Piccoli fans: GERMANOTTA YOUTH

"Pronto, casa Bolognesi? Noi semo romani, si venimo lì ve famo un culo così!"

Nella stanza era calato il silenzio. “La camera si è svuotata come sono svuotato io” pensò lui. “Non c’è una legge della termodinamica che dice che il calore non si può distruggere, ma solo trasmettere? Però c’è anche l’entropia.
In questo momento sento il peso dell’entropia su di me. Mi sono scaricato nel vuoto, e non riavrò mai quello che ho dato. È un processo a senso unico. Sì. Sono certo che questa sia una delle leggi fondamentali della termodinamica.”
(Philip K. Dick, Scorrete lacrime, disse il poliziotto)



Ogni epoca ha l’icona pop che si merita: ieri Madonna, oggi Lady GaGa, domani cazzi vostri. Intanto c’è di che fottersi il cervello ora con il nuovo progetto di un sempre più incattivito Massimo Pupillo (se non avete anche solo una vaga idea di chi è e cosa fa andatevene immediatamente affanculo lontano da qui) e altri due regazzi de Roma, il metallaro Andrea Basili alla batteria e lo smanettone Fabio “Reeks” Recchia alle pianole e altre robe strane piene di valvole; quel che insieme hanno tirato fuori è roba che il Whitey Album se dovrebbe vergognà e annasse a nasconne. Non fosse bastato il micidiale The Harvesting Of Souls dello scorso anno (con dentro il pezzo definitivo per questi tempi: Indie rock, fuck off), rincarano la dose ora con un 7” che ti incrina le sinapsi già da titolo (che cita i Pere Ubu) e copertina (opera di uno scatenato Ice One). Dentro è un delirio che posso solo tentare di riassumere in: Crom-Tech, Genghis Tron, Locust, certa roba DHR assurda tipo Patric Catani, le colonne sonore di Cruising e Midnight Express in un frullatore assieme ai circuiti di un Amiga 500 e a badilate di speed, dei Fuck Buttons strafatti di crack che tentano di suonare cover dei Repulsion con una piovra alla batteria, i pezzi belli di Wonderful Rainbow dei Lightning Bolt ma senza la vocetta fastidiosa, suonini da videogame obsoleto tipo Pitfall però mandati a male, Suffocation, Philip K. Dick, benzedrina, Mega Man 3, morte, distruzione, odio per la razza umana. A che pro ascoltare altra musica?

 

Germanotta Youth myspace

Acquista The Final Solution

 

 

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 17-23 ottobre 2011

venerdì

 
Com’è andata a Roma? Avete incendiato tante cose? Gli sbirri vi hanno fracassato il setto nasale? In Rete siete stati segnalati come black bloc da qualche spione telematico anche se sabato pomeriggio eravate a casa a grattarvi il culo? Niente paura, in ogni caso questa sera ci pensa Michael Franti a dispensare camionate di peace & love in dosi da sedare anche un plotone di giaguari inferociti; al Vox di Nonantola, dalle 21, trenta euri. Martedì invece si torna a legnare: al Blogos i thrash revivalisti Gama Bomb più altri degni compagni di merende (Sworn Amongst, Chaos Theory + guest; dalle 22, dieci euro), mentre all’Estragon è di nuovo tempo di epiche battaglie, colossali scorpacciate di selvaggina e mastodontiche sbornie sidro pilotate, scatta l’Heidenfest 2011 e il gjallarhorn risuona ancora (dalle 21.30, trenta euro). Mercoledì Napo è nella casa: dalle 20.30 a MeryXM prima presenta il suo fumetto poi il nuovo set dei Uochi Toki con disegnini on the fly, il tutto come sempre gratis et amore. Che storia, gli US3 sono ancora in giro… te la ricordi Cantaloop? Sempre mercoledì ma al Bravo Caffè, dove poi giovedì arriva Martina, che storia (e due)…  Venerdì sti gran cazzi de I Cani al Covo: gran colata lavica black post metal all’XM24 con Altar of Plagues, Marnero, Gottesmorder e Rotorvator (dalle 22, quattro euro), oppure CAMPING, nuova installazione per Hundebiss Nights al RAUM con live di Jaws, Popol Gluant e Sea Urchin e proiezioni di deliri in VHS opera di James Ferraro e Hype Williams (non quello famoso). File under: incredibly strange music, ma con le palle (dalle 22). Sabato il delirio è addirittura triplo: Righeira al Locomotiv (dalle 22.30, dieci euro più tessera AICS), Acid Mothers Temple al Calamita a Cavriago (dalle 22.30) oppure STARLICKER (Rob Mazurek, Jason Adasiewicz, John Herndon) all’Area Sismica a Forlì (dale 22.30). Se domenica siete ancora vivi poi si può sempre fare la doppietta Acid Mothers Temple al Sidro Club a Savignano (dale 21.30, dieci euro più tessera due euro, posti limitati)…

