I dieci pezzi più belli degli anni duemila (a complemento di quell’altra, non so se hai presente)

Stesse regole dell’altra volta: dieci pezzi, niente piagnistei, niente storie tipo “Martina mi ha lasciato e da un bar usciva forte questo pezzo di Tiga”. Che tega che era Tiga, ve lo ricordate?

UNSANE – EAST BROADWAY (da VISQUEEN, Ipecac2007)
East Brodway non è altro che la registrazione dei rumori che si sentono nel mio quartiere. Mi legavo un microfono al polso e passeggiavo per il quartiere con un registratore.
(Chris Spencer intervistato su Metal Shock)

DAFT PUNK – ONE MORE TIME (da DISCOVERY, Virgin 2001)
Il problema più grande legato allo scegliere dieci pezzi è che in qualche modo bisogna lasciare fuori delle fette intere di roba che magari hai ascoltato finchè non ti sono usciti i coglioni dal palato. Per quanto mi riguarda vuol dire soprattutto sbattersene di tutto quello che è uscito e riguarda IL SUONO, vale a dire una serie di cose elettroacustiche (o anche peggio) uscite per etichette tipo Touch o Mego o Leaf ma anche per certi versi la versione più brutale e classicona e popposa tipo Sightings et similia. Per fare un doppio sgarbo a questo terribile (e tutto sommato ancora in atto) periodo della mia esistenza, un tributo al disco pop che più di tutti ha dato un volto al pop della nostra epoca e forse di tutte le epoche e quindi in qualche modo (visto dal punto di vista della futuribilità passata) l’unico vero disco anni duemila uscito negli anni duemila a parte i soliti noti (cioè gruppi/artisti che al momento non ricordo ma che sicuramente hanno fatto un disco anni duemila negli anni duemila: van tutti bene a parte i Radiohead) e/o la canzone con le tette più grosse del pianeta. Da questo punto di vista l’unica alternativa che mi verrebbe in mente è Time to Pretend, ma mi sentirei di fare uno sgarbo agli MGMT di Congratulations.

WOLF EYES – BLACK VOMIT (da BURNED MIND, Sub Pop 2004)
Questa canzone cambia radicalmente valore assoluto nel momento in cui qualcuno carica un video su Youtube fatto di esorcismi e negritudine in salsa porno amatoriale lynchiano che sembra tipo il video ufficiale della canzone e la riporta alla ribalta come uno dei pochissimi tentativi riusciti di fare musica industriale non-vintage. Nel senso che i Wolf Eyes ci hanno davvero PROVATO, nella manifesta incapacità di provare qualsiasi altra cosa nel momento di massima esposizione (disco Sub Pop etc). Ce l’hanno fatta. E tutto sommato il loro periodo alla luce del sole è stato il più divertente. Per puro piacere personale avrei usato probabilmente Stabbed in the Face, ma Black Vomit ha appunto questo video amatoriale E un legame col disco assieme a Braxton.

TEETH OF LIONS RULE THE DIVINE – HE WHO ACCEPTS ALL THAT IS OFFERED (FEEL BLACK HIT OF THE WINTER) (da RAMPTON, Rise Above 2002)
La voce di Lee Dorrian, trasfigurata, deforme, immane, esplode sguaiata al decimo minuto, contemporaneamente all’eruzione di chitarra e basso, un’orgia di bassissime frequenze ad accompagnare un rantolo che non conserva più nulla di umano. Di quel che latra non si capisce niente, e probabilmente è un bene: le farneticazioni sono minuziosamente riportate parola per parola, con certosina pazienza, in un libretto allucinante dove confluiscono stile liberty, stampe del ‘500 e outsider art della più perturbante mai concepita, ma i testi scritti a mano in sghembi e diseguali caratteri gotici rendono la decifrazione un’autentica tortura per gli occhi. Ne parlò a suo tempo m.c., io sono abbastanza d’accordo. L’unico serio candidato a sostituirla, parlando di postrock, è My Wall, traccia-mastodonte confezionata dai Sunn (o))) con Julian Cope in quello che in prospettiva è tutto sommato il loro miglior disco (White 1). Ma i Sunn (o))) hanno fatto, relativamente parlando, una fine peggiore rispetto al side-project Teeth of Lions.

