Solomon Burke 1940 – 2010

 

Se ne va uno dei pilastri più imponenti (non solo in senso fisico) di negritudine alla vecchia in quasi tutte le sue incarnazioni, dal gospel al funk, dal blues al soul fino al rock’n’roll e perfino al country (numerose le sue cover di classici del genere, che invariabilmente dopo il Burke-trattamento diventavano roba da schiavo nelle piantagioni di cotone). Nella sua voce pastosa e potentissima convivevano slancio verso il Divino e pulsioni che più brutalmente terrene non si potrebbe, come due facce dell’identica medaglia. Grande amante di Cristo, del buon cibo e della figa, lascia una ventina di figli e altrettanti album nei quali ha esplorato buona parte dello scibile musicale negro e non; ma era dal vivo – dove a stento si muoveva dal trono di volta in volta posizionato in mezzo al palco – che “The King” sprigionava fino in fondo il suo devastante, ipnotico carisma, nel corso di esibizioni fluviali a base di completini sgargianti ed ettolitri di sudore mandate in orbita dalla sua ugola baciata da Dio. Ed è adempiendo la sua missione che è morto, nella hall di un aeroporto olandese; avrebbe dovuto suonare il 12 ottobre ad Amsterdam assieme ai De Dijk con cui aveva recentemente collaborato.

PICHFORKIANA DEATH METAL: Defeated Sanity, Humangled, Inherit Disease, Mortification, Severe Torture

DEFEATED SANITY – Chapters of Repugnance (Willowtip)
Brutal death tecnico velocissimo da un gruppo che di tedesco ha solo il passaporto; modelli dichiarati i Suffocation di Breeding the Spawn e i primi tre album dei Disgorge americani (nei quali peraltro ha brevemente militato il vocalist A.J. Magana), il tutto shakerato e rivomitato con un coefficiente di violenza perfino superiore alla somma delle parti. Peccato per la batteria registrata tipo “mastello”, unico difetto di un gioiellino di disco. Curiosità: il batterista si chiama Lille Gruber (ah ah, uh uh). (8.0)

HUMANGLED – Fractal (Abyss)
Death groove metal crasso e fetente alla vecchia, con punte di ignoranza nella letale uno-due Brutalize the Pedophile / Liquidfire (il cui invasivo e mongoloide chorus si stampa in testa e non se ne va più); loro hanno una storia lunghissima alle spalle, tra cambi di moniker e repentine virate ora verso il grind, ora cyber death metal (il mini Foetalize, peraltro graziato da una cover geniale), ora death gore purulento. Il mixaggio è ad opera di Dan Swanö e anche solo per questo Fractal merita quantomeno l’ascolto. (6.7)

INHERIT DISEASE – Visceral Transcendence (Unique Leader)
Brutal ipertecnico con concept cyber-futuristico alla base, ben esplicato dalla suggestiva copertina in bilico tra Matrix e La Guerra dei Mondi di Spielberg; i gargarismi vocali del voluminoso singer Obie Flett somigliano sempre più al rumore di uno scarico del cesso intasato, il che può rappresentare un punto a favore come un handicap (dipende dai gusti, a me prende bene). Più difficile restare indifferenti di fronte al mostruoso lavoro di batteria del tritacarne umano Daniel Osborn (titolare anche della one-man band Misanthropic Carnage). Non per tutti i gusti ma estremamente interessante. (8.0)

MORTIFICATION – Twenty Years in the Underground (Nuclear Blast)
I più famosi baciapile australiani celebrano il ventennale con una doppia raccolta assemblata, probabilmente, solo e soltanto per il LOAL: cinque reincisioni di vecchi e nuovi classici e il resto estrapolato da bootleg registrati col walkman da qualche disperato tra il 1990 e il 1993. Ci sono anche quattro pezzi acustici (…) da un unplugged in Norvegia. Basta la parola. (0.8)

SEVERE TORTURE – Slaughtered (Season of Mist)
Quinto centro (su cinque) per i macellai olandesi. Non cambia la formula – brutal death drittissimo con il santino dei Cannibal Corpse in bella vista – in compenso si lavora ai fianchi un songwriting sempre più ferale, complice una produzione cristallina come mai prima d’ora, in grado di rendere ancora più temibili composizioni già in partenza devastanti; a completare il quadro la solita piacevole alternanza nelle liriche tra sbrodolate di sangue & interiora e simpatiche invettive anticristiane che al confronto Glen Benton è un mansueto sacrestano. Loro sono una macchina da guerra. (7.8)

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 12/18 luglio

Ma vaffanculo.

