L’agendina dei concerti Bologna e dintorni 19-31 dicembre 2011

 
Ultimi fuochi. La città si svuota in occasione delle festività natalizie, forestieri e studenti fuori sede tornano al paesello a mangiare i babbalubba, i locali chiudono, solo foschia e gelo per le strade, sembra di stare a Parma. Meno male che questa sera al Clandestino arrivano i Vialka (gratis, dalle 22.30) a ricordarci che comunque il tempo scorre lungo i bordi (visti ormai 5 anni fa all’XM24, il tempo passa per tutti lo sai…). Martedì 33Ore al Teatrino degli Illusi (gratis, dalle 20), mercoledì Nicola Ratti all’Elastico (gratis, dalle 20), giovedì un cazzo e venerdì Rick Hutton al Bravo Caffè, e se il tempo non scorre lungo i bordi stavolta allora io non lo so… Da venerdì a domenica scatta la tre giorni Passatelli in Bronson, l’ideale se il Natale invece che con i vostri preferite passarlo in compagnia di Massimo Volume, Bachi Da Pietra e compagnia frizzante, poi il nulla fino a martedì 27 dicembre con i Raw Power al LabAq16 (aprono Debunk e End Of A Season, chiudono Mr. Tomato, flyer qui sotto da stampare e far girare, vai di Rank Xerox…), e il tempo continua a scorrere lungo i bordi… Salvo appuntamenti imperdibili dell’ultim’ora (che potete segnalarci a lagendinadeiconcerti(at)gmail(dot)com) questa è l’ultima agendina per il 2011, vi aspettiamo nel 2012 con un’edizione ancora più ricca e tante altre mirabolanti novità (si dice così, no?). Buone feste (se ne farete) e che i Maya ce la mandino buona…

 

Siamo solo noi: si è riunita una tantum la Paolino Paperino Band, ed io c’ero.

questo della foto sono io all'età di sedici anni, sul serio. Enrico Ruggeri mi ha pagato un sacco di soldi per poter utilizzare la mia immagine.
questo della foto sono io all’età di sedici anni, sul serio. Enrico Ruggeri mi ha pagato un sacco di soldi per poter utilizzare la mia immagine.

Parlare della Paolino Paperino Band è difficile perché c’è sempre una sorta di timore reverenziale verso questo gruppo (da parte mia almeno, da parte degli altri non so – ma francamente spero di sì). E allora iniziamo a copiaincollare cose a caso trovate in rete, ovviamente senza citare la fonte:

  • E parlava di noi, la Paolino Paperino Band parlava di noi. Di noi che cominciavamo a capire qualche cosa del mondo, e ci faceva cagare. La maggioranza (e forse di più!) delle persone del nostro paese, ci faceva schifo, anche senza conoscerli.
  • La Paolino Paperino Band ha raggiunto una notevole diffusione in tutta Italia, favorendo persino il nascere di alcune leggende metropolitane su di loro. Secondo una di queste, certamente falsa, i membri della band sarebbero morti in un incidente stradale mentre stavano viaggiando ubriachi in auto tutti insieme. Un’altra leggenda vuole che Yana, il cantante, guidasse spesso una vecchia Citroén 2cv in cui il sedile del passeggero era stato sostituito da una tazza del water (quest’ultima l’ho creduta vera fino a qualche ora fa, così come ho creduto che Citroén si scrivesse diversamente).
  • Ho iniziato a scrivere un libro sulla Paolino Paperino Band che uscirà per l’Arcana non appena sarà finito (probabilmente non avrà neanche una copertina perché voglio che esca subito e non si perda nemmeno un briciolo dell’urgenza dell’opera in questione – questione di principio), e lo sto facendo con pochissimi elementi concreti in mano dato che quando la Paolino raccoglieva tutta la sua discografia in Pislas e si scioglieva io ero davvero troppo piccolo per accorgermene veramente. Sto lavorando parecchio di fantasia e di sentito dire, ma nonostante tutto sono molto orgoglioso che mi abbiano chiesto di imbarcarmi in un’impresa di tale portata perché la Paolino è la Paolino e mai nessuno è stato così grande in Italia. Non vedo l’ora che se ne accorga pure Rockit, ci sarà da ridere.
  • Almeno un buon venti per cento dei personaggi citati nella immarcescibile La pentola della Paolino Paperino Band sono morti. Il tempo passa, questi anni stan correndo via come macchine impazzite e non ci possiamo far nulla se non riderci sopra, noi che abbiamo il Booster elaborato come andava di moda quindici anni fa mentre gli altri oggi viaggiano con le minicar. Sto diventando grande, lo sai che non mi va.

