L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 9-15 maggio 2011

(elaborazione grafica di Lorenzo)

…E sente la foga libidinosa dei consiglieri regionali
che con profondo senso della gerarchia
prendono la rincorsa
per sodomizzare i consiglieri comunali
che a loro volta lo mettono in culo ai consiglieri provinciali
e anche a quelli di quartiere.
Olè! Vengaja!
(Zekkini)

Domenica si va a votare, ma nel frattempo c’è una settimana buona per prepararsi all’irreparabile e cercare di farsene una ragione (comunque vada, vincerà il peggiore). Si comincia questa sera con una gitarella fuori porta al Clandestino per il concerto dei Parts & Labor (gratis dalle 22.30), ovvero droga droga droga & noise noise noise: lesioni cerebrali a strafottere garantite anche se non ciavete i soldi per la keta. Martedì espiazione alla chiesa di S. Ambrogio di Villanova con Dustin Devics O’Halloran (quindici euro più eventuali opere di bene). Mercoledì all’Estragon i Mercury Rev eseguono tutto Deserter’s Songs (dalle 22, quindici euro) – chissà perché proprio quello poi (io avrei preferito Boces, ma comunque); a un prezzo decisamente inferiore (zero euro/gratis/a ufo) all’XM24 prosegue la rassegna MeryXM con dibattito + concerto (dalle 20.30). Qualunque sia la vostra scelta, prima tutti al Modo Infoshop per la presentazione di The Circle Is Unbroken, ovvero la bibbia definitiva dell’acid folk che farebbe schizzare il cervello su Saturno anche a Ian MacKaye. Chi l’ha detto che drogarsi fa male?
Giovedì per i matti della chitarra arriva il funambolico Steve Hackett all’Estragon (dalle 22, trenta euro): se suonate e già soffrite di qualche complesso d’inferiorità per quanto lieve è meglio che passiate la serata da qualche altra parte, è un consiglio da amico. Magari all’Onirica a Parma a vedere i Rotting Christ (dalle 22, di spalla Omnium Gatherum e un altro paio di gruppi altrettanto scadenti). Venerdì scatta il delirio: prima parte del With Love Festival alla Farm (dalle 21.30, tessera obbligatoria), PropheXy + Altare Thotemico al Blogos (dalle 21.30, cinque euro), ancora AngelicA al Teatro S. Leonardo (dalle 21.30, dieci euro), il polemico vegliardo Billy Bragg al Bronson (dalle 21.30, venti euro), e pure la prima (e finora unica) data italiana dei redivivi Happy Mondays all’Estragon (dalle 22.30, venti euro): se solo anche l’ecstasy fosse la stessa di una volta…
Sabato Beatrice Antolini in acustico al Museo della Musica (dalle 21.30, otto euro) e tali Esben & the Witch al Covo (dalle 22, ? euro), ma per gli sbarazzini della notte l’ardua scelta è tra Derrick May al Link (prezzi variabili, vedi Qui) e Ixindamix (più altri 16 dj) allo Zoom (dalle 20, dieci euro più tessera): you might stop the party, but you can’t stop the future

DISCONE: Alan Vega & Marc Hurtado – Sniper (Le Son du Marquis)

