Federico Guglielmi

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Federico Guglielmi, giornalista musicale di vecchissimo corso e neo-blogger. 

Ho aperto un blog sul quale per ora sto pubblicando pezzi vecchi, ma sul quale conto di inserire anche materiale inedito scritto appositamente. Perché? Beh, perché ho un archivio immenso nel quale c’è tanto materiale che ritengo interessante e che altrimenti sarebbe difficile leggere, perché era un’esperienza che ancora mi mancava, perché un sacco di miei lettori me lo chiedevano da anni, perché è divertente, perché immagino gioverà alla mia “public image”, perché sono orgoglioso di tutto quello che ho combinato in tutti questi decenni e dato che di soldi ne ho sempre visti pochi, via, che almeno sia “pagato” in soddisfazioni. Non sarebbe accaduto, però, senza l’ispirazione dalla magnifica title track dell’ultimo – in tutti i sensi – album di Francesco Guccini, che non parla di blog ma che, involontariamente, fotografa il mio stato d’animo nei confronti della mia professione.

me l’ascolto e magari ti chiedo qualcosa in merito. però: come può giovare all’immagine pubblica di un giornalista musicale aprire un blog? e poi: che differenza ci sarà tra i pezzi scritti apposta per il blog e i pezzi che scrivi sul mucchio?

Oggi le percezioni delle cose e delle persone mi sembrano più superficiali di un tempo. Nell’ambiente musicale chiunque sa più o meno chi sono, ma molti meno hanno un’idea un po’ più precisa di quante cose ho fatto. Continuando a pubblicare un post al giorno, fra un tot di mesi dovrebbe emergere un quadro sufficientemente ampio, che suppongo farà capire anche ai più duri di comprendonio che anche quella che al momento rimane ancora la mia professione – domani, chissà? – può essere “una cosa seria”, che comporta competenze, studio e (duro) lavoro. Scrivere di musica in un certo modo non è lo stesso che buttar giù su un forum o su un sito pensieri random a proposito di un disco o un artista, insomma. E non è nemmeno solo farsi le seghe nella propria cameretta, senza “vivere” la musica a tutti i livelli. Io la vivo da ormai quarant’anni e la racconto, per come posso, da trentaquattro, anche continuando a seguire esordienti e confrontandomi con tutto quello che succede oggi. Mi farebbe piacere che esistesse un posto – il blog, appunto – che fra un po’ di tempo sia in grado di fungere da biglietto da visita di ciò che sono, professionalmente parlando.

Per quanto riguarda la seconda domanda… beh, non mi sono ancora posto il problema. Magari ci saranno commenti che mi andrà di diffondere subito, senza attendere i tempi della carta stampata, e che forse sul Mucchio svilupperò in altro modo o non svilupperò affatto. Per ora, a parte le introduzioni “contestualizzanti” ai vari recuperi, mi limiterò comunque a materiale vecchio.

“Scrivere di musica in un certo modo non è lo stesso che buttar giù su un forum o su un sito pensieri random a proposito di un disco o un artista ” – Non sono d’accordo, dimmi quali sono le differenze. magari una volta ce n’erano di differenze perchè reperire i materiali e le notizie era difficile, oggi secondo me non ce n’è, o ce n’è poca. quello che c’è di diverso è la bontà dei pezzi, ma è una differenza tra gente buona e gente non buona (non tra professione e scrivere roba). Mi devi convincere del contrario, se vuoi puoi fare degli esempi. Che poi cosa vuol dire “vivere la musica a tutti i livelli”? farsi le seghe nella cameretta dieci ore al giorno è uno dei modi per imparare meglio la musica, no?

“farsi le seghe” è uno degli elementi, benché pure per quello c’è modo e modo: ascoltare solo un genere, ascoltare solo musica vecchia o solo musica nuova, piluccare con superficialità e non approfondire mai, non sforzarsi di acquisire almeno un’infarinatura globale perché “tanto di certi generi scriverò mai”… non sono buoni modi. Poi, per come la vedo io, serve anche vedere molti concerti, parlare con molti musicisti di ogni livello e intervistarli, raccogliere informazioni serie su come funzionano i mondi dell’ormai morente discografia, dell’organizzazione dei concerti, dei media specializzati… nonché avere un’idea vaga di cosa significhi suonare (il che non significa necessariamente saperlo fare) e utilizzare uno studio di registrazione. Inoltre, sentire la responsabilità non solo verso se stessi ma anche verso chi paga per leggere, impegnandosi a essere quanto più possibile seri, documentati, comprensibili… e magari rispettare un po’ la cara, vecchia lingua italiana, così spesso maltrattata. Certo, va da sé che a contare è la qualità degli articoli, così come è scontato che si trovino anche cose ottime in Rete e anche cose pessime su carta… però, in generale, io rivendico a gran voce il bisogno di professionalità e il valore dell’esperienza.

Ma la maggior parte della gente che scrive di musica fa queste cose, anche i blogger. un concerto o due a settimana, interviste quando si riesce. che poi l’intervista al musicista, magari tappati le orecchie, è il genere letterario più merdoso della storia dei generi letterari e della merda. per uno che ti dice una cosa vagamente interessante ce ne sono 25 che ti raccontano stronzate promozionali generiche. tra l’altro se un musicista avesse qualcosa di interessante da dire dovrebbe avere la decenza di metterlo tutto dentro al disco o quando suona dal vivo. Quindi secondo me non lo so, non regge insomma. anche il fatto che hai aperto un blog mi suona più come una testimonianza che è in atto un bel ripensamento del mestiere. anche eddy cilìa ne ha aperto uno qualche tempo fa, molto simile tra l’altro come impostazione. 