Comunque bando alle ciancie (non ho mai capito cosa voglia dire ma uso ugualmente questa frase fatta) e parliamo di cose serie. La Paolino è sempre stata catalogata sotto la voce “punk demenziale” ma era molto di più. Ha scritto alcune tra le cose più intelligenti di sempre e i suoi testi possono essere utilizzati per spiegare e/o commentare qualunque situazione della vita reale. Dovrebbero stamparli su un libretto rosso tipo The Psychic Soviet di Ian Svenonius e bisognerebbe averne una copia a testa per vivere meglio, però visto che non è possibile ci bastano Pislas e le prime carbonare incisioni per cavarcela alla grande ed uscire sempre a testa alta. E pensare che fino a qualche tempo, quando la gente si cagava ancora i Punkreas, c’era qualcuno che credeva che questa roba l’avessero inventata i Punkreas. Mamma mia.

Io – che come Enrico Ruggeri sono stato punk prima di te – la Paolino Paolino Paperino Band l’ho conosciuta da ragazzino grazie ad un amico più grande che mi passò il cd di Pislas (e poi non volle vendermi la rarissima copia, ma questo è un altro discorso che non sto ad approfondire perché anche io al suo posto avrei fatto lo stesso) e da allora non ne sono uscito più. Continuo ad ascoltarla come se fossi un ragazzino, continuo ad utilizzare i suoi testi per spiegare e/o commentare qualunque situazione della vita reale (bella vita direi). Ho sempre sognato vederla dal vivo, ma ciò non è mai stato possibile perché quando l’ho conosciuta si era già sciolta e la band ha sempre rimbalzato ogni reunion ufficiale. O meglio, nessuna reunion definitiva se non un concerto il 25 aprile 2004 (perso perché l’ho saputo anni dopo) e uno per un benefit il 23 ottobre 2011. Un momento: io a quello del 23 ottobre sono andato ed ho coronato un sogno (ed ho pure fatto un’opera buona visto che era per un benefit, ma questo è un discorso che sto qui ad approfondire perché entrerei nell’ambito della vita privata delle persone). Han suonato alla grande in un contorno di residuati fine ottanta-inizio novanta tipo Rats, Fatur, Umberto Negri et similia ed il locale si è svuotato immediatamente dopo il loro concerto (segno che tutti erano lì per la Paolino e non per i Diaframma che ormai ti suonano anche sotto casa e che al Vox han finito per suonare in un deserto). Non hanno suonato La Pentola, Discotecaro e Maicol, ma chi se ne importa, hanno fatto molto del resto ed è stato giusto così. Descrivere per filo e per segno il concerto? No. Ogni parola sarebbe superflua per descrivere un concerto del genere, ed infatti mi fermo qui perché suonano alla porta. Probabilmente è uno che vuol cercare di vendermi una enciclopedia sui bulloni, vado ad aprire.

Rozzemilia issue #5: MASSIMO VOLUME

Vittoria Burattini, Egle Sommacal, Emidio Clementi: i Massimo Volume.

 

Lei stava aspettando un autobus in via Lame, noi eravamo chiusi in cantina e lui impataccava come al solito il quartiere con la sua pubblicità fatta di fogli di carta scritti a penna: SGOMBERO CANTINE SOLAI.
(Emidio Clementi, 2001)

