Carlo Bordone

Mio fratello portava a casa le riviste di musica pescate a casaccio tra quelle generiche: Rumore e  Rockerilla soprattutto, Dynamo quando usciva, Rockstar, il Mucchio e tutto il resto. Leggevo i nomi dei gruppi e mi facevo le mappe mentali di cosa era figo e cosa no, voglio dire, mio fratello non aveva tutta ‘sta collezione di dischi e io scroccando dagli amici riuscivo a coprire metal, grunge e punk rock e morta lì. Leggere di tutta ‘sta gente figa mi ha costretto –molto prima di possedere un lettore CD- ad allargare la mia rete di contatti a cui poter far doppiare i nastri, a frequentare i negozi di dischi compiacenti il cui proprietario era disposto a doppiarti la cassetta dal CD in nero, a scambiare le cassette via posta eccetera. La stampa musicale era ancora un luogo pieno di bianchi e di neri, sfogliavi una rivista e venivi investito dall’idea che ascoltare un disco brutto potesse causare sensazioni davvero spiacevoli. Carlo Bordone scriveva di musica allora e continua ancora oggi a farlo. Questo potrebbe essere la prima intervista di una serie, che comunque immagino non avrà cadenza molto più che –boh- bimestrale. Le prime due domande servono a scaldarsi. Le foto sono per sfottere.

Quand’è che hai iniziato a scrivere di musica?
Come dicono le scrittrici esordienti del genere rosa, “ho sempre scritto”. In effetti all’università pubblicavo (ah ah ah) una fanzine che scrivevo e leggevo solo io. Si chiamava Tamalpais. Battuta a macchina, fotocopiata, tenuta assieme con la pinzatrice. Come tutti i fanzinari, mi sono messo a contattare etichette, distributori, band, e ovviamente non ho mai visto un promo che fosse uno. In compenso mi sono sparato grandi scambi epistolari con Jon Ponemann, Greg Ginn, Geoff Travis e compagnia.
A scrivere su un giornale vero ho iniziato nel 1996. Il giornale era “Rumore”. Già da un paio di anni trasmettevo su una radio torinese , Radio Flash, il cui direttore artistico era Alberto Campo. Facevo un programma con altri tre miei amici, ci chiamavamo Groovers. Con uno di loro (Pierpaolo Vettori) ho condiviso la stessa firma sul giornale per i primi due o tre anni. Prima recensione, un disco dei Posies. Prima intervista: i Guided By Voices. Tra le “guest star” del nostro programma radiofonico c’era anche il nostro amico Maurizio Blatto (che nel programma spacciavamo come Maurizio “Bacharach” Blatto, nipote di Burt ed esperto di gossip dell’alta società). Con lui abbiamo a volte scritto qualche pezzo a sei mani per Bassa Fedeltà, leggendario bimestrale garage/punk/r’n’r e costola di Rumore, diretto da Luca Frazzi: il capolavoro fu un’ode commossa a Franco Califano, redatta in tempi non sospetti.
Nel 2000, subito dopo un’intervista ai Marlene Kuntz nel bar della stazione di Cuneo (avranno portato sfiga?) me ne sono andato da Rumore per ragioni che ho dimenticato. Dopo essere transitato per un paio di numeri su Blow Up (credo che neppure SIB non se ne sia accorto) ho chiamato John Vignola, che conoscevo da qualche anno, per sapere se c’era la possibilità di collaborare sul Mucchio. C’era. Da allora non mi sono più mosso. Continua a leggere

