Questa sera all’XM24 a partire dalle 22 DeZafra Ridge + Moro Moro Land + Architecture Of The Universe. Esiste un modo migliore di passare il lunedì sera in zona? Non che io sappia… Mercoledì 24 i Mother Propaganda presentano il loro album a MeryXM (Qui i dettagli), e sarà allora che le nostre teste esploderanno… Si passa direttamente a sabato con il massacro dell’anno, del decennio: trovate il flyer qui sotto, non ci sono parole, non ci sono parole… E domenica il bis: stesso posto, stessa ora, Heartless + Left In Ruins + You Suck! + Lamantide. Si fa in tempo prima anche a passare al Modo Infoshop per la presentazione della ristampa delle prime cose dei Negazione (Qui tutto quel che c’è da sapere)… Avete date da segnalarci? L’indirizzo è il solito: lagendinadeiconcerti(at)gmail(dot)com…
Archivi tag: I wanna give devotion
…e allora canta!
Essere pieni di sé – non nel senso dell’orgoglio, ma della ricchezza –, essere travagliati da un’infinità interiore e da una estrema tensione significa vivere con una tale intensità da sentirsi morire di vita.
(Emil Cioran, Al culmine della disperazione)
Grandi cuori prossimi al collasso. È una vertigine E allora canta!, il brano che apre Unica, l’ultimo album di Antonello Venditti, ufficialmente nato sull’onda delle proteste di ricercatori e precari sui tetti della facoltà di Architettura a Roma, in realtà parte di un totale ben più ampio: è l’attimo cristallizzato ed espanso per cinque minuti e rotti in cui il groppo in gola si spezza, la faccia si disfa e ogni possibile argine di autocontrollo viene spazzato via per lasciare il campo al pianto incontrollato. È l’esatto istante in cui l’emotività nella sua dimensione più pura prende il sopravvento su tutto e reprimerla diventa uno sforzo insostenibile, ultraterreno, e grosse e rotonde lacrime sgorgano finalmente libere a bruciare le guance. Un attentato al sistema nervoso, il più grande monumento all’immenso potere lenitivo del pianto che l’Orso Bruno sia riuscito a edificare dai tempi di Che fantastica storia è la vita (il pezzo, era il 2003), e prima ancora da chissà quanto, bisogna tornare agli anni ottanta probabilmente. Un totem. Ogni parola al posto giusto, ogni nota a colpire lì dove fa più male, a scavare nell’anima con la stessa facilità con cui una trivella perforerebbe un panetto di burro, con la precisione del più spietato dei cecchini e una maestria nell’individuare le leve giuste per scardinare un cuore che non ha eguali in Italia e pochissimi al mondo; nessuna affettazione, nessuna mediazione, nessuna posa, Antonello è a tutti gli effetti uno di noi, è per questo che E allora canta! fa così male, perché le stesse parole in bocca a chiunque altro suonerebbero fasulle, derisorie, insopportabilmente retoriche, e invece qui è come offrire un bicchiere d’acqua a un annegato. La dimostrazione intercettata per puro caso una domenica sera, Antonello ospite a Che tempo che fa, completamente a tradimento, il groppo in gola che sale inesorabile, la certezza che sarà così per tante altre volte ancora, tant’è che anche oggi dall’uno-due iniziale di Unica non si riesce a uscire indenni.