 
Le collaborazioni di Alan Vega non è che differiscano poi tanto dai suoi dischi solisti o in coppia con Martin Rev: qualcuno gli fa le basi (in senso musicale), possibilmente sferraglianti, ripetitive, alienanti, cibernetiche e acuminate, e lui ci delira sopra cose a caso esattamente come ha sempre fatto in tutta la sua vita. È il flow a fare la differenza: non esiste voce umana al mondo capace di competere con Alan Vega e i suoi streams of consciousness irraccontabili, in cui è racchiusa tutta la paranoia e la forza e la fede e il delirio e la fame di vita del mondo. Una volta che l’hai sentito “cantare” non lo scordi più. A volte il suo flow è appannato (i dischi solisti dal ’90 al ’95 e Why Be Blue), altre volte sono le basi che non vanno (l’agghiacciante Just a Million Dreams dell’85 e il mediocrissimo progetto Revolutionary Corps of Teenage Jesus, dove però Vega era in gran forma), ma la sua visione e la potenza del suo sguardo rimangono indistruttibili e necessarie ora come quaranta anni fa, quando assieme a Martin Rev e al suo Farfisa scassato dipanava i primi farneticamenti in un sottoscala putrido infestato di artisti barboni.
Sniper non si discosta (e come potrebbe?) dalle esperienze precedenti. Ai controlli questa volta c’è Marc Hurtado, metà degli inossidabili terroristi multimediali Étant Donnés (con cui Alan aveva già collaborato nel tonitruante Re-Up del ’99), che garantisce ai suoni un grado di ferocia e obliqua devianza di poco inferiori a Station, capolavoro dell’ultima fase del Vega solista che questo disco non riesce a superare. Da par suo, Alan è in flow assassino come nelle migliori occasioni, vaticinante, velenoso, febbrile, incarognito, mugghiante, ossessionato, digrignante, profetico,  impossessato da demoni invisibili e portatore e generatore di allucinanti visioni e accecanti squarci di luce. Impossibile segnalare qualche brano a discapito di altri in quello che è ancora una volta un unico ininterrotto flusso di coscienza paranoide e dissennato, mi limito a dire che per ora le mie preferenze vanno all’esagitata Juke Bone Done, in cui un Alan in speaker’s corner fattanza sentenzia che “heroes are always cowboys” con la carogna addosso. C’è anche una nuova versione – la terza – di Saturn Drive, con una base che è stata usata anche dai ‘nostri’ Post Contemporary Corporation (il pezzo era Onnagata). Lydia Lunch rantola depravata e arrancante nell’ultimo pezzo, Prison Sacrifice, un raggelante numero da Lee Hazlewood & Nancy Sinatra dei sociopatici. Se già lo amavate continuerete a farlo con ulteriore convinzione, altrimenti continuerà a sembrarvi un povero mentecatto un po’ partito di cervello; anche questo fa parte del gioco.
Per ora l’album sta su Deezer, ma bisogna vedere chi ce l’ha messo e se gli autori approvano; nel frattempo fatevi sotto.