RIHANNA – UMBRELLA (da GOOD GIRL GONE BAD, Def Jam 2007)
C’è questo beat grassissimo e comunque molto scarno che fa un sacco old school (il disco tra l’altro esce per quello che è rimasto di Def Jam). Il testo è una canzone d’amore standard che è tuttavia è facilissimo interpretare (soprattutto accanendosi sulla biografia della Rihanna da Rated R in poi) come una possibile storia d’amore che nasce dietro a un singolone rap che parli di macchine e troie. Solo, dal punto di vista della troia. Che in realtà è una ragazza-coraggio

ONEIDA – SHEETS OF EASTER (da EACH ONE TEACH ONE, Jagjaguwar 2002)
You’ve got to look into the LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT LIGHT per duecentomila volte, la prima volta che l’ho sentita mi ha cambiato l’esistenza, continua a cambiarmela ogni volta che ripassa per lo stereo, è una cosa molto grassa e antipatica e respingente e sì, insomma, ogni volta che suonano dal vivo sembra più divertente della volta precedente e questo in un ambiente come il nostro ha quel che da gruppo vissuto che a noi piace molto. Ma qui si dà un voto alle canzoni in sè, e Sheets of Easter sta a rappresentare al meglio tutto il giro noise-wave newyorkese che a un certo punto è diventato il nuovo pop e ha cercato disperatamente di non sputtanarsi una volta incontrato il pubblico delle grandi occasioni, trovandosi a tavola con gente che s’aspettava i nuovi PIL ed è saggiamente scappata via a gambe levate prima che arrivasse il conto. Each One Teach One rimane comunque uno dei dischi più belli di quel periodo.

FUGAZI – CASHOUT (da THE ARGUMENT, Dischord 2001)
Il 2001 è l’anno in cui torna a galla il rock’n’roll come segno puro e musica per gente bene con un conto in banca non più in rosso e un curriculum di scopate del tutto rispettabile. Gli Strokes esordiscono verso fine anno, nel frattempo qualcuno ha già piantato i primi semi per il ripescaggio di ogni forma postpunk di cui si erano (grazie al cielo, ora possiam dirlo) perse le tracce nel decennio precedente. Il postrock, vagamente ricalcolato dai Fugazi dei due meravigliosi dischi di fine anni ’90 (End Hits e la colonna sonora di Instrument), è già da diverso tempo un genere musicale piuttosto codificato intorno a una direttrice orchestrale di stampo Mogwai. The Argument suona diverso da tutto quel che esce in quell’anno. L’amarissima Cashout, cantata da Ian MacKaye, proclama con orgoglio che io lo so cosa sta succedendo e fate pur finta di no. Ancora oggi, quando la suono, mi sento la ramanzina di Ian nelle orecchie.

LAGHETTO – UOMO PERA (da SONATE IN BU MINORE PER QUATTROCENTO SCIMMIETTE URLANTI, Donnabavosa et al. 2003)
Per sapere cosa si è bisogna avere chiaro cosa non si è. Fossero esistiti né prima né dopo questo disco, probabilmente li avremmo relegati al dimenticatoio. L’eco di quella voce brutta e sgraziata non s’è ancora spento. A proposito: c’è un libro sull’ultimo AntiMTVday.

AUDIOSLAVE – WIDE AWAKE (da REVELATIONS, Epic 2006)
Non ho ben chiaro quale sia il mio disco preferito negli anni duemila. Non ho dubbi, invece, che il miglior film sia Miami Vice. E chiunque abbia questa opinione non può avere che un’opinione trasfigurata di quella che nasce come inno anti-Bush in seguito all’uragano Katrina e che diventa l’apice lirico degli anni duemila come scheggia impazzita e deforme di certi ottanta troppo frettolosamente scopati sotto il tappeto. Gli stessi autori (frettolosamente e forse giustamente liquidato come un patetico supergruppo di rock cafone anni settanta nato in provetta e senza benzina) avevano musicato la scena del lupo in Collateral. Difficile scindere Michael Mann e gli Audioslave al secondo centro consecutivo.

DINOSAUR JR – OVER IT (da FARM, Jagjaguwar 2009)
Per quelli che le reunion e per quelli che erano d’accordo sul pezzo dei Fugazi. Il video con i tre Dinosaur Jr che fanno trick in skateboard/bmx in qualche sobborgo. L’incedere maestoso di tutto Farm, ad oggi l’ultimo disco dei Dinosaur Jr (e non è detto non sia un bene che rimanga tale). Voglio dire, ho cercato di usare la testa ma non vuol dire che non sappia dove batte il cuore. Ecco.