 

venerdì (pure)

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 27 giugno-3 luglio 2011

appena ha saputo che avrebbe aperto per i Verdena

 
Temperature ostili salgono. Ci si aggrappa al meteo come se da lì dipendesse della nostra stessa esistenza (e in un certo senso è proprio così), il sole e l’asfalto diventano i nemici più temibili, bere acqua come cammelli e via andare: è arrivata l’estate. Tornerà un altro inverno, per intanto tocca stare all’occhio e stare in piedi (forse); meno male che stasera al Nuovo Lazzaretto arrivano i Karma To Burn a dare un nuovo senso all’afa e all’arsura. Con loro (e con gli ultrastoner The Dallaz, gli jodorowskiani Perro Malo e i megalisergici Mother Propaganda) sembrerà di stare sotto un Joshua Tree anziché dentro un ex frutta e verdura a duecentomila gradi fahrenheit. Dalle 21.30. Domani scontro tra titani: Brunori S.a.s. al Bolognetti e Mariposa ai giardini di via Filippo Re. Io, credo proprio che avrò un impegno improrogabile (tipo guardare un DVD, grattarmi il culo con l’unghia lunga del mignolo lasciata crescere apposta, fissare intensamente le crepe nel soffitto o dormire). Mercoledì ci sono gli UNSANE al Blogos (di spalla Morne, Cervo, Calendula e Void Of Sleep, dalle 21, tredici euro) dunque tutto il resto diventa inutile, e quando dico tutto intendo proprio TUTTO, incluso respirare, la religione, e Moritz von Oswald a Ravenna (di cui non so niente e non voglio sapere niente). Giovedì a parte la consueta visitina semestrale di Adam Green (al Bolognetti) non mi risulta ci sia altro, quindi si può tranquillamente far maturare gli ematomi collezionati la sera prima. Venerdì IL dilemma, roba che in confronto Amleto era un arrogante pornodivo: NABAT e IMPACT alle Caserme Rosse (Qui il flyer capovolto), o Corrosion Of Conformity e Warhammer (+ED, Giuda, Minkions, Narkhan e Injury, dalle 20, quindici euro) al Blogos? E sabato invece pure: Snoop Dogg e megaorgia rap alla vecchia al Parco Nord (vedi flyer sotto) e Balanescu Quartet Plays KraftwerkParma. Comunque vada, domenica tutti a Ferrara per i Dinosaur Jr, e affanculo chi suona prima e soprattutto dopo.

 

Yo, man, it's da ghetto.