MATTONI issue #10: LESBIAN

 
Vincono già dal nome, soprattutto in tempi in cui per non finire immediatamente nei peer-to-peer l’alternativa è tra stupidissimi termini di uso comune ricontestualizzati (tipo The Music, Girls, Tombs, ecc.) o sigle illeggibili piene di simboli criptici tipo triangolini e altre merdate a incasinare il tutto (tipo l’intero fenomeno witch house, che poi tra l’altro mica ho ancora capito di che cazzo si tratti, ma comunque). Loro scelgono una terza via: nome ultracomune e ultrabeota “perché quelli belli, tipo Black Sabbath o Venom, erano già presi“. Sono in quattro, hanno inciso per Holy Mountain (che già di per sè stessa è una bella garanzia di alterazione mentale) e a guardare la foto sul sito dell’etichetta sembrano, nell’ordine: un ciccione che ama i Neurosis, un professore ex-hippie col cervello fritto dai troppi acidi ai tempi dei fiori nei capelli, un immigrato clandestino e un buzzurro rissaiolo coi tatuaggi anche nel buco del culo. Insieme suonano uno strano incrocio tra sludge, doom old school e progressive metal, fangosissimo e lisergico eppure cronometrico e intricato al tempo stesso; immaginatevi, se riuscite, una sintesi tossica tra Dream Theater, Grief, Lake of Tears e Facedowninshit, sarete comunque piuttosto lontani da un’idea anche lontanamente esaustiva. Uno di loro, Dan La Rochelle, ha suonato la chitarra negli ASVA per un paio d’anni, magari questo dettaglio può essere di aiuto. Il primo album è del 2007; Power Hor, un gioiellino di psichedelia malata e deviante che con un buon cilotto sdruso di bella (o un paio di cartoni) a supporto è la morte sua. I numeri già dicono tutto: quattro pezzi per sessantadue minuti di durata. C’è già un bestione di quasi 25 minuti, Loadbath, ma non è il pezzo migliore del disco, e comunque a quei tempi Bastonate (con annessa la vostra rubrica preferita) ancora non esisteva. Sempre del 2007 è un ‘Tour EP” con un pezzo di quarantasette minuti (dal temibilissimo titolo, Fungal Abyss), che purtroppo non sono ancora riuscito ad ascoltare; ho invece mandato a memoria lo split del 2008 con gli Ocean americani (altro gruppo per cui vale la legge dei grandi numeri), ma purtroppo entrambe le compagini in quell’occasione mordevano decisamente i freni: ‘soltanto’ dodici e quattordici minuti le durate dei rispettivi pezzi.
Tornano ora con un nuovo disco fuori, Stratospheria Cubensis, titolo delirantemente pseudointellettuale, produzione paludosa del paludato Randall Dunn e artwork sideral-tentacolare del funghesco Seldon Hunt. Un disco che è un po’ il loro The Age of Adz: smodato, incontenibile, eccessivo, irraccontabile, radicalmente altro da sè e da tutto, con il brano più lungo posto alla fine a riassumere e a tirare le fila e a fornire il senso ultimo di un suono e un metodo compositivo che non asc0lterete altrove. Black Stygian è il nome del mattone finale, ventidue minuti di delirio psych-sludge-prog-doom da far precipitare dal cielo gli arcangeli con le trombe e schizzare dalle viscere della terra i diavoli coi tromboni, un’ininterrotta, sfrenata cavalcata della Morte ma con un cannone grosso come un carciofo incastrato tra le arcate dentarie; se esistesse un ipotetico mash-up tra Jerusalem degli Sleep ma con il tiro e senza la narcosi chimica, e A Change of Seasons dei Dream Theater ma senza i barocchismi e le leziosità e le tastiere d’avorio e la suddivisione in capitoli, magari reinterpretata dagli Eyehategod in jam alcolica con Fates Warning e (Men of) Porn, forse quel pezzo avrebbe il suono di Black Stygian. Veramente devastante.

 
 
PS STREAMO: http://lesbian.bandcamp.com/album/stratospheria-cubensis

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 2-7 novembre

chette possino caricatte

 

