MATTONI issue#6: “the Vuvuzela drone”

L'arma del delitto (clicca per ingrandire)

 

Questo non è mai stato inciso (per ora) e non sta su nessun disco, ma lo conoscono tutti, in tutto il mondo. Per averne un assaggio basta accendere il televisore in questi giorni durante una partita qualsiasi dei mondiali di calcio: l’effetto è immediato e decisamente straniante, entrare nel gorgo è la logica conseguenza. Sulle prime è il senso di fastidio a prevalere, come prendere coscienza all’improvviso di un rumore di fondo persistente, estremamente molesto e impossibile da eliminare; poi, lentamente, molto lentamente, l’orecchio si abitua, il ronzio entra nelle vene, diventa progressivamente parte di noi. È come venire risucchiati dentro uno sciame di zanzare. Di miliardi di zanzare. Come trovarsi sospesi nell’epicentro di un cataclisma, in un sogno lucido o nella più reale delle esperienze extracorporee. È l’essenza stessa del significato di drone nella sua accezione più pura e primordiale; non per niente la traduzione letterale di “drone” è “ronzio”, e questo è finora il ronzio più colossale, maestoso e imponente mai prodotto a memoria d’uomo. Massimalismo allo stato puro, roba da fare impallidire la misera distesa di batterie dei Boredoms (“soltanto” 77) e che perfino un massimalista D.O.C. quale Rhys Chatham, con le sue quattrocento chitarre elettriche lasciate a riverberare nella conca della basilica del Sacro Cuore a Parigi, era riuscito soltanto a sfiorare da lontano. No, no, non c’è gara: decine di migliaia di esseri umani sintonizzati sulla stessa nota, impegnati a produrre la stessa nota per un lasso di tempo potenzialmente eterno (generalmente circoscritto a 90 minuti per la sola ragione che tale è la durata convenzionale di una partita) sono qualcosa di francamente irripetibile e assolutamente inebriante anche quando udito nel più malmesso dei tinelli, in mutande davanti alla tv, stravaccati sul divano (figurarsi come deve essere trovarcisi fisicamente in mezzo…!), un mastodontico, indescrivibile bordone dentro cui perdersi forse definitivamente, un muro di suono sconfinato, titanico, monumentale, imparagonabile per intensità ed effetti – devastanti e duraturi – sulla psiche. Qualcosa di paurosamente vicino a uno stato di trance perenne. Poche pippe: è questa la più grande opera d’arte della storia dell’umanità, e affanculo cosa pensava Stockhausen dell’11 settembre.
A dimostrazione di quanto il vuvuzela drone abbia già intaccato irreversibilmente il sistema nervoso collettivo, riportiamo integralmente la descrizione di “vuvuzela” presente fino all’altroieri sulla pagina italiana di wikipedia (scopriamo ora che è già stata rimossa). Sicuri che in futuro il contenuto verrà rimaneggiato altre migliaia di volte, per qualche giorno questo è quanto apparso: delirio totale.

L’uso della vuvuzela è stato talvolta impedito all’interno degli stadi. Con la giustificazione, rivelatasi poi non veritiera,[3] che questo strumento fosse un elemento caratteristico della cultura e delle tradizioni sudafricane, la FIFA ha deciso di permettere l’ingresso della vuvuzela all’interno degli stadi dal 2008.

In particolare, la vuvuzela ha fatto parlare di sé durante lo svolgimento della FIFA Confederations Cup 2009, a causa del suo rumore intenso e praticamente ininterrotto, addirittura fastidioso per i giocatori,[4] al punto che la FIFA ha valutato l’ipotesi di impedirne l’introduzione negli stadi dei Mondiali 2010.[5][6] Poco dopo la fine della Confederations Cup, l’ente calcistico ha dato il via libera alle trombette.