(se pubblicate le vostre liste mandatemele al solito indirizzo email, che sta nella pagina contatti)

Leviatani e Locuste (due recensioni gratis al prezzo di una recensione gratis)

C’è un nuovo disco dei Mastodon. Non è niente di che, opinione intercambiabile in merito ai dischi dei Mastodon da Blood Mountain a esser buoni. Ma il gruppo è figo, piace a tutti e dal vivo spacca. E il batterista, non mi fare manco iniziare sul batterista dei Mastodon etcetera. Il problema che hanno i Mastodon è che come gruppo non traboccano proprio di pezzi, per così dire: si sono inventati una buona linea di condotta (tipo facciamo heavy metal normale però suonato come se suonare heavy metal normale avesse un senso, il che tutto sommato all’epoca era pure un concetto innovativo) e l’han portata avanti con tanta fierezza e tanto incazzo, buttando in mezzo tanti di quei riffoni che ancora quando metti Remission e al limite Leviathan i vicini vengono a bussare con una roncola in mano*. Va bene, insomma. Però non hanno i pezzi. Nel disco precedente, quello dove cantava Paperino, era un problema drammatico perché se NON hai i pezzi e uno di quelli che cantano ha quella voce lì sembra che lo stai facendo per il LOAL e/o per vedere quante sono disposte a prenderne su i tuoi fan. Questo disco qua corregge il tiro ma non guadagna in tiro. Non molto. Un po’. Per dire, lo stesso giorno esce un disco nuovo dei Machine Head. I Machine Head fanno tristezza da Through The Ashes of Empires, e hanno rincarato la dose con The Blackening (nessuno dei due fa proprio VOMITARE, diciamoci la verità, ma sentire i Machine Head ributtarsi su roba alla Burn My Eyes dopo aver fatto Supercharger e quello prima fu davvero una cosa che sgonfiava le palle). Oggi stanno provando a uscire dall’impasse senza che nessuno si aspetti più nulla da loro, eccezion fatta per quelli che li vedono dal vivo (sono ancora bestiali, Robb Flynn continua a urlare anche nelle pause tra una canzone e l’altra) e certi osservanti del metal che ancora pensano Roadrunner possa fare uscire dischi fighi. Paradossalmente, il nuovo disco dei Machine Head è una roba che li mette in fila. Davvero, non c’è piaggeria in questa cosa che dico –ammesso e non concesso che io sappia cosa dico quando dico “piaggeria”. Il nuovo dei Machine Head è una sborrata, un DISCONE. Avete presente i dischi fighi dei Machine Head? Guardano a cosa butta nel mercato in quel momento e ne danno una loro versione abbastanza ragionevole. Ora quindi han deciso di fare un disco un po’ mastodoniano mischiato a cose thrash metal slayeriane osservanti e ovviamente al modo in cui scrive Robb Flynn, che tutto sommato non è così differente da quel che era in Burn My Eyes e The More Things Change. Quello che rende Unto The Locust** un disco della madonna, in ogni caso, è il mondo che gli sta attorno: magari nel 2005 potevamo essere ancora schizzinosi e fare le pulci all’ideologia, oggi bisogna aggrapparsi a qualsiasi cosa PESTONA venga buttata sul mercato. E in più i gruppi con i pezzi sono sempre meno. Quindi dicevo appunto VAFFANCULO, il nuovo Machine Head è un disco PESTONE e c’ha I PEZZI. Il nuovo Mastodon, per dire, no. (al momento sto pensando tipo che non c’è niente di più suicida per un blog peso che dire che i Machine Head fanno il culo ai Mastodon).

*che è una cosa che non capita quasi più, praticamente ormai è pura nostalgia anni novanta. Ah, le musicassette. Ah, il festivalbar. Ah, i vicini che ti vogliono menare.

**l’abbiam detto in tempi non sospetti, nel 2011 arrivano le locuste e puliscono il melo.

Gruppi con nomi stupidi (honoris causa): PISSED JEANS (e il disco nuovo, e MTV, e tutta quella roba)