e insomma Genesis P-Orridge ha sbroccato di nuovo (del resto è così che funziona: o sbrocca per qualche motivo del cazzo oppure finisce in ospedale per manutenzione alle protesi), quindi se questa sera volevate andare a darvi un tono all’Arena del Sole per il concerto dei Throbbing Gristle sappiate che manca il freak principale; rimangono comunque Sleazy, Cosey e Chris che – ne siamo sicuri – scateneranno un casino infernale con i loro laptop antagonisti. Se invece non ve ne frega un cazzo del baccano o di farvi passare per Grandi Artisti che ne capiscono di musica, tenete presente che c’è William Parker in città: alle 18 parteciperà alla presentazione del libro a lui dedicato al Modo Infoshop, e in serata si esibirà al Take Five. Mercoledì dalle 19 di nuovo al Modo Infoshop una conversazione tra lo psicosciamano Antonello Cresti e il mucchiesco Aurelio Pasini in occasione dell’uscita di Lucifer Over London, sulfureo tomo sui più dissociati e occultistici sperimentatori della Perfida Albione; ingresso vietato a chi non ha in casa almeno un LP originale dei Coil.
Giovedì è la serata per i b-boys: all’Estragon i Public Enemy in karaoke belligerante (dalle 22 per venticinque euro), allo Zuni il cogitabondo Kaos One in dj-set nostalgico (si replica il 18 novembre).
Venerdì trasferta a Faenza per il Japanese New Music Festival: Yoshida dei Ruins, Makoto & Atsushi degli Acid Mothers Temple insieme per sette differenti installazioni che coprono praticamente tutto lo scibile musicale tra acid rock lisergico, psichedelia free-form, improvvisazione totale e manicomiali inserti free grind da mandare in pappa il cervello anche alla buonanima di Ken Kesey (che è vivo e lotta insieme a noi). Per gli intellettuali che vogliono rimanere in zona c’è Jamie Lidell al Locomotiv, ovvero in un qualunque altro locale di Bologna e dintorni che NON sia il Locomotiv, questo perchè settimana scorsa tutti i concerti in programma sono stati dirottati verso altre locations e nell’immediato non sussistono indizi che possano portate a ipotizzare un’inversione del trend; come si dice, more news to come (forse)… in ogni caso, dopo tutti al Link per il nuovo live – rigorosamente in analogico – del grandissimo Mathew Jonson, uno che se solo provate a nominargli Traktor prima vi sputa in faccia poi vi versa la stricnina nella bottiglietta d’acqua piena di MDMA.
Sabato ancora al Link per l’evento mondano dell’anno, serata imprescindibile per froci tossici e intelligentoni: Caribou e Four Tet l’uno dopo l’altro e poi di nuovo Caribou in dj-set, dalle 23 alla modica cifra di venticinque euro. Infine, domenica ci sarà da scegliere tra Liars + John Wiese al Locomotiv (ovvero ovunque nell’universo tranne che al Locomotiv) oppure il British Steel Festival all’Estragon, dal primo pomeriggio per trenta euri una colata di metallo incandescente direttamente dagli eighties britannici più fetidi, birraioli e proletari; in mezzo ci sono anche i nostri Crying Steel. Non so voi, ma io corro a lucidare le borchie del chiodo di mio nonno.

Master Musicians of Bukkake @ Locomotiv (Bologna, 29/4/2010)

Lo scorso 29 aprile la città ha ospitato il rituale più inquietante, lisergico e allucinatorio degli ultimi anni; nei Master Musicians of Bukkake confluiscono autentiche autorità della scena psych-doom di Seattle, il chitarrista Bill Horist (che ha aperto con un solo show deragliante dove ha tirato fuori ogni tipo di suono possibile maltrattando lo strumento in ogni modo e con ogni mezzo – comprese pinze da chirurgo e un piatto della batteria infilato a viva forza sotto le corde…!), qualche ex-membro degli Earth nonchè quelli bravi degli indimenticati Burning Witch. Descrivere un loro live set a parole è un’impresa letteralmente impossibile, dunque a chi non c’era speriamo che le foto di Gino Dal Soler possano essere d’aiuto per tentare di comprendere parte della grandezza di quel che si sono persi.


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Pan Sonic + Martin Rev @ Locomotiv, Bologna (28/11/2009)

(foto di deSna B.)