Sì, certo, e chi lo nega? Ci pensavo da una vita ma rimandavo perché non avevo mai tempo, poi Eddy ha varato il suo un anno fa e allora ho pensato “perché no?”. Sul ripensamento hai perfettamente ragione: visto che ormai guadagnare due lire scrivendo di musica è diventato un’impresa persino per me, tanto vale accontentarsi della soddisfazione di essere comunque letti da molti, e in tempo reale. Credo inoltre che sarebbe stato un peccato non rendere disponibile il materiale che ho accumulato in tutto questo tempo: non ho difficoltà ad ammettere che, essendomi costato del lavoro, avrei preferito venderlo, ma dato che ormai regna il “gratis o niente”… chi se frega, lo regalo. Credo che in tanti, leggendomi, possano essere portati a conoscere o approfondire determinati argomenti. E in ogni caso da molte cose che leggo in Rete – non tutte, lo specifico – traspaiono per lo più copiaincolla dai comunicati-stampa, superficialità, ignoranza, semi-analfabetismo, voglia di apparire e frenesia di essere “il primo” a scrivere del tale disco o evento. Per quanto riguarda le interviste, sono d’accordo a metà: è vero, verissimo che spesso si ha a che fare con interlocutori svogliati o poco acuti, ma molto dipende anche dall’abilità dell’intervistatore nel portare avanti i discorsi e poi nel “cucinarli” in modo da ottenere una lettura ricca e piacevole. Io, per esempio, sono molto soddisfatto di tantissime mie interviste, e so che lo sono anche gli intervistati.

Com’è stare nella redazione di una rivista oggi rispetto a com’era 15 o 20 anni fa?

In era pre Internet tutto era meno frenetico, sia per la quantità infinitamente minore di uscite discografiche, sia nelle modalità di lavoro. Benché le spese fossero tante e le vendite mai davvero sicure, si credeva che lavorando bene si sarebbe comunque avuto un pubblico disposto a seguirti, perché esisteva un autentico, solido mercato editoriale: quello che oggi sta andando sempre più velocemente a puttane perché il mondo si è rivoltato. Adesso tutto corre velocissimo e noi giornalisti della carta siamo stati largamente ridimensionati perché, almeno nell’informare, arriviamo inevitabilmente dopo la Rete. Rete che non ha regole, purtroppo: stamattina l’etichetta invia a me e ad altre centinaia di colleghi più o meno qualificati di tutto il mondo i file di un album che uscirà fra due mesi; dopo un’ora qualche miserabile bastardo che crede anche sia giusto così ha “condiviso”; dopo un giorno, in un’infinità di blog, siti e forum si parla già di un disco che nella sua forma “corretta” – quella fisica, CD o vinile che sia – arriverà dopo settimane, e che sui giornali sarà trattato sempre dopo settimane. E che quindi, oltretutto, sarà considerato “vecchio” prima ancora di essere uscito. Per quanto riguarda aspetti più strettamente legati alla scrittura, posso dire che anni fa mi sentivo addosso una grande responsabilità: sapevo che parecchia gente avrebbe acquistato un certo disco a scatola chiusa solo basandosi su un paio di recensioni. Oggi, più che al giudizio, punto alla spiegazione e contestualizzazione dei dischi dei quali mi occupo, perché tanto so che la massima parte dei miei lettori si limiterà a perdere un po’ di tempo ad ascoltare quello che ho consigliato, ma certo non ci spenderà soldi senza aver prima “toccato con mano”.

Quante copie vende il mucchio?

Dolenti note. Più di Rumore, Blow Up o Rockerilla, ma sempre poco: fra edicola e abbonamenti, una media di settemila copie al mese. Tutte le riviste, di qualsiasi genere, hanno subito crolli di vendite.

Con i finanziamenti pubblici come state messi? Leggevo qui che fino al 2011 vi arrivavano circa 500mila euro. su 8000 copie al mese vuol dire più di 5 euro a copia. ora?

Premetto che non sono né sono mai stato parte della società editrice del Mucchio, né ho mai avuto ruoli che avessero a che fare con la gestione del denaro. So comunque per certo che quelle cifre, reali qualche anno fa (quando si vendeva anche di più), sono state notevolmente ridimensionate, oltretutto retroattivamente: insomma, i rimborsi previsti per il passato – c’è sempre un ritardo di due anni – per spese già sostenute, sono stati pesantemente decurtati. È stato questo a causare, all’inizio del 2012, i problemi che hanno quasi portato alla chiusura. Comunque, quando si parla di contributi, quasi tutti pensano che si tratti di soldi regalati e nessuno dice che per avervi accesso è obbligatorio avere personale regolarmente assunto – per la cronaca, non io – e sostenere tutta una serie di spese che creano lavoro che altrimenti non ci sarebbe. La situazione attuale? Non è affatto buona, purtroppo. Daniela Federico ha spiegato tutto dettagliatamente nell’editoriale del numero di febbraio, ma non sono previste campagne salva-Mucchio tipo quella dell’anno scorso. (NdFF da Febbraio il Mucchio ha avuto una notevole diminuzione di pagine, tra le altre cose)

Nel dettaglio, a che spese extra bisogna far fronte quando hai accesso ai contributi statali?

Non essendo mai stato socio della Stemax o di altre strutture affini non conosco i dettagli alla pari di un amministratore. So comunque per certo che ci sono obblighi di un numero minimo di dipendenti con contratto a tempo indeterminato (alla Stemax, negli ultimi tempi, quattro), che il commercialista deve essere molto bravo, che i bilanci devono essere certificati da una costosissima società di revisione… In pratica, la Presidenza del Consiglio dei Ministri esamina la documentazione presentata e, con un paio d’anni di scarto, decide se rimborsare oppure no una parte delle spese. Anni fa era tutto molto più vago, tipo “basta dimostrare di aver speso 100 e viene restituito 50”, mentre negli ultimi anni ci sono stati notevoli giri di vite: adesso continuano a rimborsare, ma praticamente solo una parte delle spese relative all’affitto, alla stampa dei giornali (quindi, carta e tipografia) e ai dipendenti. Scelta secondo me giustissima, ma che ha una sola, enorme “stortura”: viene applicata anche a rimborsi del passato che, per consuetudine, si ritenevano “promessi”. La fregatura sta nella retroattività: determinati soldi non sarebbero stati spesi in partenza, se si fosse saputo che non sarebbero più stati soggetti a parziale rimborso.