Tanto se ribeccamo: KAOS
Per Dargen D’Amico il rap è fare finta che domani muori; per Kaos invece è morire ADESSO, in ogni istante, e per davvero. Capisci? È sempre stata questa la differenza. Non avere alternative, giocarsela fino in fondo, fino alla fine, senza un altro posto dove andare, senza un piano B. Poi certo è anche una questione di stile, ma quando sono le tue stesse budella che metti sul piatto senza ripensamenti è raro che sbagli, e se non altro puoi riuscire a sostenere lo sguardo quando vedi la tua immagine riflessa allo specchio – per quanto sia un modo di vivere che spesso possa portare e abbia portato a contraccolpi psichici devastanti. Ritrovarsi nei testi di Kaos significa rivivere ogni mazzata presa, ogni momento brutto, ogni rospo ingoiato, ogni volta che i secondi diventano millenni e fino all’ultimo degli attimi in cui si è stati nudi e inermi di fronte all’immane crudeltà dell’universo, il tutto amplificato per svariati miliardi di megatoni. Difficile pensare a qualcosa di altrettanto vero, non solo in ambito hip hop; forse giusto il sangue quando esce ad altezza polsi, a volte nemmeno quello. Doveva essere il suo ultimo disco Karma, l’album dell’addio alle scene, un estremo contributo alla scienza doppia h e poi levarsi dal cazzo con dignità immutata, lasciare infine che il microfono se lo litighino i vari intercambiabili turisti del flow e dell’umano, lavarsene pilatescamente le mani dopo oltre vent’anni di lotte contro i mulini a vento, perle ai porci e lacrime amare. Ma non si può negare la propria stessa natura e pretendere di sfangarla, sarebbe come dire da domani smetto di respirare: impossibile. E infatti Kaos non se n’è mai realmente andato, continuando negli anni a portare in giro il suo show, un irriferibile stream of consciousness di introspezione brutale dove si intersecano senza soluzione di continuità pezzi che sono chiodi nella carne per chiunque abbia saputo confrontarsi con la vita senza riserve, ogni tanto alternando ai live anche qualche djset confidenziale, lui comunque un faro per chi con la musica intrattenga rapporti che vadano un minimo oltre la semplice conoscenza. Nella seconda metà del 2010 le ristampe in CD di Fastidio e L’Attesa, entrambi introvabili da anni, sono qualcosa di più di un atto dovuto; oltre a dare a Cesare parte di quel che è sempre stato di Cesare, innescano un processo di storicizzazione del personaggio indispensabile soprattutto per chi quegli anni non aveva potuto o voluto viverli, per limiti anagrafici o chissà che altro – certo altri pilastri importanti mancano ancora all’appello (Merda & Melma, Neo Ex, per non dire dei featuring che sono parte del discorso almeno quanto la discografia ufficiale) – di fatto alimentando le speranze di una futura rentrée dell’uomo anche alla luce dei vari inediti proposti di volta in volta nei live più recenti, sorta di work-in-progress di pezzi che già si intuivano almeno di pari livello quando non superiori alle vecchie cose. Dottor K e Le 2 Metà le pugnalate più ferali, il primo una sorta di seguito apocrifo di Cose Preziose (“A 16 anni stavo messo male/ Vent’anni dopo: messo uguale/ Stesso antisociale“), la seconda qualcosa di molto vicino al concetto di canzone d’amore definitiva, in entrambi i casi materiale pericolosissimo, roba che ridurrebbe a brandelli una mandria di bisonti se solo i bisonti sapessero l’italiano. Lo scorso 11 novembre ecco dunque Post Scripta, titolo e copertina che nuovamente giocano con il messaggio di addio alle scene in maniera sempre più insistita e funereamente esplicita, in pratica un ‘al lupo’ a cui si spera nemmeno Kaos stesso creda più; otto pezzi per poco meno di venticinque minuti di pugni al cuore che per la prima volta in una carriera che ha da poco oltrepassato il quarto di secolo potrebbero effettivamente raggiungere più orecchie del necessario, grazie anche a un’esposizione mediatica esorbitante per gli standard a cui l’uomo ci aveva abituato (cioè niente di niente o quasi). Fa strano vederlo gesticolare nel primo videoclip della sua storia (non si contano i Radical Stuff e le partecipazioni ai video di Neffa e OTR), o ascoltarlo aprirsi ai microfoni di Carlo Pastore su Radio2, e non certo per improponibili baggianate “noi vs loro” in questo caso mai altrettanto inappropriate, di fatto il Don non deve dimostrare nulla a nessuno, quanto perché, citando alla lettera un commento apparso su youtube: Non è fatto per luci e telecamere, lui non se fotte veramente un cazzo di convincerti, lui non vuole piacerti, a differenza di tutto il resto dei burattini stereotipati con cui è costretto ad essere messo a confronto lui sta da n’altra parte, è n’altra pasta, n’altra stoffa, n’altra musica, non cambia identità in balia di mode e canoni, lui sta lì e ti racconta le sue storie, con i suoi tempi e il suo modo freddo e perforante di farlo.
Non è maestro di nulla, ma può insegnare molto a tutti.
