Parte con Pietra della Gogna, che non è Servo ma è un pezzo della madonna lo stesso, cronometrico stomp bluesy e crescendo di un lirismo e un’arroganza tipicamente metal, un incrocio tra March of the Pigs di Reznor memoria e un brano sludge a caso di uno di quei gruppi catramosi e laterali dispersi negli anni novanta della suburra americana più alienata e alienante, nomi tipo Mindrot, Luca Brasi o It Is I, nomi in ogni caso che Bruno Dorella, che è una testa metal vera, dovrebbe conoscere bene, e si chiude con l’arrancante e codeinico (nel senso del gruppo) incedere di Fine Pena, sorta di inconsapevole reboot lessicale di Insetti dei Massimo Volume virato Madrigali Magri nella narcosi e nella sonnolenza e nella nausea che trasmette. Il primo e l’ultimo sono i due pezzi migliori del disco, il cui unico vero problema sta nel fatto di venire (quasi) direttamente dopo Tarlo Terzo (nel mezzo c’è stato un live registrato con macchinari antidiluviani), ovvero il più importante radicale e brutalmente politico album italiano degli ultimi dieci anni (e di quelli prima, e di quelli dopo), un disco impossibile da replicare per chiunque, di questo devono essersene accorti i Bachi da Pietra stessi che infatti prima temporeggiano con stile (il live di cui sopra) poi la buttano sul disimpegno. Quarzo è l’album easy listening dei Bachi da Pietra. Waitsiano, verrebbe da dire, ma del Waits post-nozze con Kathleen Brennan: melodie a più ampio respiro, la voce perfino comprensibile rispetto all’inesausto biascicare dei dischi prima, arrangiamenti curati, perfino un pianoforte che spunta di tanto in tanto. Il rischio – ed è la prima volta – è che il rigore diventi maniera di rigore (che è una bella differenza), soprattutto nella parte centrale dove la tensione si respira a momenti alterni (Zuppa di Pietre, Notte delle Blatte, Pietra per Pane), cedendo spesso il terreno a un autocitazionismo rassicurante nella sua solida funzionalità che però proprio per questo appassiona un po’ meno rispetto allo stato d’assedio totale fino ad ora permanente. Comunque loro rimangono dei giganti e il rispetto, infinito, resta inalterato.
Archivi tag: e hanno le armi migliori
Bruno S. – 1932-2010
L’11 agosto un attacco di cuore ha posto fine alla tribolata esistenza di Bruno Schleinstein, meglio conosciuto come Bruno S.
Figlio indesiderato di una prostituta, che lo massacra di botte fino a renderlo temporaneamente sordo in tenerissima età, Bruno trascorre l’infanzia, l’adolescenza e parte della vita adulta tra orfanotrofi (prima), manicomi (poi) e galere (durante), un percorso di vita che avrebbe suscitato l’invidia di Edward Bunker e lo sdegno di Franco Basaglia, al termine del quale si ritrova a guidare il muletto in una fabbrica di pezzi di ricambio metallici per sbarcare il lunario; alla sera e nei fine settimana gira per bar suonando e cantando le sue canzoni – in larga parte autobiografiche – con l’ausilio di fisarmonica, xilofono e una serie infinita di strumenti autocostruiti in puro Moondog style (ma senza i deliri cosmologici). Ultraquarantenne viene scoperto da Werner Herzog, che in quel periodo era in pieno trip lavorare con personaggi ‘estremi’ (voglio dire, ancora più del solito: nel giro di un paio d’anni aveva girato, nell’ordine, un documentario sulla vita di una sordocieca e uno su un istituto per bambini gravemente handicappati, il primo film con Klaus Kinski con annessa minaccia di morte nel caso quest’ultimo decidesse di abbandonare il set, e per finire un’intervista al campione mondiale di salto con gli sci); figurarsi il sollucchero all’ipotesi di poter lavorare con un matto vero. Lo scrittura immediatamente come protagonista nel terminale L’Enigma di Kaspar Hauser. Il film viene inserito in concorso al festival di Cannes 1974; vincendo le iniziali ritrosie da parte di Herzog, Bruno parteciperà alla premiazione (Kaspar Hauser otterrà il Grand Prix Speciale della Giuria) e al conseguente circo mediatico di interviste, servizi fotografici eccetera, facendo nè più nè meno la fine di John Merrick nella seconda parte di The Elephant Man: un giocattolo anche un po’ repellente da mostrare ai ricconi incuriositi. Curiosamente, è anche la stessa sorte che tocca al personaggio da lui interpretato nel film, un cortocircuito che annulla definitivamente ogni residuo di barriera tra messa in scena e realtà: Bruno S. è Kaspar Hauser, e viceversa.