In questi giorni mi prende male perchè alla fine sono usciti pezzi di Cilìa e Del Papa sul loro blog e poi s’è iniziato a capire che il mucchio verrà esfoliato e tutto questo genere di cose, alla fine sono anni che sento raccontare la stessa cosa da angolature diverse e -boh- la prima cosa che viene da pensare, ormai, è che sarebbe convenuto chiudere baracca, mettersi d’impegno, rifondare un’altra rivista -o insomma, un altro progetto dal niente- e vedere cosa se ne sarebbe potuto tirar fuori. magari non ci si sarebbe cavato un ragno dal buco, ma almeno non si sarebbero passati due anni a chiedersi chi ha la colpa di cosa. mettiamo che dovessi fondare un nuovo progetto adesso, che progetto sarebbe? chi chiameresti a lavorare?

L’enorme crisi dell’editoria in genere e di quella musicale in particolare taglia le gambe a qualsiasi ambizione: una rivista indipendente avrebbe ben poche chance di sopravvivere, una sponsorizzata da un grande editore – e quindi in grado di far sapere al pubblico la sua esistenza – non venderebbe comunque abbastanza da giustificare un grande investimento anche promozionale. A livello personale, con l’editoria “ho già dato” quando ho creato “Velvet”, nel 1988: non so se rischierei di nuovo, oggi, di lanciarmi in una simile impresa, a meno che non fossi schifosamente ricco. E non lo sono. Se poi vogliamo fare un discorso puramente ipotetico, una mia eventuale nuova rivista sarebbe una specie di incrocio fra Mucchio ed Extra, con un piccolo settore per cinema, libri e attualità legati (anche solo per affinità) alla musica, con grafica estremamente semplice e un bellissimo sito.  E ci scriverebbero tutti i “miei” attuali collaboratori del Mucchio più tutti quelli “da Mucchio” che purtroppo scrivono su altre testate (Maurizio Blatto, per esempio). Il tutto con autorevolezza ma senza eccessi di seriosità. E, naturalmente, senza cercare di accedere a contributi pubblici.

Capisco il tuo discorso sul ricominciare da zero, ma ti pare che avremmo mai dato questa soddisfazione all’ex direttore? E, comunque, l’idea in questione potrebbe essere applicata solo dalla proprietà: insomma, se per assurdo tutti andassero via, la proprietà continuerebbe a fare uscire in qualche modo il giornale.

Forse hai ragione, quello che mi indispone personalmente è il fatto che tutti i giorni se ne perde un pezzo, Stefani che abbandona la nave o viene buttato in acqua e tutti i tiramolla  tra i vecchi e i nuovi e poi lo strappo con Cilìa e tutto il resto. vabbè. mi citi Blatto, che insomma come si fa a non amare quello che scrive ma è uno ed è pop. tutto il resto più o meno sarebbe immutato sia come forma che come contenuto, quindi insomma lo scenario che mi figuro è sempre lo stesso: le riviste di musica, ma anche i siti, ridotti a lavorare con la stessa gente che ci lavorava 15 anni fa, più o meno, e lette dalle stesse persone che le leggevano allora. Una cosa che scriveva Ceronetti o che io mi mettevo in testa quando leggevo altre cose scritte da Ceronetti è che non dobbiamo avere paura dell’apocalisse, della recessione e del rinnovamento. ti pongo la stessa questione che ho posto ad altri: quello che ci piace di più scrivere e leggere sulla musica è roba perlopiù antiquata e costruita su sistemi di pensiero vecchi come il cucco, che -visto che in qualche modo tu che hai 50 anni ti ci puoi definire un’autorità- è più che giusto vengano abbattuti quanto prima da altra gente con la metà dei nostri anni e che pensa in un modo diverso e più elastico. voglio dire, I DISCHI, la promozione dei dischi, le recensioni dei dischi, le interviste ai gruppi, tutte quelle robe lì, son cose con la muffa. la roba che sta succedendo è tutt’altra, più elastica e tranquilla e senza tanti cazzi. il video caricato sul tubo a sorpresa, kevin shields che minaccia di pubblicare un disco tra due giorni senza averlo fatto sentire a nessuno, questa roba qui. quello che si ottiene col fatto di essere così tanti trentenni in giro per i festival europei è che ci si becca due reunion diverse dei Black Flag la stessa settimana, o che in alternativa Bob Mould finisca sulla copertina di un Blow Up con uno dei suoi dischi più noiosi e allineati di sempre (è la stessa cosa).

Si tratta insomma del fatto che non vedo cose nuove, non so nemmeno che forma potrebbero avere a parte mettere in streaming il disco del gruppo. la prima volta che salta fuori un’idea decente andiamo tutti a compilare il curriculum, e secondo me non è una cosa con cui si può pensare di essere operativi. 