In origine il cartellone di stasera prevedeva il solo Martin Rev, senonchè la data di ottobre dei Pan Sonic è saltata perché uno dei due (Mika Vainio, quello pazzo) era finito in coma etilico per l’ennesima volta. Dunque, recupero in extremis ora con conseguente reboot della serata da happening per squilibrati e reduci bolliti a evento mondano dell’anno per galleristi froci, intellettuali con gli occhiali, gente che ne sa di musica, esponenti della scena e in genere tipi giusti che vanno nei posti giusti. Locale pieno con fila all’ingresso, c’è chiunque deve esserci: è l’ultimo tour dei Pan Sonic (ma sarà poi vero?), mancare significherebbe scomparire dalla scala sociale. A Martin Rev di tutto questo, comunque, non frega un cazzo. Maglietta con supereroe e occhialoni da sole da cyborg scervellato, magro come un chiodo e scavato come una scultura di Giacometti, avanza caracollante portandosi dietro quasi quarant’anni di leggenda, marciume e marginalità rigorosamente newyorkese; sul palco una tastiera e un microfono, nient’altro. Solleva per un attimo gli occhiali per configurare qualcosa sulla plancia di comando rivelando occhi enormi e neri scintillanti nel vuoto, due fari di tenebra a squarciare la luce. Schiaccia un pulsante e parte una base che non riconosco, dev’essere un pezzo dal suo album nuovo, Stigmata, che non ho ancora ascoltato (è uscito il giorno prima); contemporaneamente comincia a percuotere la tastiera con pugni e gomitate, come un bambino suonerebbe il pianoforte dei nonni, premendo tutta la pianta della mano su tasti a caso e producendo soltanto caos dissennato. Poi afferra il microfono, e ci urla dentro un testo che, con buona approssimazione, fa più o meno così: HEY! HEY! HÙA! HÒE! HÈAH! HÙH! HÒAEY! per alcuni minuti, il tutto alternato ad altri pugni e gomitate sulla tastiera e occasionali coreografie da ballerino spastico strafatto di crack. La base è martellante e implacabile, i volumi sono assordanti, insensati. Il brano finisce senza che ci sia tempo di chiedersi perché, di cercare di razionalizzare quanto abbiamo appena visto, e subito parte quello successivo, che identifico immediatamente: è In your arms, il secondo pezzo di To Live (2003, probabilmente il miglior album della sua carriera solista), schitarrate anfetaminiche e drum machine assillante alla Ministry del periodo cyber-metal primi anni novanta. Tempo pochi istanti e Martin riprende ad avventarsi sulla tastiera rendendo il tutto un delirio cacofonico impressionante nella sua demenziale casualità; non prova nemmeno a fingere di ricordarsi il testo, si limita a emettere a pieni polmoni suoni a caso, grugniti scimmieschi, agghiaccianti belati, poi un balletto, alza le braccia al cielo, batte perfino le manine, poi ancora pugni e gomiti. Al quarto brano ho i timpani che implorano una tregua e dalla prima fila mi sposto verso il centro del locale. Incontro un’amica che non vedevo da molto tempo e le chiedo come sta. Mi risponde: “stavo molto meglio prima di sentire questo cialtrone“. Il concerto va avanti, la dinamica non cambia: parte la base, pugni alla tastiera, versi al microfono, con Martin via via sempre più febbrile e frenetico. Tra la fine di un brano e l’inizio del successivo descrive un semicerchio attorno al microfono a passetti veloci, poi schiaccia un tasto e tutto ricomincia di nuovo. Prima di iniziare il penultimo pezzo azzarda addirittura un “hey!“, che nel suo linguaggio significa certamente “grazie”. Conclude con una To live di oltre dieci minuti, accanendosi sui tasti stremati generando sul finale un allucinante, lunghissimo drone che è probabilmente il suono di quel che si ascolta all’Inferno. Un’ora esatta di performance in perenne bilico tra sublime e patetico, tra titanico e gratuito, a stagliarsi netto il profilo impassibile di uno dei più grandi catalizzatori di depravazione, decadimento e alterazione mentale di tutta la storia del rock.
I Pan Sonic, che pure hanno inciso due dischi con il compare di Rev – il non meno disturbato e deviante Alan Vega (che da anni pare occuparsi più di arte che di musica), hanno in serbo tutt’altra roba: a volumi minimi, decisamente fastidiosi ma stavolta al contrario (mi permettono di udire chiaramente tutte le cazzate che la gente dice intorno a me), srotolano una serie di rumorini microtonali, singultini da digestione laboriosa, pulsazioni da elettrocardiogramma di un novantenne, scariche elettrostatiche tipo la radio quando non prende, vrrrrrrrr frrrrrrrr di trapano del dentista e altri glup glip glop glap glep assortiti da far scendere la catena al più volenteroso degli ingegneri del suono; è tutto molto affascinante e i suoni indubbiamente ben curati e spesso anche belli, almeno per quanto l’incessante blaterare del pubblico – molto chic ma assai poco educato – mi permetta di distinguere, ma è anche roba che la coppia potrebbe tirare fuori agevolmente con la mano sinistra e gli occhi bendati, qualcosa di simile al concetto di b-side, di out-take o di cazzeggio domenicale spippettando sui marchingegni con gli amici fonici nerd, comunque qualcosa di decisamente non all’altezza di quello che vorrebbe essere un commiato ufficiale e definitivo. La portano avanti per cinquanta minuti, poi decidono che è abbastanza. Seguiranno dj-set adeguatamente raffinati. Simulazione di orgasmo.