Il sodalizio con Herzog prosegue nell’ancora più radicale, negativista e spietato La Ballata di Stroszek, scritto dal regista in quattro giorni, pare, per compensare Bruno della mancata partecipazione alla rendition cinematografica di Woyzeck, allora in fase embrionale (il ruolo poi andrà a Klaus Kinski); ancora una volta Bruno interpreta sostanzialmente sè stesso, un emarginato in lotta costante contro la società da cui cerca di difendersi ogni giorno, in una guerra che si riconosce impari fin dal primo momento. Stroszek è il ruolo che proietta la figura di Bruno S., e quindi la sua vita, nell’olimpo dei massimi credenti bastonati dalla sorte in ogni tempo e in ogni luogo, dei Robert Neville, degli R.P. MacMurphy, degli Umberto D., e in generale di tutti quelli che riescono a trovare la forza, giorno dopo giorno, di rappresentare sempre e nient’altro che il proprio Io disperato.
Il problema è che Herzog, non appena si rende conto di avere esaurito le motivazioni dietro un progetto, e dunque sente il bisogno di correre dietro a qualcos’altro – possibilmente ancora più folle e scriteriato, ha un modo decisamente sgradevole di chiudere i rapporti: all’improvviso e in maniera irrevocabile, senza alcuna spiegazione. Convinto (chissà, magari pure a ragione; comunque non lo sapremo mai) che la partnership con Bruno avesse terminato la sua spinta propulsiva, il volitivo bavarese molla gli ormeggi e abbandona il matto miracolato al suo destino senza pensarci due volte. Da par suo, Bruno viene lentamente dimenticato da tutti (dai cinefili e dagli addetti ai lavori quantomeno) e torna – bisogna dire con la dignità intatta – al suo inesausto errare tra bar e baretti a suonare le sue fragili canzoni piene di orrore. Col tempo si fa anche una certa fama come pittore nel campo dell’outsider art.
È in qualche maniera un cerchio che si chiude l’ultima apparizione in video di Bruno S.: un documentario, proprio come agli inizi (Herzog infatti lo scoprì grazie al fantomatico Bruno der Schwarze, pellicola di tale Lutz Eisholz su una banda di musicisti di strada capitanata – per l’appunto – da Bruno ‘Il Nero’). Bruno S. – Estrangement Is Death racconta la vita dell’uomo dopo che le luci della ribalta hanno smesso di brillare, senza patetismi ma anche senza alcuno sconto; vedere il degrado in cui Bruno conduce la sua esistenza è un rospo difficile da mandare giù in qualunque modo la si voglia mettere.
Cercando notizie sulla sua morte mi sono imbattuto in questo articolo; il sito è in tedesco e non ci ho capito un cazzo, ma nell’ultima foto Bruno indossa una t-shirt di J Mascis & The Fog. Mi venga un colpo se so il perchè, ma secondo me questo significa qualcosa.
Non ti ricordi di Ken Saro-Wiwa? (nel caso magari cercalo su google)
In realtà più che la rece andrebbe fatta la telecronaca: questo pezzo è figo, questo pezzo non è figo, questo pezzo è così così, eccetera; senza contare che a seconda di come sei preso nel momento in cui l’ascolti, A sangue freddo sembra un discone o una ciofeca o una via di mezzo tra le due. Tassonomia della presammale e/o Il Teatro degli Orrori al secondo disco. Il secondo disco del Teatro è molto più maturo, a fuoco e controllato del disco prima. Il che non suona benissimissimo, se uno è come sono io e si aspetta dal Teatro musica immatura, fuori fuoco e fuori controllo. Nel secondo disco del Teatro degli Orrori non c’è Vita Mia, insomma. Che era il pezzo più bello del disco di esordio. C’è invece, grossomodo, il resto del programma, messo su in ordine sparso con tanto di retorica pelosa capovilliana -con punte di stare bene assoluto quando attaccano Mai dire mai e Alt!, e il cantante inizia a sbroccare dietro al suo stesso testo iniziando a dire cose bellissime a vanvera con frasi lunghissime del cui significato siamo spesso -e grazie a dio- esentati dalla ricerca. Quel che dispiace è che sia stato infilato tutto quel che non era nel disco d’esordio ed è qui ora, un po’ come prova di maturità un po’ come dichiarazione estetica -nel senso di voler essere in un certo gradino della scala e voler fare una certa cosa. Nel senso che i musicisti della madonna che fanno guest appearance nel disco (eccezion fatta per Jacopo Battaglia) probabilmente avrebbero potuto starsene a casa loro senza annacquare il risultato finale, e cose tipo l’iniziale Io ti aspetto o Majakowskij se le sarebbero dovute tener dentro la penna, senza contare il risultato tragicomico della collaborazione elettro-noise con i Bloody Beetroots. A me il Teatro degli Orrori continua a piacere un sacco e mi pregusto sempre le vigilie dei loro concerti pensando a quanto è figo Giulio Favero col basso addosso o a quanto mi spacca in due il batterista con gli occhi fuori dalla testa che mena come il cugino metallaro di Todd Trainer, ma nelle mie grigliate di carne io non ci voglio nè insalata nè sottaceti nè qualche figlio di papà che arrivi a metà cena con un barattolino di foie gras facendo la mossa di offrirlo a tutti per scusarsi del ritardo.