tanto se ribeccamo: VISION OF DISORDER

Questo sopra è il primo pezzo messo fuori da dieci anni a questa parte di un gruppo di New York chiamato Vision of Disorder. Per voi probabilmente non è una festa, per me un po’ sì.

I Vision of Disorder sono più o meno la quintessenza del gruppo che non ce l’ha fatta. Iniziano a suonare nella prima metà degli anni novanta a Long Island, si fanno un nome a furia di concerti pesantissimi e riescono ad agguantare un contrattino Roadrunner per il primo disco. A quell’epoca la fusione tra metal e accacì era diventata quasi di moda e il primo disco diventa una specie di quintessenza di quel suono lì: pesante, cattivissimo, piuttosto panteroso. La differenza coi colleghi del giro Victory è soprattutto avere un cantante serio in formazione: Tim Williams urla con una voce bruciata da far paura anche a dei blackster, ma ha già cura d’infilare melodie in quasi tutti i pezzi –e sa pure cantare. L’anno è il ’96, il disco lo vengo a conoscere perché una tizia di cui sono innamorato mi infila due pezzi in un nastro. Nel primo disco la grandezza dei VOD non è per nulla chiara, in ogni caso: le parti vocali sembrano infilate dentro a forza per inserire un elemento di novità ad ogni costo e/o per rendere il gruppo appetibile al pubblico medio di Roadrunner, la gente che si caga Machine Head et similia per capirci. Fantastico ma non perfetto, diceva il tizio in Glamorama. La perfezione arriva col disco successivo: si chiama Imprint ed è una specie di The Great Southern Trendkill suonato dai Black Flag epoca My War (o My War suonato dai Pantera di Great Southern Trendkill, come concetto è quasi lo stesso). Le parti cantate si mischiano al resto in uno dei modi più naturali che si siano mai ascoltati nel metal anni novanta, su una musica che fa paura (probabilmente la miglior produzione in assoluto di Dave Sardy) e suscita il desiderio fisico di scendere in strada e prendere a calci in bocca oppressori, preti, poliziotti, ragazze e persone vestite con un minimo di criterio. C’è pure un duetto con Phil Anselmo in un pezzo, ma è la personalità di Williams a fare davvero la differenza. Il disco è il loro più venduto, ma non abbastanza da lanciarli nel paradiso dei gruppi che fanno un briciolo di soldi. La band dà la colpa a Roadrunner, scioglie il contratto e fa i bagagli, probabilmente la peggior mossa da fare in questo periodo. Poco dopo il gruppo firma con Go Kart, per la quale reincide pezzi vecchi e li fa uscire in un disco che nasce morto e viene intitolato For The Bleeders:  una versione per bambini del primo album, roba che va bene sì e no ai fan. In realtà il gruppo è già da tutt’altra parte, un po’ flippato dal desiderio di vendere molto e un po’ scottato dall’impossibilità pratica di concepire una cosa musicalmente più dura di Imprint. Va a finire che si mette a lavorare sulla parte melodica nel tentativo di trovare una via personale al nu-metal. TVT ascolta i nastri di quel che sta uscendo fuori, li mette sotto contratto e fa uscire From Bliss to Devastation nel 2001. Il gruppo annulla buona parte del tour per via dell’11 settembre, il resto lo fa il suono del disco, una specie di misto tra Down, Alice in Chains e tutto l’asse sludge-metal sudista (Crowbar, Soilent Green, Eyehategod e cose così), probabilmente cucito su misura addosso alla performance di Williams, e quasi subito accusato di piaggeria e/o numetallitudine. Poco conta il fatto che a conti fatti FBTD sia uno dei migliori dischi di canzoni del rock pesante di quegli anni: i VOD finiscono in mezzo a una spaccatura, troppo pesanti/fuori moda per piacere al newbie che scopre il nu-metal coi Linkin Park e troppo tranquilli/sputtanati/modaioli per fare soldi sulla schiena dei fan di metal estremo (che da almeno un paio d’anni schifano a man bassa, forse giustamente, qualsiasi disco contenga una chitarra ribassata). Nel 2002 il gruppo si scioglie, passa il decennio successivo tra nuovi gruppi e sporadici reunion-show e si ripresenta oggi con un pezzo nuovo che pare preannunciare un nuovo disco del quale ancora non si sa praticamente nulla. Sembra chiaro, in ogni caso, che la band non voglia dare un seguito a From Bliss to Devastation, e forse è pure comprensibile, e forse è pure una canzone un po’ derivativa, e quasi sicuramente non ce la faranno manco a ‘sto giro, e poco ma sicuro che ci siamo cagati il cazzo di gruppi new school che si riformano per fare due spicci con dischi ultrametal, ma CHE LEGNATA. Dai.