FOTTA: Hella (ancora nessun titolo, sorry)

Giuro su quel che volete, non sapevo che gli Hella fossero ancora un gruppo. Fino a qualche tempo fa, stando a Wiki, nemmeno Zach Hill ne sembrava troppo convinto. Il motivo principale per cui tutta la questione Hella se ne andò a puttane è il tempo fisiologico: il gruppo partiva da una base chitarra/batteria non troppo diversa dal modello Crom-Tech (il primo gruppo di Mick Barr, un disco poderoso su Gravity) ma più avventurosa e proggheggiante. Il disco d’esordio su 5 Rue Christine e tutte le cose pubblicate fino a The Devil Isn’t Red (compreso, oggi vogliamo rovinarci) sono opere di pregio che dovrebbero essere insegnate a scuola. Una versione magra e agile dei Flying Luttenbachers senza black metal, death metal e odio per la razza umana, tre giorni prima che la formazione a due inizi ad andare di moda a furia di Lightning Bolt e gente simile. Dopo un paio di giorni Zach Hill s’aggancia al giro grosso: suona nell’album dei Team Sleep (un terribile side project di Chino Moreno il cui disco, annunciato e rimandato per qualcosa come cinque anni, si è rivelato essere una delle più pretenziose ciofeche dell’ultimo decennio), inizia a lavorare da solista, presta la batteria più o meno a CHIUNQUE. Nello stesso periodo la band decide di pubblicare come terza uscita un album intitolato Church Gone Wild/Chirpin’ Hard, una roba tipo Speakerboxxx/The Love Below del math-noise ignorante (due CD, ognuno dei quali realizzato da un membro senza intrusioni dell’altro). Il disco è un mezzo disastro, una sega mentale di proporzioni bibliche senza manco la componente free-cialtrona dei primi passi del gruppo (molto più presenti, comunque, nella parte di Spencer Seim). Il passo successivo è quello di rendere Hella un gruppo vero e proprio, cioè sostanzialmente buttando nel cestino l’unica vera peculiarità del gruppo, presentandosi con formazione a cinque in occasione dell’ultima uscita, che esce nel 2007 e si chiama There is no 666 in Outer Space (me lo ricordo come una specie di deriva indierock senza pezzi di un disco degli ultimi Primus, ma non sento il disco da ANNI e potrei sbagliarmi). Da lì in poi la band smette di fare cose, Seim scompare quasi del tutto dalla circolazione, Zach Hill pubblica un disco al mese tra side-projects, uscite soliste e collaborazioni con musicisti di ogni estrazione (i dischi in cui pesa qualcosa tendono ad essere terribili menate da riccardoni). Oggi su Stereogum esce l’anteprima di un pezzo dal prossimo disco: la band è tornata a comporsi dei soli Spencer Seim e Zach Hill, ha buttato fuori un pezzo che sembra uscire dalle session di The Devil Isn’t Red e annuncia l’imminente uscita di un nuovo album. Suppongo come mea culpa sia un po’ tardi, ma sempre meglio che un altro 666. In allegato mettiamo la traduzione google del pezzo di Stereogum, una storia piuttosto buffa di una stroncatura dell’ultimo disco che finisce su una maglietta del gruppo.

Nel 2007 ho scritto una breve recensione tutt’altro che positivi di Hella There’s No 666 In Outer Space, il record in cui il duo noise-rock di Sacramento ampliato per un quintetto e ha iniziato a suonare come un roots Mars Volta. È apparso in SPIN. I ragazzi hanno coraggiosamente girato il midollo in una t-shirt. Il mio problema con There’s No 666 è (come quello che ho visto) la mancanza di scopo creata da quei membri extra – cioè lo spostamento non è sembrato necessario. Dunque, quattro anni più tardi, è bello essere in grado di annunciare che Hella hanno un nuovo album all’orizzonte che trova il nucleo del chitarrista Spencer Seim e lo straordinario batterista Zach Hill indietro come un flusso di coppia ben oliata. Ad oggi l’album di 10 canzone non ha alcun titolo. Idem questa canzone. Ma si può ancora ascoltare bene. E brandelli.