Dischi stupidi: Seeking Major Tom
Se ci sia o ci faccia ormai non ha più importanza, ammesso che ne abbia mai avuta: a ottant’anni compiuti, più di due terzi dei quali spesi a intrattenere alla grande miliardi di esseri umani soprattutto via tubo catodico (ma senza disdegnare fulminee incursioni nel mondo del cinema, della musica registrata e dell’editoria), William Shatner può permettersi qualunque cosa. Anche di uscirsene con un triplo concept/cover album tra i più balzani, sconclusionati, improbabili e farneticanti di sempre per un’etichetta nota ai più come dispensatrice di metallaccio di ultim’ordine, punk orribile e rockettaccio gotico per tamarri di periferia in anni in cui portavamo ancora i calzoncini corti; Cleopatra Records era il marchio che associavo ai dischi brutti dei Christian Death, al limite a qualche ciofeca random con ragnatele e tizi truccati da puttana in copertina, comunque roba da evitare come la peste se non volevi sprecare i soldi quando i dischi ancora si compravano; oggi, non so se è più forte l’effetto nostalgia provocatomi dall’aver rivisto un logo che credevo sepolto per sempre nei recessi più inutili della mia memoria o lo sgomento di fronte a un disco che travalica di diverse galassie il concetto di so bad it’s good, disintegrando in un sol colpo intere gerarchie di abbruttimento, rimodellando di fatto nuovi standard in termini di perturbante e gratuito, e rendendo ogni possibile termine di paragone una stronzatina assolutamente normale e nemmeno divertente. Seeking Major Tom è, nei fatti, una raccolta di cover di brani spesso famosissimi riassemblati e in qualche caso riadattati (cambiando gli arrangiamenti o perfino alcune linee di testo, alla maniera degli Slayer di Undisputed Attitude) in modo da delineare una continuity che sta tutta nella testa di Shatner, una storia vera e propria con un inizio, uno svolgimento e una fine, protagonista il “maggiore Tom” del titolo, che assurge a vita propria prendendo le mosse dal pezzo di David Bowie via il seguito apocrifo di Peter Schilling e si muove nel tempo e nello spazio attraversando – in ordine sparso – U2, Steve Miller Band, Deep Purple, Elton John (Rocket Man, c’era da chiedere?), Thomas Dolby, i Police (indovina? Walking on the Moon), Norman Greenbaum, i Queen, naturalmente gli Hawkwind, K.I.A. (robaccia famosa solo in Canada), The Tea Party, perfino Frank Sinatra (e non Fly Me to the Moon ma la sua versione di Lost in the Stars di Kurt Weill), Pink Floyd, Byrds, Golden Earring, Black Sabbath (Iron Man, agghiacciante) e Duran Duran (coerentemente, Planet Earth), il tutto rivisitato per l’occasione da un esagitato Shatner, convinto di stare recitando il ruolo della vita in una cornice che più camp non si potrebbe; roba che al confronto l’opera omnia di Meat Loaf diventa il demo autoprodotto di una cover band dei Discharge. Lo stuolo di ospiti poi è qualcosa di inimmaginabile, da Michael Shenker a Wayne Kramer, da Bootsy Collins a Lyle Lovett, da Peter Frampton a Dave Davies passando per Sheryl Crow e Zakk Wylde, e verrebbe da riportare per intero la lista dei guests tanto non ci si crede. L’insieme è impossibile da raccontare a parole, bisogna passarci in mezzo; per meno di 24 ore l’album è stato in streaming integrale su Soundcloud ma ora la pagina sembra sia stata rimossa o qualcosa del genere. L’edizione in doppio CD sta a quattordici dollari su Amazon americano e potrebbe essere il miglior regalo che decidiate di farvi così come una valida alternativa alla lobotomia frontale (e non è detto che i due concetti debbano escludersi a vicenda); io, è da un paio di giorni che sto pensando a come uscirne. Non è che abbia ottenuto buoni risultati finora, anzi.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 3-9 ottobre 2011