Un bel sito servirebbe appunto ad assecondare tutte le piccole e grandi follie del “moderno”, fungendo al contempo da vetrina promozionale per la rivista. Per come la vedo io, una rivista – magari con distribuzione minima solo in alcune città e in abbonamento – è ancora il naturale complemento di quello che può essere sviluppato sul web, una cosa “in più” che comunque può piacere e interessare a un numero di persone sufficiente a consentirne la sopravvivenza. Qui nessuno ha chissà quali ambizioni o vuole arricchirsi, si vorrebbe solo soddisfare un’esigenza di un pur ristretto pubblico ricavando da ciò un compenso dignitoso. In Italia ci sono sessanta milioni di persone, per campare senza rischi basterebbe essere acquistati da diecimila. Mica voglio cambiare il mondo, mica pretendo di arrestare il progresso… dico solo che conosco un sacco di gente, ultratrentenne ma anche in piccola misura giovane, che ama quello che tu chiami muffa e vuole continuare a viverla, fottendosene se la cosa non è… gggiovane, trendy, cool o come vuoi definirla. A me una rivista di nicchia, per un pubblico di pochi eletti, andrebbe benissimo, e non la vedo così incompatibile con tutta l’infinità di input dai quali siamo quotidianamente bersagliati attraverso la Rete: la gente normale non ha mica il tempo di star dietro a tutto questo circo, e ha bisogno di qualcuno che gli suggerisca a quali musiche, artisti e dischi dedicare le poche ore settimanali che ha a disposizione per lo svago. Kevin Shields minaccia di pubblicare un disco fra due giorni? Ottimo. Ma se l’impegato di Rho quel disco lo ascolta fra due mesi invece di dopodomani… che differenza fa? Bisognerebbe liberarsi – e lo dico anche a me stesso, eh – di tutta questa maledetta frenesia, di questa corsa all’apparire immediatamente sul Web con i propri cazzo di pensieri. E prima o poi, spero, la situazione diventerà più normale: arriva l’onda, ma poi c’è il riflusso.

Ma non è per una questione di giovane o trendy o cool, è una questione di MUFFA. cioè io posso tranquillamente passare il resto della vita a scrivere di dischi e concerti sul mio blog, ma sono un VECCHIO senza ragione di esistere e spero -un giorno non troppo lontano- di dover bussare all’impazzata alla porta di mia figlia urlando spegni questo casino, perchè credo i nostri figli si meritino di scaricarci giù per il cesso in favore di qualcosa di più intenso. e quindi in qualche modo che la loro musica si metta di traverso e voglia negare alla nostra l’esistenza. non so se riesco a spiegarmi. ti faccio un esempio: quando ero ragazzo e leggevo le riviste di musica c’erano le riviste che leggevo io e poi c’erano i Castaldo o Assante o Bertoncelli o i rottinculo che provavano a ficcarti i Pink Floyd in gola, e questa cosa di disprezzare la musica dei Pink Floyd e ascoltare il death metal per me è molto sana perchè ha definito la mia generazione come una cosa che stava succedendo negli anni in cui stava succedendo. oggi un 35enne riesce a capire, o riesce a fingere di capire, qualsiasi musica ci sia là fuori, ma secondo me qualsiasi musica comprensibile da un 35enne è sbagliata. comunque capisco che sono io. 

Ribadisco: ma a me, o a chiunque altro, cosa importa di cosa sia giovane o vecchio? E non è una forzatura voler per forza vedere certa musica come antagonista alla musica e al “sistema” preesistenti? Sono vecchio? E ‘STI GRAN CAZZI, scusami. Al mondo c’è spazio per tutti i punti di vista, e se la psichedelia rigorosamente anni ’60 o il grindcore avessero un pubblico sufficiente a sostenerle, perché mai non dovrebbere esistere riviste dedicate a questi generi, dedicate all’approfondimento di queste cose? Ma basta con questa cazzata delle “rottamazioni”, che ognuno si ascolti quello che vuole lui e non rompa i coglioni a quelli che vogliono ascoltare altro, vecchio o nuovo che sia. La musica rock (e dintorni) è una forma di linguaggio e di cultura come tante altre, che si presta a essere analizzata, storicizzata, contestualizzata SERENAMENTE, senza conflitti generazionali. Non capisco il senso di certa musica elettronica di oggi? Amen, non ne scrivo. Però magari il senso di Dylan e dei Social Distortion lo capisco, e scrivo di quello… che non ha meno valore della musica elettronica o di quello che vuoi tu.

Scusa se te lo dico, ma di rado ho sentito un discorso più fuori del mondo del tuo.

Un altro discorso è quello della distribuzione limitata, voglio dire, se il mucchio lo legge una persona ogni diecimila, cioè tipo 10 persone in tutta Ravenna, tanto vale non distribuirlo, o distribuirlo al negozio di dischi e vaffanculo. quante copie si stampano e quante se ne vendono?

Alla fine si vende circa il 30% di quello che si stampa: quindi, certo, la distribuzione “mirata” sarebbe meragliosa sotto ogni profilo. L’ideale sarebbe che tutti gli affezionati si abbonassero al cartaceo, in modo da fissare una tiratura pari al venduto sicuro. Si potrebbe poi studiare una piccola diffusione nelle edicole solo nelle principali città, e per il resto puntare sui pdf. In ogni caso, si tratta di una faccenda parecchio complessa. Nei negozi di dischi? Si potrebbe fare, magari affidandosi a un Self, un Audioglobe o un Goodfellas, ma non mi sembra che i negozi di dischi se la passino bene… e comunque ci sarebbe il problema dei resi delle copie invendute.

e poi iniziamo a parlare del crowdfunding.

Mio dio, e perché? 😦

Perchè è importante. l’altro mese, ai tempi della tua polemica con Moltheni, ho messo online un pezzo sul crowdfunding che parlava molto in negativo di certe cose che vengono fatte. Di solito quando metto un pezzo del genere arriva qualcuno a darmi del rosicone e mi dice di vivere e lasciar vivere (che nella musica per me è la cosa più sbagliata che si possa fare), invece per il crowdfunding ho trovato quasi solo gente interessata al discorso. e poi alla fine credo che nel 2013 sarai più ricordato per come ti sei messo di traverso in un certo momento, che come uno che ha sostenuto/scoperto questo o quel gruppo. voglio dire, chi ha più bisogno di scoprire i gruppi?