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 31 gennaio-6 febbraio 2011

una rarissima immagine di Mark Kozelek durante una giornata buona

 

Bologna e nevica. Tra sabato e domenica 22 ore non-stop di nevicata poi a seguire pioggia a secchiate che pareva di stare in India durante la stagione dei monsoni, ma ora è tutto finito e per stasera garantite strade percorribili e circolazione agevole almeno fino al Clandestino, dove suona il dissociato francese Bud McMuffin; uno spettacolo vero, gratis, dalle 22.30. Martedì 1 febbraio arrivano Thin Lizzy e Supersuckers all’Estragon (dalle 21); per ovvie ragioni manca lo storico frontman Phil Lynott (ha lasciato questa valle di lacrime venticinque anni fa), ma la notizia quantomeno bizzarra è che in questa occasione il suo ruolo verrà ricoperto da Ricky Warwick, l’isterico leader degli Almighty (ve li ricordate o avete avuto un’adolescenza felice?) nonché tra le ugole migliori dell’Irlanda del Nord, e alla seconda chitarra c’è Vivian Campbell dei Def Leppard. Un karaoke coi controcazzi per una delle più grandi band mai esistite sulla faccia della Terra. Unico inconveniente il prezzo: trentacinque euro non opere di bene. Per una serata più low-budget ma sempre pilotata da reducismo peso con vecchie carcasse barcollanti ai controlli, ecco i Members al Nuovo Lazzaretto; di spalla Rotten Boi!s e altri simpatici compagni di merende. Dalle 22, gradite creste da moicano, giubbotti di pelle lerci, pantaloni strappati e ascelle non lavate da almeno una settimana.
Mercoledì continua la rassegna MeryXM all’XM24 (gratis, da orario aperitivo ad oltranza) con la presentazione di un libro che farà molto piacere a Steve Jobs e in coda un concerto che si preannuncia particolarmente molesto (date un’occhiata a nomi, organico e foto…). Altrimenti Meteors (che ancora rompono culi dopo 30 anni) con annesso festivalino psychobilly all’Onirica a Parma (dalle 21, venti euro più tessera obbligatoria altri cinque euro), o il Doc Trio di Simone Zanchini al ristorante Zingarò a Faenza (dalle 22, gratis già mangiati oppure menù-concerto a venti euro tutto incluso). Giovedì non c’è niente fuori, non c’è niente fuori, credimi, non c’è niente fuori, tranne i Massimo Volume a Cadelbosco di Sopra (dalle 21.30. Per i non emiliani, per arrivarci bisogna passare per una frazione di nome Sesso, nel caso non dimenticate la macchina fotografica per tante tante pose stupide davanti al cartello).
Venerdì la bella notizia per chi andava al liceo negli anni novanta è che ci sono i Pennywise all’Estragon; la notizia perfino migliore per chiunque sia vivo è che di spalla suonano i Real McKenzies (purtroppo vista la posizione in scaletta non potranno deliziarci con un set eterno, ma non si può avere tutto dalla vita). Esserci diventa a questo punto una questione cruciale (dalle 20.30, ventidue euro – la stessa cifra chiesta dai Godspeed You Black Emperor! e ugualmente ben spesa se volete sapere la mia). Sabato l’overdose: festival devastante all’XM24 (dalle 23 a oltranza, ingresso sotto ai cinque euro), Gay Beast al Covo (dalle 22, prezzo ignoto), Mombu al Voodoo Club a Comacchio, Nile e Melechesch al Temporock a Gualtieri (poco dopo Cadelbosco di Sopra, il prezzo non lo so ma qualcosa mi dice che non sarà a buon mercato), festivalino noise al Grottarossa, e last but not least Goldie al Velvet (dalle 23). Comunque vada, è fondamentale arrivare vivi a domenica per Mark Kozelek alla chiesa di sant’Ambrogio di Villanova, ovvero qualcosa di molto vicino alla manifestazione di Dio in terra, ma con la chitarra al collo.