Che io sappia oggi di concerti in giro manco l’ombra, però all’XM24 riparte il cinematografo, ogni lunedì dalle 20.30 in sala visioni doppia proiezione grindhouse-style e il programma sembra figo, almeno a giudicare dal cartellone di stasera: Enter the Void, viaggione tossico visionario trascendente e allucinatorio del controverso Gaspar Noé (comunque Seul Contre Tous è e resta il Vangelo dei dissociati), ad oggi inedito in Italia, chi l’ha visto ne parla come di un’autentica tortura per gli occhi con mitragliata di inquadrature allucinanti e orgia di colori fastidiosi che Speed Racer al confronto diventa un filmetto in bianco e nero, e a seguire Wristcutters di cui non so nulla a parte che ha un bel titolo e dentro c’è Tom Waits. Domani quale modo migliore per festeggiare San Petronio (per chi ci crede) se non un secret show nei dintorni di Bologna? Fatevi servire: Pretty Little Flower (da Houston, powerviolence alla vecchia con il batterista degli Insect Warfare) + Tinner (svedesi, black metal crust marcissimo), ingresso a pochi spiccioli, la compagnia di persone con gli stessi interessi. Per informazioni: blackmoss@libero.it e/o 320 2315886. Mercoledì è IL GIORNO: Melvins all’Estragon, e si torna a Celebrare (dalle 20.30, diciotto euro); la barzelletta che non fa ridere è che di spalla ci sono i Verdena il che porterà troppi mocciosi subnormali a succhiare via il nostro prezioso ossigeno ma sticazzi, al cuore non si comanda. Giovedì probabilmente saremo da qualche parte a fissare una parete con i timpani perforati e un mal di testa che proprio non vuole smettere, per i più coriacei c’è Vic du Monte al Sidro Club a Savignano, per tutti gli altri un TIR di aspirine e un consulto prenotato all’Amplifon. Venerdì fiori nei capelli al Covo con Gli Avvoltoi (prima c’è Luca Frazzi che presenta il suo libro sul Festival Beat, al solito non si sanno orari né prezzo) oppure polvere da sparo tra le dita e Chinamartini nelle budella al Locomotiv coi Calibro35 (dalle 22.30, otto euro più tessera AICS), sabato per ora non so di altro a parte i Symphony X al Velvet e domenica un cazzo proprio, se salterà fuori qualcosa non tarderanno aggiornamenti.
una per Keith Caputo che sta cambiando sesso.
I Life Of Agony erano un luogo della mente dove mi rifugiavo ogni volta che stavo male e sapevo e sentivo che nell’immediato futuro sarebbe andata ancora peggio. Non so cosa avesse fatto scattare l’empatia (il fatto che condividessero il batterista con i Type O Negative probabilmente ha aiutato), ma quei quattro italiani bruttissimi capitanati da uno gnomo che assomigliava tanto a un galoppino mafioso preso male erano entrati nella mia vita come una coltellata nella pancia, e non ne sarebbero mai più usciti. Musicalmente erano un incrocio tra hardcore, metal, dark e sludge mai sentito prima né tantomeno poi; nei momenti veloci pareva di essere finiti in mezzo al pogo più violento e cattivo del mondo con la certezza che il soffitto sarebbe crollato da un momento all’altro, in quelli lenti era come farsi succhiare via il sangue da un’aspirapolvere mentre un rullo compressore ci sbriciolava gli ossicini. Il primo disco, River Runs Red (1993), è un concept sul suicidio; gli interludi Monday e Thursday sono registrazioni di messaggi dalla segreteria telefonica del protagonista, viene lasciato dalla ragazza e licenziato dal lavoro, in Friday – la traccia conclusiva – si ammazza. Nel mezzo alcuni tra i pezzi più dolorosi di sempre, indipendentemente da generi musicali e gusti personali di sorta; in pratica è l’esorcismo privato del bassista e paroliere Alan Robert, figlio di divorziati, il padre alcolizzato violento che gli menava. Al microfono c’è lo gnomo triste di cui sopra, Keith Caputo, un altro che quanto a infanzia disastrata non scherza manco per il cazzo (orfano a un anno, madre morta di overdose, padre mai conosciuto): la sua voce, un lamento carico di rabbia o l’urlo più triste del mondo a seconda di come consideriate il bicchiere (che comunque è sempre mezzo pieno ma di lacrime, per citare il poeta), è quel che rimane impresso più di ogni altra cosa, più ancora della musica, che è quanto di meglio il gruppo scriverà mai. Per il successivo Ugly (1995) la stesura dei testi viene divisa 70/30 tra Robert e Caputo, i tipi sì che ne hanno viste: i primi cinque pezzi in blocco sono roba da stendere un elefante. Seasons, I Regret, Lost at 22, Other Side of the River, Let’s Pretend (primo dei sei miliardi di pezzi di Caputo dedicati alla madre morta) toglierebbero la voglia di