Oddio… sì, certo, negli ultimi anni il ruolo del giornalista che si occupa di musica è parecchio cambiato e in effetti con lo scoprire gruppi c’entra ormai pochino, ma spero davvvero che non sarò ricordato – sempre che lo sarò, ricordato – per avere innocentemente alzato il ditino e affermato, con un post di due righe su facebook, che mi sembrava si stesse iniziando ad abusare malamente di una pratica in sé valida che, fra l’altro, esiste da un bel po’ anche su Internet e che adesso si sta perfezionando o, se preferisci, “industrializzando”. Io non ho assolutamente nulla contro lo strumento crowdfunding e mi va benissimo che Giovanni Gulino o qualsiasi altra persona per bene allestisca una struttura seria per sostenere quanti vogliono applicarlo e che per questo guadagni una percentuale. Però, da addetto ai lavori che in questo ambiente vive e lavora da quasi trentacinque anni, mi permetto di osservare che tutto questo trionfalismo mi sembra eccessivo: ovvio che il crowdfunding può essere di grande aiuto per trasformare alcune belle idee in realtà, ma considerarlo la panacea per tutti i mali della musica italiana è a mio avviso una pia illusione: basti vedere come, immediatamente, chiunque ci si sia buttato a pesce per cercare di realizzare progetti pretestuosi e inutili, anche offrendo prestazioni discutibilissime in cambio del sostegno economico ricevuto. E chissà quante altre ne vedremo.

Il “vivi e lascia vivere” è il nemico non solo della musica ma di tutta questa nostra società di merda. Ma poi, scusa, perché “rosicone”?

beh c’è una mentalità diffusa (specie all’interno della musica italiana) di considerare un pezzo pieno di insulti come il parto mentale di uno che rosica, o di uno che ha dei conti suoi da regolare o cose così. Tipo qualche settimana dopo ho scritto un pezzo sull’ultimo disco dei Baustelle, manco negativissimo, e su Facebook mi hanno dato del nazista e dell’attention whore -oddio dell’attention whore mi son beccato anche oggi a pranzo per una stroncatura dei Muse. Allo stesso momento qualcuno è arrivato nei commenti a dare del minorato a Bianconi, così più o meno a cazzo, che alla fine è come dare del nazo a me per avere scritto il pezzo. Non puoi negare che questa cosa delle ruggini sia una delle dinamiche-chiave, voglio dire, tra te e moltheni (per dire) il confronto non è stato sulle posizioni in merito alla cosa, ma su chi ha insultato prima chi altro e chi si è comportato peggio nel passato… Alla fine la cosa che mi piace di più dei blog è il fatto che nessuno li confonde per delle riviste, e che siano posti talmente piccoli e insignificanti da far sì che ogni tanto ci passi dentro anche qualche pezzo che sa di vero.

Io credo che anche sulle riviste vengano fuori pezzi autentici. E poi, con quello che contano oggi le riviste, non vedo i blog – certi blog, almeno – così insignificanti. Ma poi in questo processo Internet sta facendo danni pazzeschi. Se io stronco qualcuno sul Mucchio, mezz’ora dopo l’uscita in edicola del giornale la mia recensione è “condivisa” e dal trentunesimo minuto in poi i fan si scatenano nel darmi del coglione. La cosa più sorprendente è che alcuni mi scrivono chiedendomi “ma cosa ti hanno fatto?”, e rimangono basiti dalla mia risposta “nulla, non li conosco neppure, penso solo che facciano cagare a spruzzo e trovo che il loro disco sia un oltraggio per la musica”. L’ulteriore replica che immancabilmente mi arriva è “ma allora non potevi far finta che non esistesse?”. E allora mi arrendo.

La storia di Moltheni/Giardini è lì sul mio blog, chiunque voglia farsi un’idea basata su fatti reali e non su chiacchiere, la leggesse tutta.

Beh ma alla fine questa mentalità è basilare, bisogna senz’altro parlarne. per esempio, boh, qualche anno fa davo una mano a un tizio che aveva un’etichetta e lui si prendeva malissimo, MALISSIMO, se gli stroncavano un gruppo. Cioè era seriamente convinto che una persona avesse tutto il diritto di schifare il gruppo a man bassa e non dovesse mentire per nessun motivo, ma che una stroncatura proibisse al gruppo di evolversi, diciamo, e quindi non andava pubblicata. Un’altra citazione che potrei farti è quella del mio amico Enzo Polaroid, che dice che il fatto di NON parlare di un gruppo, nell’evoluzione di internet, sia l’unico vero criterio di esclusione. Ho sempre pensato che fossero cazzate tonanti ma la verità è che un po’ questo approccio lo seguo. Non dico nel non parlare dei dischi brutti (parlo quasi solo di dischi brutti), ma per dire, anche solo nella lista dei dischi che escono non sto a vedere se uno ne parla bene o male ma CHI ne parla. Qualche giorno fa ho ascoltato l’ultimo disco degli hair police perchè l’ho trovato su Nodata, dopo almeno sei anni che non ascoltavo un disco degli hair police, e il disco è pure molto bello. la stessa cosa succede per esempio nel leggere una stroncatura su pitchfork o sul mucchio o dove sia, non lo so. voi per dire sul mucchio avete un numero di recensioni piuttosto misero sul quantitativo totale di recensioni di altre riviste/siti, che mi dicevi è frutto di una selezione. magari la strada è questa, non lo so. che criteri usi per dire se una cosa finisce nelle rece del mucchio o no?

Ho sempre pensato che le stroncature facciano benissimo: possono aiutare a riflettere, a porsi delle domande. Magari non fanno piacere, ma se l’artista stroncato non è del tutto ottenebrato dal proprio ego può ricavarne qualche lezione. Per quanto riguarda il Mucchio, abbiamo optato per recensioni mediamente lunghe (non “francobollini”, insomma) e sempre ben ordinate e visibili (la copertina non manca mai), fregandocene della quantità: visto che scrivere di tutto è impossibile, ogni mese inserisco tutti i dischi più importanti in linea con le tradizioni della rivista, di artisti sia vecchi che nuovi, e un tot delle cose migliori di ambiti più “laterali”. Ogni collaboratore propone quello che lui potrebbe recensire e io tiro un po’ i fili, assegnando poi (o facendo direttamente io) quello che secondo me “manca”. Guardiamo in faccia la realtà: ci sono migliaia di appassionati di musica che, non essendo fancazzisti ma avendo un lavoro, una famiglia e quant’altro, non hanno proprio il tempo e la fantasia di star dietro al delirio delle uscite. Tutti costoro hanno piacere che qualcuno ritenuto competente gli segnali qualcosa di valido e di interessante, quei due-cinque-dieci dischi al mese che magari potrebbero piacergli. Un sacco di gente se ne strafotte delle centinaia di altri dischi che potrebbero appassionarli, anche perché sa che non avrebbe la possibilità di ascoltarli/approfondirli tutti: preferisce, invece, che qualcuno gli dica “ecco, prova questa band all’esordio” e che gli faccia sapere come sono gli ennesimi album dei suoi artisti preferiti, quelli che segue da sempre.