Gruppi con nomi stupidi “the Christmas edition”: SKITLIV

 

Il disco delle feste 2010 (ma anche del 2009, e del 2011, e del 2012, e se il mondo non sarà andato a puttane del 2013, e… insomma, avete capito) è stato senza dubbio Skandinavisk Misantropi di Skitliv. Skitliv (che significa “vita di merda” in norvegese) è il progetto principale di Maniac; per chi ha avuto un’adolescenza normale, Maniac è stato il cantante dei MayheM (sai, quei norvegesi matti che si ammazzavano tra di loro) dal 1986 al 1988 e dal 1995 al 2004. Pare sia stato cacciato dalla band perché costantemente ubriaco o strafatto di medicinali che avrebbero dovuto fargli passare la voglia di bere (al suo posto è rientrato il temibile ungherese tossico Attila Csihar, già negli psicotropi Plasma Pool, cantante per caso su De Mysteriis D.O.M. Sathanas poi sfruttatissimo dai Sunn O))) ogni volta che sentono il bisogno di vocals maligne) . Il vero nome di Maniac è Sven Erik Kristiansen; vive a Oslo, ha due figli, il corpo disseminato di tatuaggi più o meno da ergastolano e somiglia vagamente a Marco Materazzi. Soprattutto, canta in un modo assolutamente spaventoso, malsano e profondamente perturbante, impossibile da replicare quanto da raccontare; ci si è avvicinato più degli altri Malfeitor Fabban quando nella recensione di Wolf’s Lair Abyss scrisse che la voce di Maniac sembra provenire da un essere deforme incapace di aprire la bocca per bene (le parole precise non le ricordo ma il concetto era questo). Da quelle corde vocali indistruttibili prendono forma i latrati più raccapriccianti che mente umana possa concepire; dopo il trattamento-Maniac, ogni frase diventa un incubo senza fine, ogni periodo la strofa di una poesia in una lingua sconosciuta il cui suono delle parole basta a fare impazzire di terrore.
Insieme al problematico (Niklas) Kvarforth degli Shining svedesi (quelli depressi, non i segaioli jazz) ha dato vita a Skitliv poco dopo la cacciata dai MayheM (la line-up comprende anche tale Ingvar alla seconda chitarra, Tore Moren al basso e una serie già piuttosto lunga di batteristi avvicendatisi in puro Spinal Tap style). Skitliv è la proiezione del marcio universo interiore dell’artista, della sua squilibrata visione del mondo e delle cose del mondo; musicalmente si articola in un black doom metal strisciante, affilato e implacabile, indolente come un pluriergastolano la domenica pomeriggio e gradevole come un appestato che viene a bussare alla tua porta alle quattro del mattino. Ma la componente in assoluto più straniante è costituita dai testi, spesso chilometrici, in cui l’autore si mette a nudo con una brutalità e una totale mancanza di sovrastrutture perfino imbarazzante; il fatto è che il più delle volte le liriche di pezzi dai titoli già di per se emblematici (Slow pain coming, Hollow devotion, Towards the shores of loss, ecc.) sembrano riflessioni private dal diario segreto di un liceale particolarmente problematico dopo la prima pippa con Baudelaire, un devastante incrocio tra inettitudine cronica e intuizioni fulminanti, atroci velleità da poeta maledetto e dolore puro, affettazione sgangherata e disagio tangibile e tagliente come lame, su tutto il riflesso di un ego ipertrofico e straripante, frenetico e sgraziato e probabilmente rimasto imprigionato in un’età mentale che si aggira intorno ai quindici-sedici anni. Veramente micidiale. Forse soltanto i deliri poliglotti dei Worship del terminale Last Tape Before Doomsday sono riusciti a evocare parte degli stessi scenari (tanto per capire di cosa stiamo parlando, poi il gruppo – perlomeno la prima formazione – cessò di esistere dal momento in cui il cantante-batterista-compositore principale Max Varnier si suicidò lanciandosi da un ponte). Skandinavisk Misantropi è il disco che risveglia il peggiore lato oscuro dentro ognuno di noi, ricordi di emozioni che il subconscio si affanna quotidianamente a sotterrare. Pochi dischi, in questo senso, sanno essere altrettanto molesti. Dal 2009 in poi (anno di uscita di Skandinavisk Misantropi), probabilmente nessuno.
Messe di ospiti più o meno ininfluenti alla riuscita del tutto; tra gli altri un catacombale Gaahl, l’amico Attila Csihar e un esagitato David Tibet che declama stronzate nell’intro di Towards the shores of loss.