Poi ai Baroness non ci sono andato, ho preferito lobotomizzarmi davanti alla TV con una partita tra le più brutte, scorrette e fallose mai viste, muto testimone degli allegri ladri chiassosi fregare il titolo agli inventori dell’apartheid grazie alla solita botta di culo sul finale. E queste sarebbero le “furie rosse”? Per cortesia. Meglio pensare ai concerti della settimana entrante, che inizia in sordina per crescere lentamente fino a un week-end da desiderare a più riprese il dono dell’ubiquità: nonostante la crisi sempre più nera e i tagli indiscriminati a qualunque cosa, incurante delle temperature da raptus omicida (oltre a un tasso di umidità che al confronto in Africa stanno in crociera) e del fatto che in questo periodo dell’anno per le strade siano rimasti praticamente soltanto spagnoli sbronzi e i barboni più matti, Bologna c’è. Oggi infatti è l’unico giorno di tregua, ma per i professionisti dell’alterazione psichica potrà tornare utile Anja Schneider all’Echoes per il ciclo “Magic Monday”, direttamente dal cuore dell’Europa per sonorizzare i nostri incubi alla metamfetamina. Martedì 13 luglio, oltre a un fantomatico reading di Emidio Clementi al circolo ufficiali di cui dobbiamo però appurare la veridicità, di sicuro c’è la joint-venture 2 Pigeons/Samuel Katarro dalle 21.30 ai giardini di via Filippo Re. Come sempre, l’ingresso è gratuito. Di nuovo ai giardini mercoledì per i Blood Red Shoes, mentre giovedì al Blogos l’appuntamento è con i pupilli di Kurt Ballou Another Breath; è anche l’unica occasione per vederli all’opera live in Italia (perlomeno in questo tour). Venerdì, il bivio: da una parte Alberto Fortis gratis a villa Mazzacorati, dall’altra di nuovo a grondare al di là del bene e del male nel diabolico budello sigillato ermeticamente del Nuovo Lazzaretto per Kongh e Grindine. Mi viene da sudare (voglio dire, ancora più del solito) al solo pensiero.
Sabato 17, se vi sono piaciuti gli Another Breath si potrà fare il bis, sempre al Blogos, con i Texas In July (più altri mille gruppi tutti uguali); d’altra parte al Rock Planet c’è Paul Di’Anno, e se pensate che ormai sia solo un inutile vecchio rincoglionito significa che non l’avete visto cantare in tempi recenti (oppure siete semplicemente brutte persone). Domenica per  reduci e mods dalla spranga facile suonano i Toasters, gratis, in via Filippo Re; il problema è che al Blogos ci saranno i Cattle Decapitation (assieme a Gorod, Beyond Terror Beyond Grace e altri guests in via di definizione). Un massacro auricolare in piena regola, il tutto mentre trovano pieno compimento i seguenti festival:

Santarcangelo dei Teatri @ Santarcangelo, 16/18 luglio
Boombap Live Sessions @ Idice, 16/18 luglio
Sonica @ Sant’Agata Bolognese, 16/18 luglio

Vabbè, ne riparliamo se arriviamo al weekend con abbastanza sali minerali in corpo.