Io quelle pubblicità me le ricordo bene. Erano dappertutto, cartellini bianchi della grandezza di poco più di un Post-It incollati malamente alle colonne sotto i portici, ai pali dei lampioni e dei divieti di sosta, alle pensiline e alle fermate degli autobus, spesso anche ai muri: ovunque. Me ne accorgevo soprattutto la mattina quando uscivo per andare a scuola, se ce n’erano di nuovi; con gli occhi ancora gonfi di sonno, ovunque mi girassi trovavo di volta in volta ulteriori foglietti fotocopiati con su scritto a mano “SGOMBERO CANTINE-SOLAI-APPARTAMENTI”, le lettere grosse e storte rifinite passandoci sopra decine di volte con la biro o il pennarello, il tratto tremolante e incerto di un bambino particolarmente duro di comprendonio o di un anziano che ormai ha dimenticato anche come si fa a pisciare in un cesso. “ANCHE SABATO E DOMENICA”, proseguivano gli annunci, poi sotto qualche altra frase nella stessa calligrafia da semianalfabeta e un numero di telefono che non mi è mai rimasto impresso nella memoria (a differenza del resto). Per anni la città ne era invasa, poi di colpo nessuno tornò più ad attaccarli nottetempo e così come erano apparsi scomparvero senza lasciare traccia. Mi sono sempre chiesto chi ci fosse dietro a quegli annunci così sgangherati, primitivi e inquietanti come un quadro naïf; l’ho imparato per caso, una quindicina di anni più tardi, quando ho letto La notte del Pratello, romanzo che sta al facchinaggio come Post Office sta ai postini. Il grafomane attacchino compulsivo era tale Pietro Zaccardi, un vecchio avarissimo che al confronto lo Scrooge di Dickens era un espansivo filantropo,  e i facchini alle sue dipendenze erano Leo Mantovani ed Emidio Clementi. Io stavo finendo le elementari, e se ripenso oggi a quegli anni le prime cose che mi tornano in mente sono il grigio e il freddo nell’aria del mattino e le pubblicità SGOMBERO CANTINE-SOLAI-APPARTAMENTI dappertutto. (Continua a leggere)

Badilate di cultura: Michael Rooker

 

 

A dare uno sguardo alla sua pagina Imdb in questi giorni, si legge che Michael Rooker è coinvolto in dodici progetti (undici film e un TV-movie) di prossima uscita. Ne ho aperto uno a caso: Matadors, con Stephen Lang, Kiele Sanchez e David Strathairn, regia di un vecchio leone della B più fiera, quell’Yves Simoneau che più di tre lustri fa mi traumatizzò con l’efferato e prevaricatore La Notte della Verità (thriller estivo da cinema di periferia come non ne fanno più, con il pisellante Peter Gallagher e una scombinatissima Jamie Lee Curtis da brividi freddi lungo la schiena). Ne apro un altro: Hypothermia, scritto e diretto da tale James Felix McKenney. Questo è in post-produzione quindi le informazioni ancora scarseggiano, ma scorrendo parte del cast non posso fare a meno di notare la presenza di Blanche Baker, terrificante matrigna sadica nell’insostenibile The Girl Next Door. E ancora: Atlantis down, temibile epopea sci-fi da sala parrocchiale deserta, dove Rooker veste il doppio ruolo del padre e dell’alieno (…); Super, ritorno al cinema di James Gunn dopo lo strabordante bagno di sangue citazionista di Slither (che pure vedeva Rooker protagonista assoluto); Bolden!, con l’inquietante Jackie Earle Haley, e il personaggio di Rooker che si chiama “Pat McMurphy”, come Jack Nicholson in Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo; financo un film intitolato Pure shooter (dove Rooker interpreta il “coach Miller”), che se l’uomo avesse fatto il regista invece che l’attore sarebbe la storia della sua carriera racchiusa in due parole.
Michael Rooker è il mio attore preferito, da sempre. La folgorazione è stata immediata, da quando nella torrida estate 1992 sognavo Henry: Pioggia di Sangue (ne avevo letto un’estasiata recensione sulle colonne di cinema del “Punitore“), impossibilitato alla visione perché il film era vietato ai minori di 18 anni. Henry (che nel resto del mondo era uscito sei anni prima, nel 1986) è la fulminante partenza in pole-position del semiesordiente Rooker (prima soltanto una particina nel pilota di Crime Story, dove – manco a dirlo – impersonava il “luogotenente”): corporatura massiccia, mascella quadrata e uno sguardo che perforerebbe il titanio, Michael Rooker pare uscito per direttissima da una striscia di Chester Gould. I primi anni vedono le quotazioni dell’uomo in costante, vertiginosa ascesa: dopo qualche comparsata di riscaldamento (in Poliziotto in Affitto, con Burt Reynolds e Liza Minnelli, e La Luce del Giorno di Paul Schrader), esplode nel vibrante di sdegno antirazzista Mississippi Burning, a fianco di Gene Hackman e Willem Dafoe. Nel 1989 è in The Edge, TV-movie del figlio di Elia Kazan, e nel giro di pochi mesi lavora con Michael Mann (Sei Solo, Agente Vincent), Al Pacino (Seduzione Pericolosa) e addirittura l’überintellettuale Gosta-Gavras (l’invero avvincente nonchè piuttosto serrato Music Box – Prova d’Accusa). Ancora sulla breccia nei due anni successivi: in Giorni Di Tuono è il rivale di Tom Cruise, ‘Rowdy’ Burns, personaggio intriso di chiaroscuralità gay come soltanto Val ‘Iceman’ Kilmer nell’analogo Top Gun. Nel mastodontico JFK di Oliver Stone è addirittura co-protagonista, braccio destro del titanico e arringante Costner (sopraffatto dai nervi, mollerà poco prima della tirata di ventisette minuti sulla pallottola magica): è il picco massimo della sua carriera, in termini di popolarità e rispettabilità mainstream. Ma non è il suo gioco. Non è quello il suo campionato. Lo dimostra nel 1993, compiendo le sue prime scelte davvero radicali, scegliendosi le compagnie che più gli aggradano: nello specifico, George A. Romero per La Metà Oscura (Rooker è il collerico sceriffo che dà la caccia al mefistofelico Timothy Hutton), Renny Harlin per l’action ad alta quota Cliffhanger (futuro evergreen dei videonoleggi prima e di Italia 1 poi) e il sovrano della B di un certo livello George P. Cosmatos (Cassandra crossing, Cobra, Leviathan) per lo sgangherato Tombstone (assieme a eroi del tenore di Kurt Russell, Val Kilmer, Sam Elliott e Powers Boothe per dire soltanto i primi che mi sono venuti in mente). Ma il turning point vero si compie nel 1994: è infatti il personaggio di Jonah Mantz, l’irascibile poliziotto corrotto protagonista del fondamentale Uno Sporco Affare, a garantirgli l’immortalità nella produzione da videonoleggio passata, presente e futura. La sua interpretazione carica di rabbia repressa troppo a lungo diventa istantaneamente un marchio di fabbrica, tale da accostare Rooker, nell’immaginario collettivo, a bestie da distretto del calibro di Ray Liotta, Brian Dennehy o David Caruso (altri golden boys del videonolo con precedenti mainstream più o meno duraturi – Liotta lavorò perfino con Scorsese). Una scelta di campo talmente radicale che, da allora in poi, gli “straight-to-video” e la televisione rimarranno il suo esclusivo pane quotidiano: Rooker attraverserà il resto dei novanta e gran parte del decennio da poco conclusosi zigzagando amabilmente tra Z-movies più o meno beceri e praticamente qualsiasi serie televisiva che implicasse poliziotti, avvocati o quant’altro (CSI, JAG, Numb3rs, Thief, Crossing Jordan, Law & Order, ma pure fulminee incursioni in Tremors, Lucky, Stargate SG-1 e un sacco di altri), fino all’inaspettato recupero da parte del grande Doug Liman in Jumper che è storia recente.
Da sempre e per sempre il più grande eroe della serie B assieme soltanto al mitico J.T. Walsh, autentico corpo votato alla marginalità da VHS come ormai, purtroppo, non ne esistono più.

