XM24 in pieno effetto. La settimana si apre con tre serate tre di fila una dietro l’altra (i dettagli li trovate sul metallurgico e cinereo flyer qui sopra) e si chiude con un eventone di cui parleremo tra una quindicina di righe all’incirca, il tutto nel centro sociale che se solo Fausto Rossi ci avesse messo piede capirebbe perchè i giovani ci entrano come in una chiesa. Inizio intorno alle 22 puntuali e ingresso quattro euro a parte mercoledì che è gratis. Fiore all’occhiello della tre giorni è Steve MacKay con il suo sax belligerante in jam molesta martedì 23, per cui (e mi rivolgo ai più attempati) lasciate perdere i Pooh col negro a Rimini e venite a carbonizzarvi i timpani assieme a noi.
Mercoledì 24 serata imperdibile per i seguaci del psych-prog-metal lisergico con tanti e repentini cambi di tempo: sulle assi del Colorado Cafè (in via S. Isaia 57 a Bologna, nulla a che vedere col programma per dementi su italia1) si esibiranno gli spinellanti Altare Thotemico e i futuribili PropheXy (dalle 21.30, cinque euro), a seguire dj-set funk-dubstep per mandare definitivamente in pappa i neuroni rimasti. Giovedì ci sono i bruttissimi The Pains of Being Pure at Heart al Covo (dalle 22.30, boh? euro) o i messianici Wovenhand al teatro Comandini a Cesena (dalle 21, parecchi euro), ma la serata da non perdere è al CSA Spartaco a Ravenna con i magnifici Chevreuil, ovvero l’equivalente sonoro di quel che si prova dopo aver bevuto una cisterna di caffè, litigato con persone a caso e ucciso a fucilate una scolaresca (dalle 21.30, cinque euro). Venerdì karaoke peso all’Estragon con gli Amorphis in show del ventennale; intellettuali accorrete, aprono gli Orphaned Land (inizio ore 20 puntuali, ingresso ventiquattro euro). Contemporaneamente, al Locomotiv i casinari Buzz Aldrin (dalle 22, cinque euro più tessera AICS) e al Covo quella pazzerellona di Beatrice Antolini (dalle 22, prezzo ignoto ma se dovessi tirare a indovinare direi dodici euro).
E arriviamo così a sabato 27, di nuovo all’XM24 come dicevamo, per una piacevole e rilassante serata in compagnia di John Duncan (dalle 22.30, quattro euro). Per i depravati e i maniaci del cazzo: sappiate che NON si lancerà contro i fili della luce e NON si scoperà un cadavere. Ma la devastazione mentale e uditiva è comunque garantita. Mi dicono che ci sono anche Charlemagne Palestine a Cesena (sempre al teatro Comandini, abbastanza euro) e il Chicago Underground Duo all’Area Sismica (dalle 22.30, boh? euro). Domenica un cazzo.
Dimenticavo: c’è il MEI.
Archivi tag: ebrei con la chitarra in mano
MATTONI issue #2: Alan Licht
Nell’autunno 2003 A New York Minute, titanico doppio album del chitarrista minimalista Alan Licht, finì in downloading illegale su Internet – come consuetudine – diversi mesi prima che il disco uscisse “fisicamente” nei negozi. Non so come sia andata la faccenda nel dettaglio, sta di fatto che il rip che circolava in rete (e che, ironia amara, tuttora si trova con maggiore facilità) presentava una scaletta diversa da quella che poi, molto tempo dopo, avremmo trovato sul CD; probabilmente qualche fonico dello studio dove Licht stava registrando, preso da un improvviso impeto rivoluzionario, nell’urgenza di fare nel più presto possibile qualcosa di eversivo ha rippato una copia di lavoro dell’album con ancora la tracklist provvisoria. Il problema – ironia doppiamente amara – è che i due pezzi scartati dalla versione definitiva sono, quando non i migliori del disco in senso assoluto, certamente i più stimolanti e affascinanti. Essendo entrambi costruiti principalmente su samples di canzoni arcinote posso ipotizzare che l’esclusione sia stata dovuta all’impossibilità di pagare diritti d’autore che si immaginano esorbitanti, somme che il filiforme Licht non sarebbe riuscito a saldare nemmeno se l’album avesse stazionato nelle zone alte della classifica di Billboard per ere geologiche. Ma sono congetture; la verità, probabilmente, la conoscono soltanto Licht e il fonico manolesta di cui sopra.
Il primo pezzo è la versione originale della title-track; chi conosce bene il disco (beninteso: uno dei massimi capolavori di minimalismo chitarristico dello scorso decennio) avrà imparato ben presto e a proprie spese a skippare di default quell’infernale quarto d’ora di cut-up di previsioni del tempo registrate da una trasmissione radiofonica nel corso dell’intero mese di gennaio 2001 e miscelate al rumore del traffico e ad altro chiacchiericcio molesto assortito carpito chissà dove. Tutt’altra musica e tutt’altro costrutto assume invece il brano nella sua concezione primigenia: i minuti da 15 diventano 23, e intorno al dodicesimo l’incessante fluire metallico di vaniloqui sul tempo sfuma nel ritornello campionato e messo in loop di New York Minute di Don Henley, pilastro assoluto delle stazioni radio FM americane di una volta, pezzaccio strappacuore e bomba nucleare dell’airplay in quegli eighties che Licht, da vecchio rockettaro quale era e comunque resta, conosce come le sue tasche. In a New York Minute/ Everything can change… In a New York Minute/ You can get out of the rain… Estrapolate da un pezzo che è tra le sintesi più cruciali di concetti quali mutamento e perdita e mutamento dovuto alla perdita, queste frasi ripetute ossessivamente come un mantra (con tanto di “u-uuh” spettrale contrappunto che le accompagna) acquistano rinnovata consapevolezza e ulteriore, lacerante urgenza tragica, diventando – forse inconsapevolmente – la più grande e importante trasposizione in musica del post-11 settembre vissuto dai newyorkesi dopo l’intero American Supreme dei Suicide (disco tanto decisivo quanto frettolosamente dimenticato). Un pezzo che strappa il cuore anche a chi il crollo delle twin towers l’ha visto al telegiornale, comodamente seduto sulla poltrona di casa. Anche a chi delle twin towers se ne sbatte allegramente i coglioni. Terminale.
Il secondo brano – questo invece cassato in toto dalla scaletta definitiva – si intitola Bridget O’Riley, dura ventidue minuti ed è interamente costruito su porzioni del giro di synth che apre Baba O’Riley degli Who messe in loop e sovrapposte creando un effetto di “stratificazione” proprio del migliore Steve Reich, una sorta di equivalente “elettrico” della sua Violin phase con in più il calore dell’analogico (i samples sono presi da una copia in vinile di Who’s Next e in più punti si avverte il crocchiare della puntina sul solco impolverato) e la pompa kitsch delle superproduzioni: all’undicesimo minuto infatti il mosaico di loops, ormai divenuto un’ingarbugliata impalcatura a sé stante, entra in collisione con un campionamento – messo a sua volta in loop – del climax di Heart of glass dei Blondie, creando un cortocircuito sensoriale persino superiore alla somma delle parti. In quel periodo Licht era intrippato col bastard pop, e questi due suoi esperimenti sono probabilmente l’unico lascito degno di nota di quell’irritante ennesimo abbaglio passeggero della stampa musicale “che conta”. Entrambi i pezzi sono ora scaricabili, del tutto legalmente, da qui.