandata. Un disco che è come un’overdose di zucchero caramellato sparata dritta in vena, un’indigeribile melassa sciropposa che sconvolge i sensi e rimane appiccicata ai centri nervosi come miele guasto, un delirio di numeri da film Disney coi protagonisti froci, con arrangiamenti in addizione infinita di squilli di tromba, strati di synth obliqui, vocals distorte tipo vinile fatto girare alla velocità sbagliata (a un certo punto spunta fuori un vocoder orrendo) e bizzarrie analogiche di ogni sorta e genere, roba che al confronto Todd Rundgren o Barry Manilow diventano spartani e basilari come manco il Don Fury dei primordi. Una roba veramente al di là di ogni immaginazione, barocca e ridondante tipo Zaireeka però fatto male, con testi in perenne trip egomaniaco molesto da far sembrare Brian Wilson o Candyass tranquillissimi e riconciliati.
Senza Impossible Soul, tutto quel che lo precede sarebbe un soffrire inutile; perché è in quei venticinque magici minuti che ogni tassello di quel che sembrava un atroce mosaico scombinato e malamente assemblato (nel frattempo pare che lo stesso Stevens abbia avuto il suo bel da fare a mantenere il controllo di sé stesso) trova un ordine e una collocazione, che il disegno globale acquista un senso e le smodate ambizioni alla base dell’intero progetto diventano – finalmente – ben riposte. Nel suo esasperato, vitalissimo citazionismo di praticamente tutto lo scibile musicale mai registrato (dal country alla dance, dal minimalismo al pop elettronico, dal folk al musical fino alla classica contemporanea e addirittura alle schitarrate metal) Impossible Soul riesce miracolosamente a trovare un suo equilibrio, che è perfetto e inscalfibile e non smette di svelarsi mantenendo inalterata la magia mentre un ascolto tira l’altro, rischiando di diventare per davvero il pezzo più rappresentativo e al tempo stesso più radicale e teorico dell’intera carriera dell’artista, con buona pace di chi ancora aspetta il seguito di Illinois (campa cavallo che l’erba cresce, come diceva sempre mio nonno). Sta al pop come Mother di Goldie sta alla musica elettronica. Intanto pare che The Age of Adz stia collezionando la sua bella serie di stroncature. Anche questo fa parte del gioco.

R.I.P.

 foto copyright Ansa


Un malore improvviso ha portato via una delle facce da gangster più perturbanti della storia del cinema passato, presente e futuro. Corso Salani era la versione italiana di Robert Davi, solo (ancora) più emaciato, scavato e divorato dalla vita, nonchè decisamente più versatile rispetto al canagliesco, unilaterale doppelgänger oltre l’oceano; con quei crateri a punteggiargli le guance e le tempie poteva essere il più spietato dei boss mafiosi come un eroinomane all’ultimo stadio che ha appena effettuato uno scippo a regola d’arte e ora vuole solo spararsi in vena il frutto delle proprie fatiche. Ogni minimo particolare del suo volto giacomettiano raccontava delle infinite sfumature di chi vive costantemente ai margini della legalità, un delinquente fatto e finito, comunque sempre ambiguo e pure in qualche modo perversamente inquietante.  Eppure, come attore, ha quasi sempre fatto altro. Titanica la sua interpretazione ne Il muro di gomma di Marco Risi, con cui rinnova il sodalizio nel successivo Nel continente nero; in entrambi i casi incarna personaggi positivi. Un veloce passaggio nel giallo da paperback nel bellissimo e dimenticato La fine è nota (l’unico bel film di Cristina Comencini), una comparsata nell’insipido Cuori al verde di Giuseppe Piccioni poi più nulla a livello mainstream,  mentre prosegue con passione e rigore inalterati l’attività di documentarista e sceneggiatore attento, puntuale, sensibile, al tempo stesso discreto e schietto. Ricompare protagonista nel notturno Il vento, di sera (2004), rottoinculo devastato dalla morte accidentale del compagno, costretto a vagare senza requie in una Bologna deserta e lunare. Poi la consueta transumanza in progetti più o meno oscuri, più o meno centrati (da Louis Nero a “Un caso di coscienza“, dal bruttissimo Piano, Solo all’italo-rumeno Mar Nero), fino alla morte che lo sorprende la sera del 16 giugno mentre passeggia sul lungomare di Ostia.