PITCHFORKIANA – SPECIALE DEATH METAL: Abscess, Arkaik, Distorted Impalement, Lie In Ruins, Unleashed


ABSCESS – Dawn of Inhumanity (Peaceville)
Chris Reifert è tra gli eroi in assoluto meno celebrati della scena, nonostante abbia suonato sul miglior disco dei Death, sia stato la mente degli Autopsy e da quindici anni come Abscess continui a pubblicare grandi album nel disinteresse generale. Dawn of Inhumanity non inverte la rotta: cinquanta minuti della solita splendida miscela di death metal old school, black metal e crust, con il solito artwork manicomiale pieno di globi oculari ovunque che al confronto Nick Blinko o Pushead sono pittori veristi. È recente la notizia della reunion degli Autopsy, ma se c’è qualcuno che più di ogni altro merita di passare alla cassa è proprio Chris Reifert. 8.2

ARKAIK – Reflections Within Dissonance (Unique Leader)
Death tecnico alla vecchia con tanto di copertina che sembra di essere stati ricatapultati direttamente nel 1996: un gran bailamme di sfuriate di doppia cassa e cambi di tempo repentini e arzigogolati che manco i Nocturnus, riff melmosi, sovrapposizione bentoniana vocione orchesco/screaming disumano, concept fantascientifico-apocalittico con titoli tipo The Transcendent Spectral Path (l’obbligatoria intro strumentale di un minuto con chitarre liquide alla Lack of Comprehension), Obscured Luminosity, Elemental Synthesis o Womb Of Perception. Un gioiellino. 7.8