Ultima cosa. Se uno mi dice il tuo nome io in genere lo associo al nuovo rock italiano nel senso del libro di alberto campo, per capirci, quelle robe che andavano come il pane una dozzina di anni fa e che poi hanno avuto la loro (non) evoluzione. io mi ci sto iniziando ad affezionare nell’ultimissimo periodo perchè i gruppi stanno iniziando ad avere sempre meno senso del reale; gli afterhours di padania, per dire, o i bachi da pietra dell’ultimo disco sono gruppi fuori dal tempo, hanno questi dischi che suonano fuori controllo e quasi collassati sui nervi. I baustelle han fatto un concept album (bellissimo, peccato per i testi) sui sepolcri, l’ultimo disco dei verdena era tipo Tommy, robe così. ci son gruppi tipo lo stato sociale che hanno perso quasi tutto il senso dell’umorismo che si richiederebbe alla musica che suonano e in questo (ok, per me) diventano roba grandiosa, odio puro in formato pop plastificato. non lo so, la domanda credo sia -come ti sembra questa roba rispetto a quello che era dieci o venti anni fa? è comunque questa la roba da ascoltare? ce n’è altra da ascoltare di più?

Mi occupo assiduamente di rock italiano dal 1980, non solo di artisti famosi ma anche di emergenti, e quindi l’accostamento è più che legittimo, anche se è solo uno dei miei campi d’azione professionali. Capisco cosa vuoi dire e, sì, non hai torto: molti gruppi e solisti affermati – e i tuoi esempi sono azzeccatissimi – sembrano puntare a produzioni sempre più complesse, sofisticate e concettuali, anche se con un linguaggio che quasi sempre rimane rock e spigoloso. Se però vuoi paragonare costoro alle star del progressive degli anni ’70, e quindi roba come Lo Stato Sociale al punk, credo tu sia fuori strada. Per come la vedo io, non c’è nessun odio: sono solo cazzeggi e pantomime di gente priva di talento che pensa a divertirsi, a giocare a fare la pseudo-rockstar con tutto ciò che questo comporta in termini di fama su YouTube e Rockit, concerti pagati anche decentemente, ubriachezza molesta ed eventuale sesso promiscuo. Non ci sono intenti pseudo-rivoluzionari e non c’è nessuna ingenuità o naturalezza: sono solo paraculate costruitissime volte all’autogratificazione, non è rock’n’roll né tantomeno arte: sono miserie di stagione, buone al massimo per farsi due risate, che di sicuro non dureranno. Molta della musica di dieci e vent’anni fa era fatta per durare, e infatti ancora dura. Poi, certo, per qualcuno la musica da ascoltare sarà questa, ma non lo è per me: io amo la musica che trasmette sensazioni ed emozioni forti, o che quantomeno abbia fra i suoi requisiti una certa “classe”.

Non la penso così. o meglio, c’è una cosa interessante che dici tra le righe, che è quella delle dinamiche. cioè che in qualche modo la nostra idea sulla musica (in questo caso dello Stato Sociale, per dire) è che debba riprodurre una dinamica già vista in passato, l’idea della rottura, l’idea di punk. per dire, oggigiorno chiunque si riempie la bocca di punk quando evidentemente mancano proprio le basi concettuali su cui il punk si è costruito e imposto, o non imposto. il fatto che si possa fare un disco in cameretta e che questo disco rispetti ogni canone di professionalità e vendibilità mi sembra innegabile, vedi ad esempio I Cani che sono una one-man-band da cameretta e al contempo il grande evento di pop italiano del 2011. però i Cani non sono punk, mi sembra un’offesa al punk e a noi stessi e soprattutto ai Cani che sono molto più complessi e contemporanei. Sono un gruppo che fa una cosa oggi in un modo che è diverso da come poteva essere negli anni ottanta o novanta o primi duemila. Lo Stato Sociale ha una sensibilità ancora diversa, degli altri obiettivi e un modo diverso di porsi. La stessa cosa succede a un sacco di altri gruppi, anche internazionali ma io la vedo molto nella musica italiana. Persino Trucebaldazzi, che alla fine per uno come me è l’incarnazione stessa del punk, in realtà è tutta un’altra cosa, un fenomeno puro che non c’entra né col punk né col rap né col pop. Questo sarebbe poi lo stesso discorso di cui ti parlavo sopra, siamo legati a dei canoni critici che ci stanno morendo e noi facciamo finta di niente, o semplicemente non comprendiamo le cose e proviamo a ricontestualizzare tutto. anche solo l’idea che dicevi sopra di internet, “internet ha fatto dei danni qui e ha aiutato qua”, non credo si possa più pensare al modo in cui “internet influenza la musica”. sarebbe come dire “in che modo il CD influenza la musica?”. la musica è su CD ed è su internet. forse si potevano fare dei discorsi del genere fino al 2000, ora non credo. Tra qualche giorno arriva in italia Spotify, tutta la musica a cui si può pensare in streaming legale. Non si può essere pro o contro Spotify, per dire, o pro/contro Soundcloud, stanno lì, è un po’ come essere contro la fine del PCI. no?