SWANS @ Locomotiv (Bologna, 4/12/2010)

 
Non si pretenda mai, da nessun essere umano, di garantire alcunchè: dopo tredici anni Micheal Gira resuscita Swans.”
(Paolo Bertoni)

THIS IS NOT A REUNION. It’s not some dumb-ass nostalgia act. It is not repeating the past. After 5 Angels Of Light albums, I needed a way to move FORWARD, in a new direction, and it just so happens that revivifying the idea of Swans is allowing me to do that.”
(Michael Gira fornisce la sua giustificazione non richiesta)

Decoroso.”
(Reje, a proposito di My Father Will Guide Me ecc. ecc. ecc.)

 

In effetti non si può dire altrimenti del ritorno di Michael Gira alla ragione sociale Swans: il disco è un buon disco che si inserisce agevolmente nel percorso tracciato dal draconiano Gira nei lustri successivi allo split con Jarboe, unico cambio di rotta il ripristino di chitarre acuminate e bordate massimaliste al posto della chitarrina e delle orchestrazioni, comunque il mood alla base resta il medesimo; un disco che hai già metabolizzato al primo ascolto, calligrafico ma (miracolosamente) non opportunistico, blandamente oppressivo e vagamente ispirato, addirittura rassicurante nella sua prevedibile funzionalità da classico minore. Dal vivo è un’altra storia. Dal vivo non è cambiato niente, dici Swans ed è di nuovo ridefinizione radicale di concetti come sopraffazione, prevaricazione e umiliazione applicati alla musica. Brani dilatati sformati trasfigurati che diventano veri e propri strumenti di tortura adoperati scientemente per brutalizzare gli spettatori, sfinirli, prostrarli, annichilirli fino alla sottomissione totale e alla resa incondizionata; evidentemente con gli Angels of Light e i solo show il pubblico non soffriva abbastanza (in effetti ricordo un concerto del ’99, era il tour di New Mother, decisamente tranquillo e perfino piacevole; poi non l’ho più visto live fino ad oggi). Ecco quindi che con i nuovi Swans Michael Gira torna a essere quel che è sempre stato e a fare quel che ha sempre fatto: un sadico sensibile che trae forza vitale dal disagio del suo uditorio, un vampiro emozionale che si nutre esclusivamente di vibrazioni negative, inculcando come un cancro maligno nella mente e nel corpo di chiunque gli stia intorno il suo malessere personale (che poi è il malessere di per sé stesso, la cosmica malvagità dell’universo o come lo vogliate chiamare)  allo stesso modo in cui si marchiano i vitelli, violentemente, irreversibilmente e senza troppe cerimonie.
In questo Gira trova nel Locomotiv il locale ideale per veicolare il suo transfert malsano. Nella bella intervista pubblicata su Blow Up di dicembre aveva dichiarato: Ho scelto in diverse occasioni di spegnere i condizionatori del locale in modo che l’aria sia asfissiante e parte del pubblico per questo sembri al limite dell’essere presa dal panico. Mi piace l’idea che si crei un’atmosfera che sia simile al trovarsi in una delle capanne sudatorie che erano in uso nelle comunità indiane. Detto, fatto: il Locomotiv post-insonorizzazione è a tutti gli effetti un forno crematorio legalizzato, un budello ermeticamente sigillato dove non tira un filo d’aria e il tasso di umidità è superiore alla media pomeridiana di Singapore nel pieno della stagione delle piogge. Risultato: i vestiti zuppi, il fiato cortissimo e l’aria irrespirabile già al secondo pezzo dell’artista di spalla, un cinghialesco James Blackshaw davvero emozionante e comunicativo quanto tristemente fuori contesto – almeno a giudicare dalle