(foto di deSna B.)

Mudhoney @ Estragon, Bologna (23/10/2009)

Touch_Me_I%27m_Sick

Una cosa in comune i Mudhoney ce l’hanno coi gruppi garage rock alla Nuggets che da sempre hanno idolatrato: come loro, hanno scritto una sola canzone veramente memorabile. Perché è inutile menare il can per l’aia: a chiunque sia dotato di un paio di orecchie funzionanti Mudhoney ha smesso da almeno due decenni di riportare alla mente l’omonimo film di Russ Meyer. No: Mudhoney sono il riff di Touch me, I’m sick, al cospetto del quale tutto il resto – qualsiasi altra cosa abbiano mai composto – passa in secondo piano, per la semplice ragione che rispetto a Touch me, I’m sick in secondo piano passa tutto il resto della musica scritta nella storia dell’umanità, a parte i primi dieci secondi di Bastards of young, il giro di chitarra di Return of the rat, e pochissime altre cose. Solo che, a differenza dei gruppi garage rock da un singolo e via con cui condividono ben più che lo spirito e la strumentazione, dopo quel singolo i Mudhoney sono rimasti su piazza, pubblicando dischi anche ben più che dignitosi (i miei preferiti sono l’omonimo e Tomorrow Hit Today, ma come per ogni gruppo discograficamente attivo da più di una generazione ognuno ha i suoi), ma mai riuscendo a bissare l’assoluta perfezione di quei due minuti e trentacinque secondi che per sempre saranno il loro dono e la loro maledizione. A vederli di persona dimostrano almeno una decina di anni in meno, e nonostante siano passati attraverso tanta di quella droga da spedire al Creatore una mandria di bisonti sono ancora qui, e in una forma molto migliore di me che scrivo e voi che leggete messi assieme. Soprattutto the freewheelin’ Mark Arm, quarantasette anni di amplificatori disintegrati e non sentirli, un fisico da fotomodello frocio e una voce alla cartavetrata che è rimasta quella di un tempo, forse perfino migliore. Il che porta a due conclusioni: 1) L’eroina fa bene, e 2) Copiare gli Stooges allunga la vita. Probabilmente i Mudhoney sanno benissimo di incarnare oggi un’idea di musica che è quantomeno museale, unici depositari rimasti vivi e vegeti di un’epoca in cui le chitarre suonavano per davvero, la produzione di un disco poteva durare mesi, i CD costavano trentacinquemila lire e farsi in vena era considerato socialmente accettabile. Proprio loro che con l’ondata grunge avevano in comune solo due cose: la provenienza geografica e la chitarra al collo. Ma quella dei Mudhoney era anche un’epoca in cui i musicisti avevano rispetto per il proprio pubblico, per chi sborsava bei soldi per vederli all’opera dal vivo, ed è per questo che un concerto dei Mudhoney è un concerto: un’ora e quaranta tra set di base e (numerosi) bis, scaletta capillare che pesca un po’ dappertutto cercando di soddisfare tutte le aspettative, brani sparati a mitraglia uno dietro l’altro dritti senza pause, interazione col pubblico puntuale ma sobria e mai servile (Mark riesce chissà come a essere convincente anche quando ci assicura di essere stati absolutely a-ma-zing, unendo il pollice all’indice per creare una “O” con le dita). Ma non è abbastanza per chi cercava la scintilla, il fuoco sacro della passione totalizzante, il sudore vero, quello che va a pari passo con il sangue e le lacrime. Loro sono formalmente perfetti, giusto un pelo troppo statici ma l’esecuzione è chirurgica e i suoni incredibilmente nitidi nonostante il volume decisamente aggressivo e la distorsione perenne; a mancare è il combustibile, il crederci spinto alle estreme conseguenze, il parossismo, l’urgenza. Quel che mettono in scena somiglia piuttosto all’esibizione di una band da oratorio, precisa e impeccabile e tecnicamente ineccepibile ma appassionante quanto uno scaldabagno guasto. O, peggio ancora, a uno sterile karaoke accontenta-gonzi buono giusto a far esaltare i ragazzini scalmanati e qualche reduce con le ascelle sudate in mezzo al pogo. Perfino Touch me, I’m sick, piazzata lì a caso tra un brano e l’altro, sembra una canzone come tante. Soltanto verso la fine, con una When tomorrow hits di quasi dieci minuti, sembrano rianimarsi, scuotersi un minimo dal piattume normativo che li avvolge forse inconsapevolmente (mi è stato raccontato di un’esibizione dirompente a Roma la sera prima a cui a questo punto non so più se credere); ma è poco, troppo poco per smarcarsi da una performance di strettissima sufficienza, pura routine da prepensionamento al termine della quale s’insinua prepotentemente il sospetto che, a mettere su i loro dischi a casa pogando contro il muro mi sarei, probabilmente, divertito di più. Here comes boredom.

