Bob Mould – Silver Age (Edsel)

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La storia di Bob Mould è costellata di episodi nefasti molto più imputabili all’indifferenza (o all’aperta ostilità) di pubblico e critica nei suoi confronti più che alla qualità dei suoi dischi. Negli ultimi quindici anni il chitarrista degli Husker Du ha continuato a far uscire dischi brutalmente sinceri e onesti (e imperfetti) e a suonare dal vivo un ragionevole mix tra nuovo materiale e classici immortali per accontentare il proprio pubblico. Fa piuttosto specie vederlo tornare in pompa magna con un disco che fin dal titolo (Silver Age) richiama esplicitamente un ritorno al suono degli Sugar.

Negli ultimi due o tre anni l’unico canone critico che persiste in un’analisi globale è raschiare il fondo: ci si muove ripescando quelli che non erano stati ancora ripescati (tipo, non so, i Simple Minds) e si saluta come fosse il massimo dell’avanguardia roba che pesca metà del suo immaginario da dei videogame di seconda passati di moda a fine anni ottanta. Fa specie ritrovare un Bob Mould copertinato e intervistato nelle più grandi riviste italiane dopo anni e anni in cui i suoi dischi sono stati sbertucciati a spron battuto da quasi chiunque.

La chiave è sempre più o meno archiviabile alla voce retromania. Anni di concerti che dir carbonari è poco (il suo primo tour italiano dai tempi degli Huskers fu salutato da una quarantina di persone a data) e Mould si ripresenta in spolvero: concerti con i New Age ad accompagnarlo, ritorni con la band performing Copper Blue e un disco di rock tirato anni novanta. A volte basta quello. Gli Sugar avevano un problema fondamentale: non erano gli Husker Du. Silver Age, a tutti gli effetti come già accennato un disco degli Sugar (o di quella roba lì comunque: Weezer, Posies, chitarroni aperti anni novanta col pelo e melodie prendibili senza necessariamente voler passare per punk), ha il problema di non essere il precedente Life and Times. Life and Times, un titolo tra i tanti crocifissi nella sala mensa dei giornali e dei siti bene che non gli perdonavano la patina da dischetto american rawk da colonna sonora di Dawson’s Creek, era un lavoro di un’onestà e di una maturità devastanti, anni luce avanti ad ogni suo pubblico possibile. Silver Age cerca di farsi in pari: un piede sul freno e l’altro sul pedale della chitarra, canzoncine illuminate da una strana luce e non così buone come già solo due anni fa. Va benissimo: Silver Age è tutto fuorché un disco “brutto”, e l’onestà e il cuore dell’uomo qui dentro non sono mai stati in discussione. La mia speranza, nemmeno troppo mascherata, è che abbia una cassa di risonanza sufficientemente potente da mettere in crisi l’astio e l’indifferenza degli stronzi e riporti Bob Mould in qualche club italiano con trecento persone in lacrime sotto al palco quando inizia Celebrated Summer. Che questo è ancora qualcosa a cui penso e mi si bagna l’occhio. Per tutto il resto, Silver Age è un disco di quelli che non lasciano spazio a dubbi né tantomeno a certezze. L’avesse messo insieme un Rivers Cuomo sarebbe stato messo in croce; per un bizzarro scherzo del destino l’ha inciso Bob Mould mentre lo stavamo ripescando. A chi continuasse a chiedersi che ci fa sulla copertina di Blow Up, la risposta più giusta è anche la più triste: tutti gli altri eran già stati ripescati e –assodato che gli Huskers non si riuniranno mai- non ha senso tergiversare oltre.

362 giorni e gli Husker Du.

Sembra strano come le cose che aspetti da una vita possano capitare tutto d’un tratto, nel giro di nemmeno un anno. Attendi quieto il momento opportuno lasciando scorrere grevemente gli anni, invecchi, diventi grande, perdi i capelli e le speranze di quando eri giovane e la vita ti sorrideva ogni giorno. Crescere significa in fin dei conti morire piano piano, prima del tuo corpo cominciano a marcire le utopie e i desideri che ti eri creato, il mondo come lo conosci dentro la tua testa si sfalda piano piano lasciando il posto alla vita vera, quella da adulto che non è mai, in nessun caso, quella che avevi progettato.
Se non ti arrendi all’evidenza delle cose però qualcosa rimane sempre. Le passioni, per esempio, sono le poche cose che ti tengono legato per sempre agli anni migliori della tua vita (si beh, non pensavate certo che avrei rinunciato ad infarcire di citazioni st’accozzaglia di pensieri in semilibertà, vero?), come i rampicanti sui muri di casa ciclicamente si ripropongono e fioriscono ammantando tutto te stesso come, appunto, quando avevi 15 anni ed ascoltavi musica tutto il santo giorno infischiandotene dello studio, quando speravi che un giorno saresti riuscito a vivere davvero nonostante la tua propensione all’autodistruzione. Gli Husker Du sono una di queste passioni, nata prestissimo, probabilmente quando neppure mi erano spuntati i peli sul pube. Conoscere un gruppo, che diventerà il gruppo della tua vita o giù di lì, appena due anni dopo il suo scioglimento è piuttosto mortificante per un bambino di 12 anni. Quando comincerai a capire, due o tre anni dopo, come funziona la vita dell’indie-kid, prenderai coscienza che il gruppo in questione dal vivo non lo vedrai mai. Quanto dolore nell’adolescenza di ognuno di noi. Nel caso di specie a corroborare l’ipotesi del live negato ci sta pure l’odio malcelato tra le due entità fondanti del gruppo e la nuova attività del terzo membro (ahahaha ridete), ormai deciso a far felice la gente cucinando deliziosi piatti di minestra e non più suonando il basso. Continua a leggere