reazioni del berciante e molestissimo pubblico, disattento e infastidito come non mai. Per movimentare ulteriormente la situazione, tutti i fari rimarranno costantemente accesi e puntati sul pubblico per l’intera durata dell’esibizione (è per questo che non trovate foto a corredo dell’articolo), aumentando in maniera considerevole la temperatura interna del locale, già insensata di per sé; sono a quanto pare le condizioni climatiche necessarie per un live degli Swans versione 2010. Un lungo drone montante precede l’ingresso in scena dei musicisti, per primo il segaligno Phil Puleo (batteria e xilofono), poi il pelosissimo Thor Harris (neanderthaliano percussionista già negli Angels of Light), quindi il rotondo Chris Pravdica (basso, da subito intento a rinforzare il drone previa massicce iniezioni di ulteriore feedback spaccabudella), l’elegante Christoph Hahn (slide guitar, peraltro molto meno incartapecorito di quanto mostra l’ingannevole ritratto nel booklet del disco), l’allampanato Norman ‘Pertica’ Westberg (chitarra, occhi pallati e tatuaggi orribili) e, da ultimo, il bucolico Michael Gira, camicia da mandriano e portamento solenne da sacerdote pazzo. Parte una gragnuola di riff sopra il drone di cui sopra, che si allunga e cresce e tira e manda in paranoia i centri neuronali; Gira è impossessato, misura il palco con passo febbrile, incassa la testa tra le spalle e scalcia l’aria come un cowboy deforme, è uno spettacolo ipnotico e perturbante al tempo stesso, è l’essenza stessa del dolore. Il suono cresce e si espande come miele caldo misto ad acido corrosivo, la gabbia toracica si squaglia come in un quadro di Francis Bacon, le tempie pulsano come prossime all’esplosione, i vestiti che indossiamo aderiscono al corpo come una seconda pelle. Perdo la cognizione del tempo, di colpo riacquisto un barlume di lucidità quando mi rendo conto con orrore che mi viene da vomitare e da cagarmi addosso simultaneamente, guardo l’orologio e scopro che è passata un’ora; porto alla bocca la bottiglia d’acqua che tenevo in borsa, il liquido è caldo come piscio rimasto a macerare al sole. I Crawled (per l’appunto), e Christoph Hahn a momenti si soffoca da solo per un sorso di cocacola ingurgitato male; sembra che il mondo intero stia sudando peggio che in una fonderia a ferragosto, Gira a petto nudo ci scruta come fossimo tanti piccoli scarafaggi indegni anche di finire schiacciati. Il bis arriva come la liberazione dopo un mese in cella di isolamento, la morsa si allenta, è come iniziare a riemergere dalle profondità degli abissi; in due ore e un quarto hanno suonato nove pezzi. Ho bisogno di ossigeno più di ogni altra cosa al mondo e potrei srotolare un delirio su quanto si esca mondati di parte della merda che abbiamo dentro dopo un’esperienza del genere ma sono troppo provato e debilitato e profondamente esausto e a questo punto mi accorgo che non ho più nemmeno le parole per dirne.
Scaletta:
1. No Words/No Thoughts
2. Your Property
3. Sex, God, Sex
4. Jim
5. ??? (questa non sono riuscito a identificarla)
6. I Crawled
7. ??? (anche questa buio totale, se ne sapete qualcosa fatevi vivi)
8. Eden Prison
9. Little Mouth (bis)

 

 

N.B.: non ricordo da dove ho preso la foto più sopra. Tempo fa ho fatto una ricerca su google immagini inserendo come chiave “michael gira”, ho trovato quella, mi è piaciuta e l’ho salvata ma non ricordo nient’altro. Forse stava sul flickr di qualcuno. In ogni caso, chi volesse reclamarne la proprietà è più che benvenuto.