Tutto molto sensato, ma ciò non significa che tutto il mondo debba adeguarsi alla modernità reale o presunta, o essere “contro” questa modernità. Per come la vedo io, che ho una certa età ma che vorrei tanto essere molto più vecchio invece che molto più giovane, vedo solo un’assurda, demenziale corsa a chi è più aggiornato: tutti a star dietro all’ultimo smartphone, all’ultima applicazione, all’ultimo giochino on line, all’ultimo blog alla moda, all’ultima band con il nome stupido, all’ultimo ritrovato per salvare la musica. Io, e come me tanti altri, osservo tutto ciò e lo analizzo secondo i miei parametri, che sono gli stessi di tanti altri. E scelgo come muovermi, come regolarmi, anche contestualizzando in base a parametri che ritengo comunque validi. In ogni caso, lo Stato Sociale o chi per loro non sta facendo proprio nulla di “nuovo”, non fa altro che adattare all’oggi una serie di concetti che esistono da quando esistono il rock e il pop e forse anche da prima che esistessero. Quindi, per quale motivo dovrei dire che “non comprendo”? Io credo di comprendere, anche perché non vivo in una torre dalla quale pontifico: magari vivo l’attuale “società musicale” con un certo cinismo, un certo distacco dato dall’esperienza, ma non penso di essere meno lucido di un ventenne che di tutto quello che è successo ieri non sa nulla. Anzi, penso esattamente il contrario: conosco quello che succede e lo valuto secondo canoni che mi sembrano tuttora adeguati, al di là di qualche piccola contingenza. Ho vissuto in diretta l’ascesa dei cantautori italiani, il progressive, il krautrock, il punk e il post-punk, l’hardcore, il neo-Sixties, il grunge, lo shoegaze, il post-rock, il britpop, il nu-metal e tutto il resto, e ho raccontato molti di questi fenomeni in modo – credo – corretto… e adesso dovrei sentirmi inadeguato di fronte a Lo Stato Sociale? Dai, su.

nelle puntate precedenti:

Il listone del (ehm): SEI MOTIVI PER CUI LA FNAC E SIMILI NON SONO “NEGOZI DI DISCHI”

Oggi in giro per l’Italia c’è uno sciopero dei dipendenti di FNAC, una catena di negozi giganteschi specializzati in tecnologia e affini che forse chiude alla fine dell’anno per questioni di politica commerciale. Fermo restando il problema di fondo della cosa, che non discuto e con il quale sono solidale (la fregatura di essere comunisti è che c’è un lato oscuro in quasi tutto quello di cui parlo, almeno gli altri possono dare la colpa a qualcuno), stavo cazzeggiando sul forum del Mucchio e la chiusura della FNAC è commentata sul thread “la morte dei negozi di dischi”. E siccome siamo in debito di un listone, vi appioppo sei motivi per cui nonostante il fatto che la FNAC di Milano (l’unico punto vendita in cui sono entrato) abbia un piano intero e sterminato dedicato ai CD, non si può parlare di FNAC e di altre cose come di negozi di dischi.

L’ODORE

Entri in un centro commerciale e c’è un odore da centro commerciale, vale a dire aria vagamente viziata e/o ricircolante ma indiscutibilmente pulita e sterilizzata come se ci fossero persone pagate per passare lo straccio per terra tutte le sere. Gli scaffali sono puliti, i dischi sono in ordine e l’ordine in cui sono i dischi è deciso a tavolino da una persona deputata a farlo. In un negozio di dischi serio c’è un odore di roba polverosa dimenticata lì da anni, vale a dire qualsiasi disco in vinile che è rimasto in groppa al negoziante e/o è passato di mano un paio di volte e si è deteriorato nei bordi. L’odore di dischi sfatti nei grandi centri non c’è.

I PREZZI

Non è tanto una differenza nei valori assoluti, non è che da una parte compri a più soldi che dall’altra. La principale differenza tra i prezzi dei supermercati e quelli dei negozi è che i prezzi dei supermercati sono quasi tutti a tot euro e novanta. Inizialmente immagino fosse stato pensato per dare l’illusione di un risparmio, tipo diciannove e novanta invece che venti, poi semplicemente le persone e le catene si sono assuefatte e sembra che non possano fare a meno del .90 alla fine. In un negozio di dischi serio il .90 sta SOLO nei dischi a prezzo imposto, tipo le promo a 9.90 delle major, o cose così. I dischi nei negozi di dischi costano tot euro tondi, o (se la moglie del negoziante non gliel’ha data la sera prima) tot euro e cinquanta. Le ragioni sono molteplici: per prima cosa, nonostante quello che si dice di loro, la maggior parte dei venditori di dischi non sono dei manigoldi di merda con la fissa del marketing. Secondo, la maggior parte dei negozianti che conosco preferirebbe uccidersi che passare la vita a trafficare con pezzi da dieci centesimi. Terzo, un numero consistente di questi semplicemente non ha gli strumenti concettuali per considerare la cosa.

IL CATALOGO

Andare alla FNAC, o in un altro posto ugualmente fornito, è un’esperienza totalizzante. Possiedono titoli ascrivibili più o meno a qualsiasi genere musicale conosciuto dall’uomo, compreso il rumore delle rane dello stagno con le arpe sullo sfondo, e altre cose paragonabili. Entrare in un buon negozio di dischi, quantomeno per motivi di spazio, impone di mettersi nell’ordine delle idee del negoziante. Non trovi TUTTO, trovi una fetta minuscola di scibile in merito alla quale il negoziante cerca di saperne più di chiunque altro nella sua città, allo scopo di salvare la vita ai suoi clienti.

LO SWAG

Puoi entrare al supermercato da ragazzino sedicenne e spulciare dischi per due ore e mezzo nella speranza di trovare un’illuminazione o un indirizzo, e l’unica cosa che rischi di beccarti è un commesso che di tanto in tanto passa lì vicino casualmente per controllare che non ti freghi dei dischi. Nei negozi di dischi, quando hai sedici o diciassette anni, impari nel giro di brevissimo che non è aria. Il negoziante è un barbone con il male di vivere, ha quarant’anni, è miope, sa cose che tu non sai (tipo il nome di tutti i componenti dei Noxagt) e non sembra avere aperto il negozio per te. So che sembra un punto a sfavore dei negozi, ma una buona parte della mia infarinatura musicale l’ho dovuta fare per capire di che cazzo stessero parlando il commesso e certi clienti fedeli.