vivere anche al più arrogante fottuto pornodivo miliardario sulla faccia della Terra. Rapidi colpi di rasoio sulla carne viva come diceva Tamburini, impossibile azzardare un paragone che non implichi il concetto di soffrire gratis come cani senza alcuna speranza di riscatto. Il resto del disco non è altrettanto buono, ci sono anzi un sacco di filler orrendi (inclusa una cover al di là del bene e del male di Don’t You (Forget About Me) posta in chiusura) ma sticazzi, i Life Of Agony la loro storia l’hanno già scritta, marchiata a fuoco per sempre nei cuori dei deboli e degli umiliati. Soul Searching Sun (1997) è UNA MERDA. Spazzatura alternative rock (erano gli ani novanta, questa definizione aveva un senso) da far vergognare la più infima delle band da classifica generalista di allora e di sempre, un susseguirsi inesorabile di pezzi insulsi il cui vuoto pneumatico emerge in maniera anche perturbante; l’ansia di non avere un cazzo da dire. Unici momenti da salvare Weeds (comunque una cosetta rispetto alla roba vecchia) e le bonus tracks incluse nella versione digipack (a spiccare una rendition triphopeggiante di Let’s Pretend che in piena notte con un cannone gargantuesco è la morte sua). Nel mezzo del tour però Caputo lascia adducendo scuse, e il gruppo momentaneamente si sfalda; dovevano venire anche a Bologna, al Covo, a fine ottobre ’97, un trauma dell’abbandono che non ho mai superato. Rientrano in pista l’anno dopo con il sostituto più improbabile che si potesse immaginare: l’abbronzato Whitfield Crane dei relitti “divertenti” Ugly Kid Joe. Tempo un paio di tour e fortunatamente capiscono che non è cosa. Nel frattempo esce la raccolta di demo e B-sides 1989-1999, che contiene probabilmente il pezzo migliore mai scritto dai Life Of Agony, Coffee Break: cercate di procurarvelo a ogni costo, fosse anche l’unico loro brano che ascolterete mai. (Continua a leggere)
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 8-14 agosto 2011
E arrivò finalmente il giorno di Cyco Mike Muir in città. E poco importa se della formazione originale è rimasto solo lui, se i dischi del periodo metal sono stati brutalmente rinnegati manco fossero porcate di cui vergognarsi alla Grave New World, se Rocky George è uscito dal gruppo ormai da eoni e non accenna a rientrarci, se l’ultimo disco meritevole è del 1994 e tanto Love vs. Loneliness non la faranno mai, se da una decina d’anni abbondante Muir campa di rendita sui vecchi classici reincisi fino allo sfinimento e – last but not least – se il concerto è appena fuori dall’Emilia Romagna (quindi tecnicamente non dovremmo nemmeno segnalarlo all’interno della vostra rubrica preferita) e tocca pure rassegnarsi al fatto che suoneranno di spalla a dei vecchi di Los Angeles: i Suicidal Tendencies sono tra le poche ragioni per cui stare al mondo possa diventare qualcosa di anche solo lontanamente tollerabile e sensato, e certe cose non si discutono, sono vere e sante e basta. L’antipasto è per stasera a Carpi con sessione di autografi molesta e spoken word di Mike Muir su quanto è bello andare in skateboard (suo fratello era uno degli Z-Boys), nel pomeriggio grigliata e contest per i maniaci della tavola con quattro ruote sotto; tutti i dettagli Qui. Per martedì invece l’appuntamento è al Mamamia di Senigallia a partire dalle 20, il prezzo per entrare a Celebrare trentatré euro, come gli anni di Cristo. Mercoledì c’è di meglio da fare che guardare le stelle: Dillinger Escape Plan al Rock Planet (dalle 21, venti euro) oppure i thrashers israeliani Turtles pilotati Mondo Gecko in prima data unica italiana al Nuovo Lazzaretto (di spalla Ural + guests, dalle 22, prezzo ancora ignoto). Giovedì un cazzo di niente. Venerdì come quasi ogni anno da un po’ di anni a questa parte arrivano gli Oneida al bagno Hana-bi (gratis, dalle 21.30); volumi altissimi e camicie hawaiiane orribili, peccato giusto che per Sheets of Easter tocca aspettare i bis. Gran finale sabato alla festa del PD a Portomaggiore con megacombo ultrapunk da far crescere la cresta verde anche a un celerino: GBH e Impact gratis dalle 21.30, courtesy of Gigi Bersani & amici, e quasi viene da votarli.