Kid606 @ Cassero (Bologna, 12/2/2010)

C’è stato un momento in cui Kid606 ha rischiato davvero di diventare il nuovo reuccio dell’elettronica “da ascolto” per i salotti buoni di gente che non sa nemmeno cosa sia il sudore; era il 2000 e sembrano passati secoli, e il nostro – allora poco più che un ragazzino – veniva ufficialmente lanciato nello stardom di chi se ne intende di musica courtesy of la longa manus di quegli scoreggioni di The Wire, che totalmente a buffo lo eleggono capofila de la nuova scena di San Francisco. Nomi messi lì a caso – Lesser e Matmos tra gli altri. In quel paio di semestri il Kid era ovunque, suonava con chiunque e pubblicava dischi a getto continuo, fino a saturare lui stesso, da solo, quel micro-mercato che era riuscito a creare dal niente; con la sua etichetta Tigerbeat6 licenzia venticinque dischi in poco più di due anni, suoi o di artisti che suonano esattamente come lui. Quegli stessi dischi li ritrovavi due mesi dopo nelle vaschette degli usati a prezzi da elemosina. Nel 2003 quando esce uno dei suoi lavori migliori (Kill Sound Before Sound Kills You, vedi alla voce autocoscienza) il Kid è già merce avariata, passè, come un abito di Armani di due collezioni fa; la scena si è dissolta come un peto di David Toop, velocemente e senza conseguenze. Resistono solo i Matmos, che in compenso diventano sempre più grandi e stimati e intoccabili, e la loro fama è meritata. Lui no; coltiva il suo orticello (nella forma di un’inesausta messe di uscite sempre uguali su Tigerbeat6), resta nel suo, pare fottersene delle luci della ribalta che hanno smesso di brillare e con grande coerenza continua a fare quel che ha sempre fatto, dischi su dischi su dischi di elettronichina giocattolosa coi ritmi spezzati acuminati imprevedibili, traiettorie schizoidi che sembrano disegnate col laser dentro una schermata di Jeff Minter, drum machine che cambiano setup 357 volte nello stesso brano, su tutto quell’angoscioso furore allucinatorio che da sempre governa la visione del ragazzo che ormai è diventato uomo. Nel 2006, dopo l’ennesimo schizzetto su dischetto (il pazzerellone Pretty Girls Make Raves), perdo le sue tracce; ho in casa tutti i suoi CD e buona parte del catalogo Tigerbeat6 e quasi tutti li ho comprati usati per pochi spiccioli.

i ferri del mestiere.