LA GENTE

I clienti fedeli di cui sopra. Non è che succeda spessissimo, ma alle volte ti metti a chiacchierare con la gente in un negozio di dischi e ti trovi in mezzo alla discussione della tua vita. Questo succede perché nei negozi, il sabato all’ora di punta, sei tipo in cinque quando va bene. Qualcuno parla ad alta voce e ti senti libero di commentare. Ci ho tirato fuori anche degli amici, o quantomeno gente che vedo ogni tanto a un concerto e la saluto, ma non è nemmeno questo il punto –il punto è che questa cosa nei grandi magazzini non succede, sei da solo in mezzo ai cartonati di Giorgia e stai spulciando alla voce Musica Internazionale – lettera P nella speranza di trovare un disco dei Pinback buttato a caso in mezzo a quelli dei Pink Floyd. A volte torni a casa con l’illuminazione, altre volte torni a casa con un disco dei Pinback, più spesso torni a casa con le pive nel sacco.

IL CONTO

Alla FNAC o nei supermercati o su Amazon (comprare dischi su internet è come comprarli ad un emporio, grossomodo) il conto alla cassa è la somma dei prezzi dei singoli CD più eventualmente il coupon del buono sconto. In un negozio di dischi questa cosa succede meno spesso. Se conosci il negoziante il prezzo del CD tende ad essere scontato a cazzo, a volte ti regala un disco su quattro o cinque e via di questo passo. Non è che sto qui a dirvi che a comprare nei negozi si spende meno, ma insomma.

STARE BENE

Nei grandi empori della musica ci si va per comprare dischi. Nei negozi di dischi ci si va per stare bene, e poi già che ci sei compri un disco. È diverso. Frequentare i negozi di dischi presuppone che tu sia una persona a cui piace andare in un negozio di dischi e che nei negozi di dischi ama guardare i dischi (e non, che so, i dischi e le reflex digitali).

Il listone del martedì: DIECI COSE CHE CREDETE VERE IN MERITO ALL’INDIE ROCK E INVECE

Questo listone ha padri putativi nobili, si fa per dire. Non vogliamo (non è vero, vogliamo) reintervenire nel dibattito su cosa s’intende per indie oggigiorno, non vogliamo cagare ulteriormente il cazzo alLo Stato Sociale e quando parliamo al plurale in realtà intendiamo io, che mi chiamo Francesco e ho idee bizzarre e stupide sulla faccenda. Questo listone si basa su un paio di assunti teorici:

1)      la parola INDIE non identifica più un genere musicale trasversale e di supermoda fatto di gente vestita in modo pittoresco che passa il tempo a fotografare il proprio duckface ma –come da senso originario- musicisti che suonano generi musicali imparentati con il rock e non operano nel mercato discografico emerso, lasciando a quelli di cui sopra l’altrettanto improprio appellativo di hipster.
2)      Questa cosa è comunemente accettata.
3)      Niente, solo le prime due.

Il dibattito sta impazzando furioso, cioè nell’ultima settimana ho letto più di un post in merito, nella fattispecie un tirone di Hamilton Santià e Simone Dotto rilanciato da Enzo Polaroid e messo in pari a un articolo di Birsa su Vice. Riassunto: nel mondo dell’indie attuale tira aria nuova, ma l’aria nuova è la stessa aria nuova che tirava prima che tirasse aria nuova e ha lo stesso identico odore dell’aria che hai mollato per cambiare aria. C’è stato un ricambio generazionale e non è contato un cazzo. Oggi i gruppi si riuniscono un po’ e nel farlo vendono (svendono) l’integrità di essersi suicidati prima che andasse tutto a puttane in cambio di non essere più morosi con le rate dell’appartamento a Providence. Le risposte che si possono dare sono diverse, dalla polaroidesca bisogna senz’altro considerare l’idea che probabilmente abbiamo sempre voluto tutti quanti la stessa cosa, o quantomeno ora è così alla birsesca VAFFANCULO. Noi, sempre inteso io, non abbiamo le idee chiarissime in merito, ma è innegabile che siamo di fronte al primo periodo interessante nella storia della musica dai tempi in cui si sussurrava fosse in corso un’asta tra le major per mettersi in scuderia gli Earth Crisis. La battaglia da combattere non è più contro un sistema ben identificabile come mainstream, ma contro una serie di accettabilissime soluzioni di compromesso che stanno svuotando di significato la musica che ascoltiamo senza che nessuno (a partire dai giornalisti/blogger musicali, il più ridicolo branco di mentecatti di cui abbiamo mai fatto parte a parte forse i boyscout e il Club degli Editori) abbia sviluppato un sistema immunitario che faccia suonare un campanello d’allarme. La seguente lista di false credenze in merito all’indie rock vorrebbe essere uno spunto di riflessione, esauritosi peraltro nella nostra riflessione da qui a quando abbiamo chiuso il pezzo, e tralascia volutamente (non è vero) le declinazioni etiche del discorso. Il fatto che sia giusto o sbagliato rendere del proprio mestiere un mestiere o quanto ti renda una persona migliore scopare di più, cioè saper suonare un basso, non è una cosa che c’interessa. Nè tantomeno se condurre una vita/carriera da musicista indie sia in qualche modo una cosa auspicabile. Ci teniamo volutamente a distanza di questo genere di cose per rivendicare orgogliosamente il nostro ruolo di ascoltatori puri e di indierockers impuri, non siamo parti in causa del discorso, abbiamo pochissimo da perdere e quel poco che abbiam da perdere non sono soldi. E nel caso qualcuno se lo chiedesse, indie è un modo puccioso di dire indipendente. Continua a leggere