Tanto se ribeccamo: MORBID ANGEL
Quanto è brutto l’ultimo dei Morbid Angel? Talmente brutto da ridefinire fin dalle fondamenta il concetto stesso di brutto, talmente brutto da mandare in paranoia il sistema nervoso centrale. È così brutto che tentare di descriverlo sarebbe una sfida persa in partenza anche se questa fosse una recensione in odorama regolata su Napoli in una giornata particolarmente arrogante. Nemmeno a mettercisi d’impegno, nemmeno a radunare i cervelli più sopraffini del pianeta e chiuderli in una stanza tutti insieme tutti uniti nell’obiettivo di realizzare scientemente il disco più brutto della storia si sarebbe arrivati ai risultati strabilianti raggiunti in Illud Divinum Insanus, ineffabile fin dal titolo, parole a caso in un latino da bocciatura immediata al CEPU senza passare dal via. Una bruttezza talmente radicata e irredimibile da ipnotizzare; si rimane rapiti da Illud Divinum Insanus, incapaci di distogliere lo sguardo come davanti all’abisso, come di fronte all’opera d’arte più atroce e degradante mai concepita da intelletto umano. I film di Cavallone? Roba da mammolette. I dischi di Vagina Dentata Organ (o di Michael Bolton, o dei Backstreet Boys)? Cazzatelle da turisti dell’abbruttimento. Il programma di Sgarbi? Alta televisione da mandare in sollucchero il Bernabei degli anni d’oro. E così via: qualunque picco di aberrazione, devianza mentale e puro e semplice orrore possiate immaginare, i Morbid Angel l’hanno sfondato e oltrepassato di diverse lunghezze. È un delirio hughesiano Illud Divinum Insanus, volontà di potenza però sbagliata allo stato puro, schemi elementari reiterati con coazione a ripetere snervante, jeffreydahmeriana, da mandare via di testa il più duro e puro dei minimalisti della vecchia, ma anche insensate architetture mezzo Sant’Elia mezzo barbone pazzo mezzo diekrupps mezzo gorilla lobotomizzato calate in una wasteland lovecraftiana a dir poco agghiacciante, la macchina da guerra più letale e distruttiva del mondo con un troglodita ai comandi, colpi a vuoto, i suoni che potreste sentire lanciati in mezzo alla pista vuota nella parte più recondita della vostra testa nel pieno di una giornata inaffrontabile, figure death metal di cartapesta da sagra paesana, una produzione che al confronto i primi scazzi con GarageBand diventano roba da Phil Spector, e poi Vincent e Azagthoth liftati e freschi di permanente grondante black #1, il torso glabro, l’ombelico volitivo e due ragazzini (tra cui un mezzo cinese androgino bruttissimo) che fissano l’obiettivo in cagnesco con occhi cisposi… Non ci sono parole, non c’è altro da dire. Il rispetto, già di per sé infinito, aumenta esponenzialmente.