Il download illegale della settimana – Oscillations

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Tripla segnalazione che speriamo serva almeno in parte a compensare gli appuntamenti del download illegale della settimana mancati durante la pausa estiva. Oscillations, serie comprendente i due volumi pubblicati tra il 1996 e il 1998, è tappa fondamentale all’interno della sterminata discografia di Bill Laswell: si tratta di due tra i lavori più interessanti e meno ripetitivi dell’uomo, due dischi che ridefiniranno in toto la concezione stessa di drum’n’bass e che tuttora suonano mostruosamente attuali e pieni di intuizioni e ‘sorprese’ ancora da scoprire. Determinato ad ampliare il proprio raggio d’azione allontanandosi dall’ambient dub marcio, ristagnante e maligno di cui è e resta maestro indiscusso (ma senza mai perdere di vista la componente inquietante che lo contraddistingue), quanto dai parossismi funk da eroinomane intrisi di deliri da guitar hero (spesso spinti oltre la soglia della sopportazione con i suoi Praxis), Laswell imbastisce un serratissimo programma che non concede tregua e non ammette cali di tensione; forte di una pluridecorata esperienza di produttore e ingegnere del suono (importante quasi quanto quella di musicista: nel corso degli anni ha prodotto, con risultati alterni va detto, ma con un tocco sempre e comunque riconoscibile, dischi di Motorhead, Ramones, Iggy Pop, Ryuichi Sakamoto, Daevid Allen, oltre a quasi tutti i dischi a cui egli stesso ha preso parte e, più di recente, il micidiale ebreo reggae Matisyahu, inaspettato fenomeno multimilionario), plasma una gamma di suoni che stabiliranno gli standard su cui generazioni di beatmakers dovranno, da allora in poi, obbligatoriamente confrontarsi. Nel 1997 esce un eccellente remix album del primo capitolo e, nel 2003, una ristampa – titolata, con un pizzico di autoreferenzialità, Final Oscillations – che ripresenta integralmente Oscillations 1 e 2 e parte del remix album con tracklist rimaneggiata (mancano i contributi di Endemic Void, Bisk e Soul Static Sound ma è stata aggiunta una traccia di Spectre non presente nell’edizione originale). Che poi lo stesso Laswell (artista dalla prolificità quasi zappiana ma anche, va detto, spesso prolisso fino all’esasperazione) abbia poi trascinato fino a far perdere la pazienza la sua personale commistione tra bassi ipersaturi e suggestioni orientaleggianti è altro discorso; resta il fatto che, fosse anche solo per ribadire la superiorità assoluta rispetto alle miriadi di gregari che hanno tentato invano di plagiarne lo stile (e considerando inoltre la difficile reperibilità dei tre programmi, tutti fuori stampa da anni), Final Oscillations è ristampa graditissima.