RIFONDAZIONE INDIE ROCK

E insomma capita che il significato della parola indie ormai sia vacante. Siamo passati in mezzo a un lustro di fraintendimenti e situazioni ambigue, abbiamo continuato a fare come se niente fosse, a un certo punto qualcuno ha detto “sì però ai miei tempi non si usava” e siamo passati oltre, insomma. In qualche modo va fatto. Nel frattempo nel mondo fuori è successo che i gruppi portabandiera di quello che una volta non si sapeva come chiamare e quindi tanto valeva chiamarlo indie, insomma, loro stanno bollendo uno dietro l’altro e la gente guarda tutto con sospetto e senza partecipazione, le sensazioni pop dell’ultimo minuto nascono con l’odio del pubblico già stagionato e tutto è diventato hipster, scenester, ovviamente post, e adesso magari è un po’ maximal e un po’ no. Tutto quello che c’era fino a qualche anno fa, quelle robe stile i pezzettini tirati con la cassa dritta dei Modest Mouse e il dj anoressico con la maglietta a righe orizzontali che limona con la tipa che ti piace mentre la suona, sembra roba che andava durante la guerra fredda. O forse no, ma visto che la parola indie ormai fa schifo a tutti e non la usa più nessuno tanto vale che ce la riprendiamo e ricominciamo ad usarla per descrivere la musica che ci piace senza la paranoia d’esser fraintesi.

Venerdì sera il Bronson di Ravenna ha messo insieme una serata di indie rock normale. Abbiamo dato una mano anche noialtri. L’abbiamo chiamata RIFONDAZIONE INDIE ROCK. C’è solo gente che ci piace:

Raein

Gazebo Penguins

Distanti

A scelta nell’ordine. Poi se qualcuno rimane mettiamo su anche qualche disco, tutta roba che rompe il culo.

FUMETTI (grossomodo): Soglianois Festival, Sogliano, 16/07/2011

Soglianois
Fine Before You Came
Lemeleagre
Cosmetic
Be Forest
StereoFonica

altre cose di cui si parla:
raein
legno
serimal
minutemen
883

la tavola coi disegni originali invece è qui.

Piccoli fans: CRASH OF RHINOS

La prima volta che senti quei gruppi lì pensi che sia la cosa a cui Gesù stava pensando quando ha inventato l’elettricità. Ognuno naturalmente ha il suo preferito: Mineral, Van Pelt, Braid, Cap’n’Jazz e dio solo sa quanti ne potrei citare (non moltissimi, in effetti: la decina di nomi che mi è servita nel corso degli anni a non sembrare un completo ignorante in materia). Quello che è chiaro è che l’indierock va fatto in questa maniera qua: il suono come lo pensa Bob Weston, la musica scritta apposta per esser suonata ad alto volume, manco un secondo di mestiere o di intimità. Oggi uno si ferma un attimo e si ritrova con trentatrè anni in groppa, la pancia che sborda dai pantaloni, i debiti in banca e un problema con l’alcool. La musica che ascoltiamo oggi sta a quella di allora come la fotocopia della fotocopia della fotocopia della fotocopia della fotocopia della fotocopia sta all’originale con marca da bollo. Crash Of Rhinos invece esce con un disco pensato e realizzato per lasciare a bocca aperta un fanatico di emocore o indierock del ’98. Esce nel 2011, e per come girano le cose oggigiorno verranno seppelliti a forza di leak. Jacopo FBYC + Febio, nel loro blog, raccontano una possibile cronistoria del tutto. Aggiungono dettagli sulla musica, riferimenti a iosa e un camion di fotta (il resto non serve a molto). Se volete riferimenti cerco di ridurre il tutto a tre nomi: Mineral, June of 44, primi Soul Asylum. Funzionano bene solo se li combinate. Il bello dell’internet, comunque, è che potete skippare la parte in cui io cerco di darvi un’idea e passare direttamente all’ascolto con lo streaming su bandcamp, che se dio vuole riuscirò ad embeddare poco sotto. Probabilmente tra un po’ avrò cambiato idea, ma adesso come adesso ne sono convinto: lo stavo aspettando da almeno dieci anni. Il disco fisico esce su Triste.

STREAMO – il disco dell’anno scorso.

la più bella foto che ho mai visto in un sito (ribadisco).

Un po’ di cose le scrissi qui, mi va solo di aggiungere che Catch My Shoe è il disco che ho ascoltato di più e con più piacere nel 2010. Funziona in ogni contesto e spacca il culo a tutte le musiche del mondo di qualsiasi genere, volume, epoca e grado di indipendenza. Non stanca mai.

La storia di oggi, che poi in realtà è una storia di 21 giorni fa, è che il disco è in streaming su soundcloud, e se l’embed funziona lo potete ascoltare qui sotto. O in alternativa qui.









(via @Vitaminic)