E da quel momento fu BBBBBBBBBBBZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ ZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZZ

True believers: Junior Kimbrough

Junior Kimbrough ha inciso il suo primo long-playing a sessantadue anni. Junior Kimbrough era uno di quei figli di puttana conclamati che se li incontri per strada cambi marciapiede, tanto sgradevole, imprevedibile e pericoloso nella quotidianità quanto geniale e rivoluzionario con la chitarra in mano (il suo blues sinistro e ipnotico, ottenuto picchiettando con il pollice le corde delle note più basse, in una specie di drone regolare e continuo, resta tra i lasciti più inimitabili e fieramente incompromissori dell’intera storia del genere). Secondogenito di una famiglia di contadini di Hudsonville, Kimbrough scopre la musica a sei anni, più o meno nello stesso periodo in cui rischia per la prima volta il coma etilico; non molto tempo più tardi si rende conto che la placida monotonia di un posto sicuro alla John Deere non è lo stile di vita per cui è tagliato. Inizia a frequentare i juke joints, e ben presto diventa uno dei più temibili biscazzieri dal grilletto facile di tutto il Mississippi. Da lì in poi, come sempre accade, i confini tra storia e leggenda si fanno sempre più labili e sfumati, le carte si mischiano, fino a quando l’una e l’altra si compenetrano tanto inscindibilmente da diventare impossibili da distinguere; di certo si sa che Kimbrough ha pubblicato un singolo (la cover di Tramp di Lowell Fulson) nel 1967, uno nel 1982 e praticamente nient’altro fino al 1992, anno della consacrazione definitiva grazie soprattutto all’interessamento del critico e autore Robert Palmer (niente a che vedere con l’autore di Johnny & Mary). Nel mezzo, una serie infinita di furti, truffe, risse e tentativi di stupro e omicidio, una collezione di misfatti incredibile per vastità e varietà, molti dei quali oggetto dei suoi stessi pezzi (un esempio? You better run, tra i suoi brani più famosi, è indirizzato a una donna che Kimbrough sta per violentare). Fino alla fine dei suoi giorni (morì nel 1998, a sessantasette anni, per un attacco di cuore causato dalle conseguenze di un ictus), metteva paura solo a guardarlo; la fama che lo precedeva era agghiacciante, e bastava incrociare il suo sguardo o sentirlo parlare per un istante per capire che le dicerie che circolavano sul suo conto erano tutte vere, fino all’ultima. Incontrollabile nella lotta a coltello come tra le lenzuola, lascia al mondo una trentina tra figli riconosciuti e illegittimi.
Ho ascoltato per la prima volta Done got old nella versione contenuta in Do The Rump!, raccolta di sessions risalenti al 1988 pubblicata nel 1997 sotto la ragione sociale Junior Kimbrough & the Soul Blues Boys; fin dal primo impatto non ho avuto dubbi di trovarmi di fronte a una delle più grandi canzoni sulla vecchiaia mai scritte, forse la migliore. Non è solo per il giro di chitarra o le cose che dice e come le dice, probabilmente è per tutto questo messo insieme, sta di fatto che non ho mai sentito qualcosa di altrettanto schietto, lucido e spietatamente brutale, capace di catturare perfettamente l’essenza di un concetto nel preciso momento della sua acquisizione. È come se Kimbrough si fosse reso conto, improvvisamente e tutto in una volta, della sua condizione, ne fosse stato investito e non potesse fare altro che prenderne atto: Beh, sono invecchiato/ Non posso più fare le cose che ero abituato a fare/ Sono vecchio. Come per tutte le rivelazioni, il contenuto è semplice, estremamente semplice. E inconfutabile. Voglio dire, esiste qualcosa di più vero e pregnante che si possa dire a proposito della vecchiaia? Se c’è io ancora non l’ho trovato.

Done got old

Well, I done got old
I can’t do the things I used to
I’m an old man.

Well, I done got old
Well, I done got old
I can’t do the things I used to do
‘Cause I’m an old man.

Remember the day, baby
That done passed and gone
When I could love you
Most any time

But now things gone changed
And I done got old
I can’t do the things I used to do
I’m an old man.

I don’t look like I used to.
Can’t even walk like I used to.
Can’t even love like I used to.

And now things gone changed
And I done got old
I can’t do the things I used to do
Because I’m an old man.