È da qualche tempo che non riesco più a leggere o sentire la parola PUNK senza provare un moto di fastidio, ed è abbastanza bizzarro se pensi che tuttora non riesco a non ammettere che Fresh Fruit for Rotting Vegetables è il mio disco preferito. È che semplicemente da qualche anno i discorsi sul PUNK hanno perso completamente la brocca: non è mai stato chiaro cosa significasse come definizione, ma credo che fino a una quindicina/ventina d’anni fa tutti fossero d’accordo che PUNK supponesse una situazione in cui qualcosa rompeva vistosamente delle regole culturali esistenti e formalmente rispettate. Poi il termine è tornato di moda, e poi rompere le regole era diventata una specie di regola fissa ed oggi siamo arrivati al punto in cui se un disco non è immesso sul mercato in una forma inusuale (download, streaming gratuito, nameyourprice, applicazione iPad, video interattivo, esecuzione dal vivo in mezzo a un cerchio del grano etc etc etc) finisce a vendere duecento copie tra i tuoi parenti e non è detto che non ci finisca comunque, e quindi essere punk è la regola anche per Rihanna e secondo l’interpretazione corrente del termine è possibile considerare punk un normalissimo disco folk registrato da un ex artista non-folk, sulla base che –semplicemente- non è una cosa a cui l’artista in questione è avvezzo.
Da questo punto di vista non stupisce (anche se irrita) il fatto che John Lydon, cioè uno dei principali modelli a cui si pensa nell’usare il lemma in questione, si prenda la briga di esistere giostrandosi in contemporanea tre identità in palese conflitto l’una con l’altra: cantante dei Pistols riuniti ormai su base triennale, comprimario di lusso in programmi TV spazzatura ed artefice unico di un progetto PIL rimesso in strada dopo vent’anni di inattività. La reunion dei Public Image Limited era già stata fastidiosa al tempo dell’annuncio, quando diventò chiaro che non era altro che un ripescaggio del moniker con un turnista delle Spice Girls al posto di Jah Wobble e Keith Levene dimenticato da qualche parte all’inizio degli anni ottanta. D’altra parte il terreno era favorevole all’Uomo: per prima cosa i PIL sono la sega mentale di John Lydon dal terzo disco in poi, e –soprattutto- la fanbase dell’Uomo consta perlopiù di una serie di post-rockers avvinazzati e propensi a considerare puro genio qualsiasi cosa esca dal suo cilindro, ivi compreso farsi dilaniare in diretta TV da un branco di struzzi. Nei tempi che viviamo è molto difficile trovare qualcuno il cui impatto culturale resista così tanto a fronte di così poco sforzo.
L’Uomo, dal canto suo, ha sempre avuto un’invidiabile nonchalance nel prestarsi alle peggiori pantomime a cui possa prestarsi una rockstar dismessa, e di certo gli va riconosciuto un talento naturale di equilibrista delle situazioni (o situazionista dell’equilibrio), almeno fin dai tempi della prima reunion dei Pistols, con quel bizzarro aplomb stile sto facendo una cosa specifica in questo momento e questa cosa che faccio non mi sta definendo come persona che a conti fatti gli ha evitato di esser preso sul ridere o sul serio in un sacco di momenti chiave e di diventare un’icona pop contemporanea qualunque fosse il periodo a cui il termine contemporaneo si riferisse. La cosa ha un suo senso soprattutto se consideriamo appunto lo svilirsi sostanziale del termine punk, una specie di limbo ideologico secondo cui avanguardia è una dimensione musicale introdotta tra la fine del ’77 e il ’79 e riprodotta per filo e per segno nei trent’anni successivi facendo attenzione a non sgarrare mai.
Il paradosso finale è che una delle più coinvolgenti critiche a questo stato mentale venga proprio dal disco nuovo a firma PIL, specie se anticipato da un singolino calligrafico ed evanescente come One Drop. Rimasto solo al comando e privo di qualsiasi obbligo morale, John Lydon esce allo scoperto con una dozzina di deliranti proclami millelire che se non stessimo parlando di un manigoldo verrebbe da paragonarle a Dujang Prang di Alan Vega. This is PIL si fonda sulla stessa idea estenuante di minalismo applicato al pop e lo rappresenta in modo molto più crudo e impressionante delle più rosee aspettative in merito, per esplodere in capolavori di nu-disco mongoloide alla Lollipop Opera che solleticano la voglia di evasione dell’ascoltatore prima di risbatterlo in mezzo a una strada. Non fosse per le occasionali (e brutali) rimpatriate dei Martin Rev e/o Mark Stewart e/o Robert Hood del caso, probabilmente non sarebbe possibile trovare tracce della musica contenuta in This is PIL in quasi niente di quello che sta in commercio. Lo stesso appeal da lavoretto a cottimo minimo sindacale dell’opera (che a conti fatti potrebbe essere riprodotta con gli stessi risultati in una decina di altri titoli da qui alla fine dell’anno) ne aumenta il fascino. Non so dire quanto durerà, ma al momento (e contro ogni aspettativa) l’ultimo disco dei PIL mi sembra la cosa più giusta da ascoltare in questi giorni.
PS: INTERNATIONAL DAY OF SLAYER. Fatevi sotto.