DISTORTED IMPALEMENT – Straight In Your Face (Twilight Vertrieb)
Porno-brutal-gore con i controcazzi, rigorosamente sessista, misantropo, misogino e tutte quelle altre cose che fanno incazzare gli irriducibili delle Giuste Cause, per nulla noioso ed anzi estremamente divertente e coinvolgente nonostante si muova su terreni già ampiamente scandagliati in altri tempi e da altre band. Loro sono austriaci e con un sussulto di arroganza da ras del quartiere si autodefiniscono Austria’s Finest in Brutality. Magari hanno ragione. 7.4

LIE IN RUINS – Swallowed By the Void (Spikefarm)
Questi arrivano al primo album soltanto ora ma esistono dal 1993, e grazie a Dio nel 1993 ci sono rimasti – perlomeno musicalmente: puro death metal finnico putrido, torbido, raggelante e morbosamente inquietante, con la batteria che sembra registrata in una grotta e gli agghiaccianti latrati del singer direttamente da dentro una bara già sepolta sotto metri di terra. Nessun virtuosismo inutile, nessuna finezza da ingegnere del suono maniaco della pulizia, “soltanto” quattro accordi e un’attitudine, e il marcio inestirpabile nell’anima. Ad avercene. 8.3

UNLEASHED – As Yggdrasil Trembles (Century Media)

Ennesima porcata pseudovikinga, “epica” quanto uno scaldabagno difettoso, di una band un tempo enorme (i primi tre album sono e restano pietre miliari irraggiungibili dell’intera storia del death metal) ma che da troppi anni non riesce a pubblicare dischi che non sembrino scritti, pensati ed eseguiti da un’orchestra di mongoloidi. Una roba tanto imbarazzante da muovere a compassione. 1.4

Graveyard – One with the Dead

 

Soltanto a dare uno sguardo alla copertina, ruspante come l’immaginazione di un bimbo cresciuto a film horror di serie Y e trasudante grezzume e fetore di ascella sudata come i dischi di quart’ordine nel bel mezzo dei nineties più ingenui, ho provato una stretta al cuore; quando poi ho letto “mastered by Dan Swanö at Unisound Studios” sono arrivate inevitabili le lacrime. È ufficiale: con l’esordio a lunga durata dei Graveyard siamo tornati nel 1991. Loro sono spagnoli, ma la provenienza geografica conta meno di zero in questo caso, dal momento che il loro cuore pulsante batte all’unisono con la più indomita e orgogliosa scena death metal svedese dell’ultima decade del secolo scorso. Quella scena fieramente guidata dai Grave, dai primi Entombed, dagli Edge Of Sanity, dai Dismember prima che si rimbecillissero irreversibilmente e diventassero la patetica parodia di sé stessi rilasciando dischetti per bambocci in età prepuberale. Tempi irripetibili, da troppi anni, troppa feccia e troppi dischi di merda obliati. One with the Dead è il debutto su CD dopo un paio di split e il demotape (tanto per tornare a quando i demo giravano su cassetta, con tanto di copertina putrida fotocopiata in bianco e nero e le note scritte a macchina in un inglese da subumani pieno di errori di ortografia) Into the mausoleum del 2007, più volte ristampato. Non ci sono scuse, nessuna pretesa ‘alta’ a nobilitare l’operazione, niente che implichi una qualsiasi parvenza di attività cerebrale per quanto minima: il loro è amarcord puro, concepito e suonato con la foga e la dignità di chi sa che sarebbe stato in seconda linea anche negli anni migliori, quella passione divorante che alimenta il culto ben più e ben meglio di tanti nomi che invece sono sulla bocca di tutti. Musica di cuore e di budella che parla alla gente con un passato che ha voglia di ricordare. Il presente è bandito, il futuro nemmeno contemplato. Per chiunque sia cresciuto mandando a memoria certi dischi, leggendo certe riviste e passando lunghi e bellissimi pomeriggi a tentare di tradurre certi testi che, il più delle volte, parlavano prevalentemente di smembramenti, uccisioni e malattie dal decorso rivoltante, One with the Dead è un delizioso e rinfrancante viaggio nella memoria; per tutti gli altri, volgarissimo rumore con un tizio che rutta al posto di cantare, robaccia per cerebrolesi da stigmatizzare quando non da ignorare direttamente. A posto così: a noi non frega un cazzo e a loro neppure. A ciascuno il suo.