Avanti veloce fino a un venerdì sera di febbraio 2010: plana a Bologna il ragazzo di cui un tempo fregava qualcosa a qualcuno. Era il 2000 e sembrano passati secoli, perché nel 2000 una data così avrebbe fatto il pienone; questa sera invece in pista si sta larghi, sarà perché è inverno, sarà perché ha nevicato da poco, sarà perché c’è Audion al Kindergarten. Non ho idea di come il Kid abbia trascorso le giornate negli ultimi quattro anni, ma vederlo a pochi palmi da me stasera mi fa un effetto strano e non del tutto piacevole; avevo lasciato un ragazzetto smilzo e beffardo, nervosamente ammiccante dalle pagine patinate delle riviste che contano, e ritrovo un panzone unto mezzo pelato che dimostra quasi vent’anni più dei trenta che ha. Ingenuamente pensavo che la fama perduta non lo avesse minimamente toccato, in fondo ha continuato a fare la sua cosa nella buona come nella cattiva sorte, ma su disco non si poteva vedere quanto avesse accusato il colpo, ora sì: quello che ci si para davanti è un vecchio dalla mostruosa faccia da neonato, un bambino intrappolato nel corpo di un ispanico obeso sformato da scorpacciate di junk food. Un bambino sperduto che si caga sotto dalla paura. Il Kid versione 2010 porta sulle spalle tutta l’immensa drammaticità dell’has been, da solo incarna l’epica della disfatta, la dignità tragica del sopravvissuto. La console è un tripudio di aggeggi ingarbugliati, valvole e fili che si intrecciano come in un delirio corpo-macchina cronenberghiano, una wasteland di cavi e spine e prolunghe che pare uscita da un vecchio film cyberpunk, punteggiata da tre bicchieri colmi di altrettanti diversi cocktail che il Kid miscelerà succhiando avidamente dalla cannuccia come un bimbo che rischia contemporaneamente la congestione e il soffocamento ingollando una Fanta ghiacciata; accanto a un laptop su cui impiegherà svariati lunghissimi minuti nel tentare di rimuovere la plastichina che sta sopra il touch-pad c’è un microfono, del quale si servirà per lanciare di tanto in tanto assordanti urla effettate. Guardandolo bene durante uno dei suoi mix alcolici mi accorgo che indossa un paio di guantini dell’Uomo-ragno con le dita tagliate. La musica che crea (e che fuoriesce dalle casse a volumi da esperimento nazista sul sistema nervoso) è la stessa di sempre: breakbeat molesta, urticante, fastidiosa e beota, suoni plasticosi da cartuccia del Gameboy lasciata macerare al sole, traiettorie diagonali da flipper guasto. Mettete un campionatore in mano a un orangutang, probabilmente il risultato sarà lo stesso. La pista, già di per sé non esattamente guarnita, si svuota lentamente ma inesorabilmente; quei pochi che cercano di ballare, dopo i primi minuti, non nascondono una certa insofferenza. Il Kid continua a ciucciare dalla cannuccia, batte le manine, ogni tanto gira una manopola, dice cose incomprensibili al microfono ipersaturato. Il livello dei bassi è insostenibile, la saturazione farebbe sclerare un sordo; mi scappa la diarrea e temo di non essere il solo. Arrivano i buttafuori a chiedergli di regolare i bassi; lui obbedisce, per dieci secondi, poi li rimette al doppio di prima. Passano quaranta minuti. I buttafuori tornano alla carica; il Kid chiede al microfono: “Volete che diminuisca il livello dei bassi? Alzate le mani se volete che diminuisca il livello dei bassi“, ma nessuno capisce un cazzo, anche perché vista la distorsione più che un discorso pare un pezzo di Masonna, e nessuno alza le mani. Poi, l’imprevisto: il Kid rovina addosso al laptop, forse rovescia uno dei suoi drink su una presa di corrente, non si capisce, fatto sta che il bailamme sonoro viene troncato di colpo. Il silenzio che ne deriva è strano, troppo brutale e immediato per considerarlo un sollievo. Dopo minuti che sembrano eterni la musica riprende a sgorgare, ma non è più quella di prima: parte infatti un abominevole pezzaccio nu-rave che fa cagare il cazzo, poi un altro, poi un altro ancora. Un orso gentilissimo mi spiega che gli si è rotto il monitor, e che quindi ora il Kid “fa quel che può”. Quel che può si risolve nel mixare malamente gli mp3 che ha sul computer, in massima parte merda irredimibile alla Simian Mobile Disco tra cui all’improvviso spunta, incredibilmente, Pull Over di Speedy J, unico diamante in mezzo a un oceano di merda. Poi, dopo un lasso di tempo imprecisato, riprende in mano il microfono, saluta e ringrazia. Incrocio il suo sguardo mentre sono in fila al guardaroba e lui torna dal bar con l’ennesimo bicchiere in mano. Gli faccio il segno delle cornine metal; lui ricambia il gesto con un sorrisetto tristissimo, fissandomi per una frazione di secondo con quei suoi occhioni da bambino scalzo della Bolivia in cerca di adozione. Dal 2000 aspettavo di vederlo all’opera e ora so com’è un live di Kid606. Forse era meglio se rimanevo con la curiosità.

L’agendina dei concerti invernale (tipo Inkiostro, ma con la pacca)

Stavo giusto pensando, gee, se continui a pensare un altro quarto d’ora  ti prende fuoco il cervello. Domanda: vale la pena esistere da qui al party di capodanno della vostra sorellina minorenne? Ho tentato di rispondere stilando un paio di date avvincenti tra la Romagna e Bonomia per la rubrica non settimanale che tengo nel blog di Frequenze Indipendenti. Vado a copincollare con il tacito consenso dei tenutari del blog di cui sopra. Per le date di cui sotto è possibile-issimo che mi troviate. Sono quello che vorrebbe la barba lunga ma 1) la mia barba è di un colore diverso dai capelli AKA ridicola e 2) non posso portarla per esigenze lavorative. Nel caso mi riconosciate, oblazione is the reason.

17 ottobre
MAGNOLIA ELECTRIC CO. al Bronson. Jason Molina, file under supereroi senza muscoli. Si piange.

18 ottobre
FUCK BUTTONS al Locomotiv. Il gruppo avant più amato da chi non ama l’avant. A me stanno talmente sui coglioni che mi viene il mal di denti solo a pensare che stiano a meno di 100 km da casa mia, ma devo ammettere di non avere ancora ascoltato il disco nuovo.

23 ottobre
THANK YOU all’Officina49. Avant rock krautoso con la pacca, secondo me sarà un concerto parecchio figo. In alternativa un gruppetto non proprio FD ma che mi piace, si chiama Mudhoney e suona all’Estragon. Teneteli d’occhio, faranno parlare di sé.

24 ottobre
VADER + MARDUK al Rock Planet. Io sarò a un compleanno, ma voi non siete invitati e non avete scuse.

7 novembre
PIANO MAGIC al Bronson. Perché io uso l’antigelo al posto del collutorio ma sono comunque un tipo sensibile delicato e romantico.