Gruppi con nomi stupidi: AN AUTUMN FOR CRIPPLED CHILDREN

 

 
Campioni di buon gusto: il loro nome tradotto suona più o meno come “Un autunno per bambini azzoppati“, e l’artwork di lancio dell’esordio Lost è tutto un tripudio di carrozzelle disseminate in androni malmessi che ricordano l’inizio di Session 9 e foto di bimbi tumefatti da mandare in fregola preti sadici. Loro sono olandesi e si nascondono dietro foto sfocate sile primi In The Woods e sigle da codice fiscale: txt al basso, cxc alla batteria e l’eclettico mxm ad occuparsi di voce, chitarra e tastiere. Sul loro myspace han messo metà album, tre tracce più il naturalistico video di I beg thee not to spare me che raccontano di un depressive black metal con innesti doom sulla scia degli ottimi Austere ma con registrazione ignobile. Gli ingredienti sono gli stessi: chitarre zanzarose o languide a seconda dei momenti, urlacci da gemello deforme rinchiuso in cantina, tupa-tupa-tupa-tupa di batteria che pare provenire da una catacomba, su tutto un senso di malinconia avvolgente e contagioso, malinconia che diresti autentica. Poi dai uno sguardo ai titoli delle canzoni – To Set Sails to the Ends of the Earth, Tragedy Bleeds All Over the Lost, In Moonlight Blood is Black, financo Gaping Void of Silence e per chiudere addirittura Never Shall Be Again – e cominci a chiederti se ci sono o ci fanno. Nel dubbio, aspettiamo di vederli suonare come special guest alle Paralimpiadi.

Brown vs. Brown @ Spazio SI (Bologna, 21/4/2010)

Si conclude in tono dichiaratamente low-key la breve rassegna imbastita tra le artisticanti pareti del SI (normalmente è un teatrino) dalla neonata associazione Offset: dopo il delirio totale di Yoshida dei Ruins (preceduto dalle legnate in faccia dei Sabot), il forsennato, escheriano math core degli Ahleuchatistas (con dj Balli a destabilizzare in apertura) e le gag da Helzapoppin dei Vakki Plakkula, si tira (relativamente) il fiato con il jazz-core torbido, sinuoso e mentale dei Brown vs. Brown. Loro sono olandesi e per questo figli di un modo di vivere e intendere il jazz tra i più personali e radicali, una scuola immediatamente riconoscibile per quanto unisca sotto la stessa bandiera musicisti e compositori dalle più varie estrazioni e inclinazioni, da Ab Baars ad Han Bennink a Guus Janssen fino a quell’irrimediabile dissociato di Misha Mengelberg e verrebbe voglia di citarli tutti quanti, dal primo all’ultimo: non si può sbagliare. Di recente formazione (suonano insieme dal 2004), il quartetto anagraficamente attraversa tranquillo una generazione (il più anziano è nato nel 1962, il più giovane nel 1980), in comune hanno tutti una vita nomade trascorsa prevalentemente on the road; curiosando sul loro sito vengo a sapere che nel 2006 qualche pazzo li ha fatti suonare al Löwenhof, scrausissimo pub metal sepolto nella provincia più nera (capitato lì per puro caso, ci vidi una cover band dei Depeche Mode eoni fa), e mi mangio le mani per non esserci stato. Esteticamente sembrano un gruppo di impiegati di banca un po’ pazzerelloni, con il chitarrista Jeroen Kimman che sfoggia indomito una micidiale camicia fiorata da offesa alla dignità umana (soltanto in un secondo momento noterò la sua somiglianza impressionante con Daktari Lorenz, l’attore protagonista di “Nekromantik“), il batterista Gerri Jäger un paio di baffoni a manubrio da fare invidia al poliziotto dei Village People e il bassista Viljam Nybacka un berrettino da pittore paesaggista forse frocio, con il compassato sassofonista Dirk Bruinsma unico elemento rispettabile nella sua aria stralunata da professore completamente tra le nuvole. Volendo potrebbero tirare giù i muri, ma questa sera chissà come mai preferiscono dare spazio alla parte più riflessiva e meditabonda del loro repertorio, composta di brani lunghi e stratificati a base di temi atonali ricorrenti, con Bruinsma che di tanto in tanto sforma e plasma i lamenti del suo sax attraverso un Kaoss Pad rudimentale. L’effetto è ipnotico, lunare e sottilmente inquietante, come passare una serata alla Road House. La musica che sgorga è come un noir di Jim Thompson: obliqua, inquietante, decentrata. Solo verso la fine un crasso sussulto di jazzcore ignoranza (nel senso buono) con una legnata che non riconosco e, nei bis, la classica FFF introdotta da urlacci collettivi. Dj Balli suona solo un quarto d’ora. Alla prossima adunata.