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King Of Jeans vede il quartetto sempre potente, la cui tensione è alle stelle“. Questo, che qualcuno potrebbe scambiare come l’apice dell’anticlimax in una recensione dell’ultimo Pissed Jeans buttata su Debaser tre mesi prima dell’uscita nei negozi da qualche analfabeta (ma magari), è scritto invece nero su bianco con rollover in rosso vermiglio sulla pagina di MTV che presenta il degno successore di Hope For Men -con tutta probabilità roba cacciata online in gran fretta da qualche schiavetto precario sottopagato di quelli che sono stati buttati fuori a calci in culo di recente. Ovviamente a farmi vomitare non è il pezzo in sè; intendo, se qualcuno vuol parlare di richiami a un suono votato alle rumorose e mai dimenticate esperienze firmate nel roster della mitica Amphetamine Reptile, per quanto io non sappia cosa significhi firmare un’esperienza e AmRep sia la cosa più dimenticata del rock degli anni novanta a cui riesca a pensare in questo momento, è liberissimo di farlo. Quello che mi prende male è il fatto che viviamo in un universo nel quale è possibile trovare il nuovo disco dei Pissed Jeans in streaming integrale nel sito di un network il cui principale punto di forza è la capacità di barcamenarsi egregiamente tra populismo, baci e abbracci, musica di merda e Carlo Pastore (ok, ce la fa benissimo anche Rockit) e nessuno nel gruppo o in Sub Pop ci trovi niente da ridire. Sta di fatto che lo streaming integrale mi permette e/o impone di segnalarvi che il nuovo disco dei Jeans Pisciati è davvero piuttosto bello, roba che vi piacerebbe tenere in macchina se siete tra quelli che credono che la joint-venture tra Henry Rollins, Chris Haskett e Theo Van Rock ce l’abbia mandata giù il cristo in segno di perdono per i peccati dei nostri padri. E vi dà la possibilità di ascoltare gratis e legalmente quella che è già -definitivamente- la canzone dell’anno 2009, una cosina di sette minuti intitolata Spent: chitarre acide, breakettoni alla Killdozer e testo stupidissimo, sostanzialmente la Gun In Mouth Blues dei Pissed Jeans. Io solo oggi l’ho sentita tredici volte. E nel caso non vi piaccia, avete comunque la possibilità di vincere -grazie al dentifricio- due backstage pass per l’MTV Day di Genova. Il che mi mette in condizione di segnalarvi il “solito” concomitante appuntamento all’XM24 con il festival più figo d’Italia AKA AntiMTVday. Quest’anno Putiferio, Squadra Omega e altra gente figa.

Peter Mangalore – Decay of the Iron Man

COVER 

Peter Mangalore era un compagno di classe di Bukowski alla scuola media Mt. Justin. Aveva l’uccello lungo trenta centimetri, a riposo. Questa sua peculiarità viene citata più volte tra le pagine di “Panino Al Prosciutto”, amaro romanzo di formazione sui primi vent’anni di vita dell’alcolizzato di Andernach. Peter Mangalore era anche il più indisciplinato di tutto l’istituto: aveva collezionato 500 demeriti quando, se se ne avevano più di dieci e non li si scontava, non ci si poteva diplomare. Un giorno la compagna di classe Lilly Fischman (una che a undici anni era stata sverginata dal proprio padre), decide di provare il mostruoso uccello di Peter Mangalore, che misura trenta centimetri, a riposo. Si danno appuntamento dietro la scuola, dentro una macchina sfasciata a cui Pop Farnsworth, l’insegnante di applicazioni tecniche, aveva fatto togliere il motore; ma Peter è teso, ha paura che qualcuno li scopra, e non riesce a farlo rizzare completamente… I californiani Peter Mangalore devono aver pensato a questo episodio quando si trattò di decidere la scelta del monicker e del titolo da dare al loro primo e unico cinque pollici, “Decay of the Iron Man“, stampato in mille copie nel 1998 dalla conterranea Deep Six e andato ben presto esaurito. Non bastasse, il primo pezzo si intitola Disqualified as a Human Being, tanto per rincarare la dose. Il cortocircuito, per chiunque si ricordi chi fosse e cosa facesse quel Peter Mangalore, è devastante. Per tutti gli altri, rimane comunque una bella gragnuola di schegge implacabili di sano e robusto powerviolence come si faceva una volta, con gli Spazz come numi tutelari e la durata massima di un pezzo che non raggiunge il minuto (cinquantacinque secondi, per la precisione: è la seconda traccia, Eternal Life In Return of Obediance, non lo diresti mai, una furente disamina sui dispiaceri del Cristianesimo). Il disco è introvabile da anni, ma col tempo ha guadagnato una minuscola aura di culto e ogni tanto qualche scervellato con un senso dell’umorismo da potenziale serial killer rispolvera la sua copia, esegue un bel vinyl rip e lo sbatte su Internet. Questa cosa accade ciclicamente. Nota per i completisti: esiste anche un Peter Mangalore dj – base a Manchester, predilezione per le sonorità acid-techno da rave illegali stile Inghilterra primi anni novanta – segno evidente che il culto di Mangalore (e della sua nerchia asinina) è ben lungi dall’estinguersi.