L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 13-19 giugno 2011
Devastato dalla notizia della morte di Seth Putnam e dall’ansia pre-quorum ieri all’agendina dei concerti non ci ho nemmeno pensato; oggi imparo che c’erano i Cinderella all’Estragon (trentacinque euro), ma tanto chi ascolta i Cinderella difficile che legga bastonate, e comunque grazie a Dio gli anni ottanta sono finiti (lo diceva anche Jovanotti). Questa sera gran scorpacciata post-metal al Blogos con The Ocean, Intronaut, Red Fang, Earthship, quelle belve dei nostri Murder Therapy e molto altro ancora; dalle 20 su due palchi, sedici euro. Mercoledì se non siete a vedere Stooges e Social Distortion in quella trappola per topi legalizzata in mezzo ai bauscia, c’è Eugene Chadbourne al bar della Montagnola (dalle 21), come a dire l’occasione di vedere Gesù Cristo con il banjo al collo; se invece non sapete chi sia Eugene Chadbourne, non oso pensare con quale aberrante chiave di ricerca siate potuti giungere fino a qui (comunque non troverete quello che cercavate). Per il resto MeryXM interlocutorio e scarica di elettrojazz al Bartleby (entrambi gratis dalle 20.30). Giovedì delirio post-qualsiasicosa all’XM24 con City of Ships (post-HC), Magdalene (post-HC pure loro), Valerian Swing (post-rock) e You, Me & The Coffin (post-punk, speriamo meglio del nome); dalle 22, quattro euro. Venerdì (17, grattatina di maroni di prammatica) non mi risulta niente di degno di nota, a meno che non consideriate Samuel Katarro (a Villa Serena), Cisco (a Ca’ de Mandorli) o Le Braghe Corte (al parco Dozza) degni di nota. Magari salta fuori qualcosa nel frattempo (speriamo). Ah, apre il Bolognetti. Sabato pomeriggio inaugurazione della mostra Vinile Futuro Anteriore con convegni e dj-set a tema, al Museo della Musica. Poi c’è una gran sbornia reggae al Parco Nord: Jah bless. Altrimenti gli OfflagaDiscoPax gratis al Bolognetti; per tutto il resto tocca emigrare. Domenica zozzume d-beat al Nuovo Lazzaretto con Slakattack, Reanimaniacs e La Prospettiva (dalle 22).
Se poi nel weekend siete in vena di gite fuori porta prendete in considerazione l’edizione 2011 della NO Fest a Torino, un sacco di gruppi pestoni e per i reduci la reunion dei Franti: ce n’è per tutti i gusti.
Badilate di cultura: The Ward
L’ultimo film di John Carpenter che ho visto al cinema è stato Vampires. Domenica pomeriggio, ottobre 1998, la scuola era ricominciata da poco. Lo davano al Fulgor, simpatico cinemino ubicato in una laterale di via Indipendenza sempre buia e umida estate e inverno, a fianco un albergo diurno abbandonato da horror coi matti, chiuso da quando ho memoria; forse anche per questo la sala era un grande ritrovo di dissociati, alienati e balordi più o meno autistici di ogni tipo. Anche quel giorno ce n’era uno: a cinque poltrone di distanza, occhiali, mezza età, pancione da scorpacciata di psicofarmaci, non la finiva mai di parlare al vuoto commentando ad alta voce i passaggi pregnanti, ogni tanto sparando battutine credo improvvisate sul momento, roba da fare impallidire Neil Hamburger e fornire materiale di studio per decenni a Vittorino Andreoli. Il mio amico Alessandro e io facevamo una fatica del diavolo a rimanere seri e silenziosi; non volevamo esplodere a ridere per non urtare la sua sensibilità, ma dentro avevamo l’inferno. Quando James Woods e il prete entrano nel covo del Maestro (una vecchia prigione disabitata), e il prete dice a James Woods che da ragazzino era campione di calcio all’oratorio (o qualcosa del genere), il borderline è sbottato con un’agghiacciante “FACCIAMO GOAL COL VAMPIRO”, agitando le manine e accompagnando la boutade (di cui andava probabilmente molto fiero) con un risolino stridulo da far accapponare la spina dorsale a un gorilla sotto steroidi. Io quella frase (e la risatina che è seguita) non me la dimenticherò mai finchè campo. All’uscita faceva fresco ed era già buio; le giornate si erano accorciate di quel po’ e avrebbero continuato a farlo, presto ogni ricordo dell’estate da poco trascorsa sarebbe sparito del tutto, schiacciato dal freddo e dalla brina e dai cieli sempre cupi e dalle lunghe mattine a scaldare il banco, a far finta di ascoltare fastidiosi ronzii che entrano da un orecchio ed escono dall’altro. Ma intanto Vampires mi aveva dato materiale in abbondanza per nutrire la mia fantasia per molti mesi a venire, forse per anni. (Continua a leggere)