PS: leggo sul loro myspace che a marzo verranno a suonare a Varese di spalla agli Horrid, autentici eroi non cantati del death metal italico, altri che hanno lasciato il cuore in Svezia e i padiglioni auricolari a casa di Tomas Skogsberg. Imperdibile per chiunque abbia un’anima.

Edit dell’ultim’ora: mi rendo conto solo adesso che un gruppo che di nome fa “Cimitero” merita di diritto un posto nella categoria “Gruppi con nomi stupidi”. Tag aggiunta all’occorrenza.

Il download illegale della settimana – Loudpipes

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Nel 1995, in occasione dell’uscita del singolo S.N.T.F. dei Diabolos Rising, ennesimo parto della mente malata di Magus Wampyr Daoloth, i degni compari della Osmose varano la sublabel Kron-H, divisione inizialmente specializzata in “experimental and techno“. E effettivamente gli esordi tengono fede al proposito, con una tripletta da far tremare i polsi: al già citato S.N.T.F. seguono Blood, Vampirism & Sadism, temibile concept-album sadomaso dei Diabolos Rising (stampato in sciccosissimo vinile giallo e accompagnato da una VHS con l’intero album “sceneggiato”), l’indescrivibile Šlágry, sigillo conclusivo dei Master’s Hammer su cui è assai probabile ritorneremo, e l’EP The Very Best of Pain dei Raism, che altri non erano che i Diabolos Rising sotto mentite spoglie dediti a un industrial metal talmente basilare e deviato che al confronto Johnny Violent diventa un fine stilnovista. Il drastico cambio di direzione e intenti avviene appena due anni più tardi, nell’aprile 1997, quando viene pubblicato il micidiale On Speed dei Rocking Dildos, fun-band del boss della Osmose, Hervè Herbault, e degli Impaled Nazarene sotto mentite spoglie: il disco è una vigorosissima mazzata sui denti di crasso, ottuso, sessista e politicamente scorretto hardcore punk tra Motorhead, Exploited, Discharge e gli stessi Impaled Nazarene dell’allora recente Latex Cult. Il disco diventa immediatamente il vero (non dichiarato) manifesto stilistico della Kron-H, che da allora e nel giro di pochi mesi licenzia una serie di album (e di gruppi) uno più lercio, ignorante e manifestamente sgradevole dell’altro: a cominciare da Fuck The World dei Driller Killer, crust punk mongoloide con una delle copertine più ributtanti di sempre (un disegnino del pianeta Terra con un’enorme vagina in mezzo), e continuando con Everyday Slaughter degli inossidabili Disfear (attivi e in forma smagliante ancora oggi), Uglier and More Disgusting dei Dellamorte (il titolo valga come recensione), Horny Hit Parade, secondo e – finora – ultimo atto dei Rocking Dildos, e The Downhill Blues dei Loudpipes. Noti più che altro per avere in formazione il batterista di Unanimated e Face Down, Peter Stjärnvind, i Loudpipes potevano vantare all’attivo il solo mini Drunk Forever (come dire: nomen omen…!) del 1994, ristampa dell’omonimo demotape, oltre a un secondo demo del ’95 che però non è mai stato pubblicato (bisogna credergli sulla parola). The Downhill Blues è un assalto ininterrotto tra crust, hardcore, punk e speed metal da far spettinare anche il più lurido, alcolizzato e impresentabile degli squatter, un disco che avrebbe restituito il sorriso a Steve Ignorant come a ‘Cal’ Morris piuttosto che GG Allin (ma senza le delizie da grand gourmet dei coprofagi); mezzora scarsa di sangue sudore e vomito da abuso di superalcolici, musica di cuore che parla alla gente con un cuore. Di lì a poco Stjärnvind entrerà a far parte degli Entombed, e dei Loudpipes non si saprà più nulla. Bellissimo quanto misconosciuto, The Downhill Blues è solo una delle perle dimenticate della Kron-h, che tempo un altro paio di uscite (Violence Is a Girl’s Best Friend dei caramellosi punkettini The Unkinds, certo l’uscita più accessibile dell’intero catalogo, e i follow-up di Raism, Driller Killer e Dellamorte) e cesserà definitivamente le pubblicazioni (anche se il marchio ufficialmente esiste ancora). Erano gli anni d’oro della Osmose, un’altra epoca. Ma parte di questo tesoro non è andato perso: voi procuratevi illegalmente The Downhill Blues, e dopo il 14 agosto seguite questo link: potrete ordinare il cd direttamente all’etichetta al costo di un euro e mezzo.