DISCONE: Cave In – White Silence (HydraHead)

Il momento più terribile della storia dei Cave In è l’uscita di Antenna. Nelle intenzioni sarebbe l’album della svolta: viene registrato con i soldi di RCA, la label ha deciso di puntarci, fa pressione sul gruppo e riesce ad ottenere un disco più pop di Jupiter. Antenna non è quel che si dice un brutto disco, ma non ha un pubblico ideale a cui aggrapparsi: Jupiter se n’era creato uno per quanto era bello, ma una cosa è spacciare Radiohead e Pink Floyd agli orfani dell’emo e una cosa è una major che ti vende come se fossi i QOTSA: il gruppo lo scopre a sue spese durante il tour, incontrando una risposta inesistente che li convince a cospargersi il capo di cenere, riprovare ad essere -almeno- un gruppo di punta del giro Boston-accacì, rivisitare il proprio suono aggiungendo dosi quantomeno generose di metalcore simile a quello degli esordi ma MOLTO più finto e piacione, fatto apposta per accaparrarsi gli spicci di un pubblico potenziale fatto di metallari in transito con frangetta, occhi bistrati, maglietta nera e polsini di cuoio. Quando RCA ascolta i provini per il disco successivo, intitolato Perfect Pitch Black, si mette a ridere. Scarica il gruppo senza battere ciglio e permette la pubblicazione di PPB sotto il marchio Hydrahead nel 2005, a suggello di uno dei momenti più tristi e sfigati della storia dell’accacì, dell’etichetta di Aaron Turner e sicuramente del gruppo di Stephen Brodsky. La band si scioglie un annetto dopo. Il bassista mette insieme un progetto a due con un altro ex-OldManGloom, lo chiama Zozobra e incide pure qualcosa, con un buon riscontro di pubblico e critica. Per i concerti gira con i due chitarristi dei Cave In. I quali annunciano di essersi riformati nel 2009, un po’ a sorpresa, con un EP intitolato Planets of Old che segue l’onda di PPB, e queste dieci righe non sono il mio provino per Virgin Radio bensì un modo come un altro per dire che del fatto che i quattro bostoniani siano tornati con il primo disco lungo da sei anni a questa parte, in linea di principio, non mi frega quasi niente.

E invece salta fuori che i Cave In hanno ancora un paio di cartucce. Oggi esce il nuovo disco, il primo lungo da sei anni a questa parte, dal titolo White Silence. L’etichetta è sempre HydraHead. Dentro al disco c’è tutt’altro che silenzio bianco: voci compresse, urla sguaiate, produzione incasinatissima. La musica inizia come una cosa ispirata fatta da uno di quei gruppi black metal di redneck americani da cameretta che vanno di moda adesso, poi succede più o meno qualunque cosa: echi di Jupiter che spuntano fuori da pezzi degli Old Man Gloom e agitano le braccia per non affogare (nel 2004 li avrebbero chiamati sbuffi in superficie), sfoghi pinkfloydiani talmente gratuiti che al confronto i Comets On Fire più spinellati eran roba da chierichetti, un paio di botte hardcore, trame di un minuto, parti melodiche, feedback di chitarra e cose simili. In certi momenti sembra di sentire Adam McGrath che si rompe le unghie contro le corde della chitarra. In tutto questo non è davvero possibile segnare che White Silence sia quel che si dice un disco coi pezzi: sembra più che altro un blob informe scritto come per mettere insieme il bignami di tutte le cose che i quattro membri della band hanno mai suonato nei dodicimila gruppi a cui hanno preso parte, concedendo ad ognuna non più di due minuti, cucendo tutto assieme alla Frankenstein maniera e suonandolo con una violenza che pure Dave Curran si dovrebbe togliere il cappello. Non sarà Jupiter, ma se conti che vien fuori da un gruppo morto e sepolto c’è da piangere di gioia.

STREAMO – Gazebo Penguins – Legna (To Lose La Track)

motosega-core

Motivi a caso: Il disco è in free download qui, è un disco bellissimo, ha a che fare con tutta quell’ondata di neo-emocorers in italiano che stanno iniziando ad andare per la maggiore, si fa per dire; escono per To Lose La Track a fine mese e noi ADORIAMO To Lose La Track, i riferimenti sono MOLTO complessi ed hanno a che fare tanto con La Quiete e FBYC et similia quanto con tutto un discorso postrock e/o indie che potrebbe per certi versi non disdegnare di parlare di, mettiamo caso, Uzeda; testimonia una volta in più di un’evoluzione musicale che a noi PIACE, vale a dire sfangarsi da tutto quel discorso di streaming esclusivi e canali obbligatori, preferisce affidarsi alla fotta e al passaparola, ha testi in italiano che sono BELLI, cioè ha qualcosa da dire, cioè lo dice, cioè spacca etcetera. Altri motivi sono che la storia s’è sviluppata nel corso di un mesetto con punte di talento assoluto tipo un’intervista con Fede Bernocchi in cui la band dice cose che son giuste a livello quasi stevealbiniano, o un post su Facebook nel quale il gruppo mette insieme la nota spese del disco in maniera piuttosto figa e poi a un certo punto saltano fuori quelli di Legno che quando saltano fuori è sempre tutto bellissimo. Poi c’è che se c’è una cosa che ha fatto anche solo un briciolo di hype nell’indie non necessariamente italiano degli ultimi cinque anni a meritarsi attenzione e soldi è questa qua, e abbiamo il privilegio di vederla diventare un movimento compatto in tempo reale, sotto gli occhi di tutti e senza che nessuno sia obbligato a prendersene il merito. Viva tutti loro, con un bell’accento al nuovo grossissimo disco dei Gazebo Penguins che ha deciso di meritarsi il titolo LEGNA, non a caso in maiuscolo.