14 novembre
Piglia male. Diocristo, questa è una data complicata. Nel senso che io andrò a vedere sicuramente POLVO reunion al Bronson, ma c’è anche EVAN DANDO al Covo (me lo perdo per la ventunesima volta) e giusto per stare un altro po’ male ci sono i THERAPY? al Rock Planet.

18 novembre
WOVEN HAND + SIX ORGANS OF ADMITTANCE al Bronson. L’accoppiata più RUSTY dai tempi dell’incontro Foreman-Alì a Kinshasa. Imperdibile.

19 novembre
BLACK LIPS al Covo. Non è che io sia ‘sto fan dei BL, e qua dentro ci sarà sicuramente gente più preparata di me in merito a tutte quelle robe, ma insomma – è un giovedì, se volete vedervi Anno Zero lo guardate il giorno dopo su youtube…

20 novembre
THE HORRORS al Bronson. Giovani parrucconi à la page che hanno mollato il garagettino del cazzo appena in tempo per vivere in prima linea il revival wave-shoegaze del cazzo con un disco che passa come critically acclaimed e per il quale ho sprecato abbastanza parole QUI . Si fottano. Prendetevi un day-off e fatevi

21 novembre
RONIN al Bronson. Bruno Dorella, e dicono che il disco nuovo sia una roba grossa. In alternativa ci sono i GBH al Rock Planet, ma francamente di sentire City Baby Attacked by Rats suonata da dei cinquantenni mi fa quasi più paura che tristezza.

22 novembre
KARMA TO BURN al Bronson. I KTB, tolto forse Zu, sono stati il mio concerto dell’estate 2009. Non è proprio roba FD, è più come ti vedi un concerto così carico che la terza birra media sembra metanfetamina.

26 novembre
OREN AMBARCHI + MASSIMO PUPILLO al Bronson. Oren Ambarchi è un manipolatore di suoni di prim’ordine, Massimo Pupillo è il bassista degli Zu e/o il miglior bassista in attività nel sistema solare.

27 novembre
TORTOISE all’Estragon. Sono fermo a qualche disco fa, almeno credo. Nel mio mondo ideale si sono fermati a Millions Now Living e continuano a suonare solo canzoni di quel disco. Ma COL CAZZO che mi vado a vedere i Tortoise quando c’è MIKE WATTall’Officina49. Ripetete con me: COL CAZZO. Mike Watt! Son felice come una pasqua.

28 novembre
NILE al Velvet. Suonano anche i KRISIUN di spalla, misconosciuti eroi brasiliani del blast-beat fricchettone del cazzo per i quali avevo abbastanza una fissa verso fine anni novanta.

1 dicembre
MELVINS all’Estragon. C’è chi suona musica di merda e c’è chi suona musica buona. E poi c’è King Buzzo. Avete un sacco di scuse per non essere all’Estragon il primo dicembre: la vostra vita fa schifo, non avete mai capito un cazzo di musica, avete 41 di febbre, una casalinga polacca di ottantasei anni con un occhio di vetro vi ha lanciato una maledizione, etc.

3 dicembre
WILDBIRDS&PEACEDRUMS demmerda + SLEEPY SUN al Teatro Comandini – cioè Màntica, cioè Societas RS. Quindi affrettatevi a comprar biglietti.

5 dicembre
BLACK HEART PROCESSION all’Estragon. Non ho ancora sentito il disco nuovo, ma mi fido.

8 dicembre
SATYRICON + SHINING + NEGURA BUNGET all’Estragon. I Negura Bunget fecero un concerto eroico l’anno scorso a Ravenna, venti persone che perlopiù erano a vedere gli OvO. Gli ultimi dischi che ho ascoltato dei Satyricon mi han fatto schifo, ma era una decina d’anni fa.

11 dicembre
IL TEATRO DEGLI ORRORI all’Estragon. Io in linea di principio sono un grande fan del Teatro, ma l’11 dicembre l’Estragon e qualsiasi altro posto a duecento Km dal Bronson dovrebbero essere vuoti. Perché l’11 dicembre al Bronson suona BOB MOULD, cioèL’UOMO, la persona viva o defunta che ha scritto il maggior numero di canzoni-capolavoro nella storia del rock. Riguardo alle vs prevedibili obiezioni in questo senso vorrei puntualizzare che io ho cinque lauree, una delle quali effettivamente conseguita, e che mi piace pensare che quando dico una cosa venga ascoltata ed accettata soffocando il puerile e barbarico istinto di voler aggiungere qualcosa o puntualizzare in merito. Pensate che i Beatles siano stati più bravi e interessanti degli Husker Du? Dio ve ne renderà merito.