PITCHFORKIANA DEATH METAL: Gortuary, Hideous Deformity, Insidious Disease, Interment, Parasitic Extirpation

INTERMENT – Into the Crypts of Blasphemy (Pulverised)
3/5 dei Centinex si riappropriano del moniker originario e continuano a fare quel che sanno: una mazzata dietro l’altra di puro swedish death metal di origine controllata, con testi che parlano di morte distruzione morti che ritornano e malattie ripugnanti, produzione da cantina gelida, batterista fisso sullo stesso tempo per tutto il pezzo e chitarre “a zanzara” Tomas Skogsberg style. La sostanza non cambia, semmai aumenta il putridume; un disco che ti fa sentire il ghiaccio nelle vene qualsiasi giorno della settimana, in qualsiasi stagione. Ci sono anche due riletture (di Where Death Will Increase e Morbid Death) dai demo del 1991-92, e nell’edizione limitata in vinile una cover di Torn Apart dei Carnage. Loro han sempre fatto questo. Rispetto assoluto. (8.0)

PARASITIC EXTIRPATION – Casketless (Sevared)
Grinding deathcore con produzione scintillante (pure troppo), eseguito con perizia e indubbio mestiere ma senza i pezzi. Si salvano giusto i simpatici samples (da Le colline hanno gli occhi remake e un episodio di X-Files che visto da ragazzino mi aveva fatto cagare addosso – per la cronaca, l’attore è il sottovalutatissimo Timothy Carhart), e l’uno-due Stabwound Symmetry/Vertical Human Splicing, che quasi riesce a far salire un minimo di fomento; il resto è routine ipertecnica con abuso di breakdown e gran tripudio di assoli ipershreddati come piace adesso. Un esercizio di brutalità gradevole quanto innocuo, esattamente identico a troppe altre uscite del settore. (6.2)

HIDEOUS DEFORMITY – Defoulment of Human Purity (Sevared)
Un logo tra i più illeggibili di sempre e una copertina che sembra disegnata da un bambino di sei anni con seri problemi comportamentali nascondono l’esordio più interessante dell’anno (per ora) quando si parla di brutal death tecnico; loro sono norvegesi ma non lo diresti mai, sono in due (vocals suine e chitarre affilate) e si fanno aiutare da turnisti di gran pregio (il bassista di Blood Red Throne, Deeds of Flesh e miliardi di altri, e l’ex batterista dei Vile, ora negli Arsis). Insieme danno vita a un malsano incrocio tra Deeds of Flesh e primi Cryptopsy ma con un tocco personale magnetico e perturbante e la cieca ignoranza propria di culti minori della Osmose più sommersa, tipo i Ravager; il tutto in meno di mezzora, con (commovente) cover dei Cadaver posta in chiusura a depotenziare. Veramente devastante. (8.3)

INSIDIOUS DISEASE – Shadowcast (Century Media)
Ennesimo progetto all-star (si fa per dire) in cui finisce coinvolto l’onnipresente Shane Embury; gli altri sono il mercenario Tony Laureano, Silenoz dei Dimmu Borgir, Jardar degli Old Man’s Child e il redivivo Marc Grewe, ex vocalist dei dimenticati Morgoth (due grandi dischi di death metal tecnico nei primi novanta, poi la svolta “alternative rock” con l’inascoltabile Feel Sorry for the Fanatic, imbarazzante raccolta di plagi dei Killing Joke dei dischi più tristi che ancora oggi mi vergogno di aver comprato ai tempi). Grewe da una decina d’anni è un travet della Century Media, e la pubblicazione di Shadowcast è evidentemente il suo premio-fedeltà; non si spiegherebbe altrimenti l’esistenza di un disco di ‘blackened death metal’ così fiacco e sciatto, prevedibile come la diarrea il giorno dopo una sbornia e noioso come una coda alle poste coi vecchi che tentano di fregarsi il posto a vicenda litigando ad alta voce, con “bombastica” produzione finto grezza e momenti ‘atmosferici’ reboanti e molesti da gruppetto black metal melodico di quint’ordine che anche il più sprovveduto dei preadolescenti avrebbe già spostato nel cestino prima di arrivare al quarto pezzo. Ospitata frettolosa di Killjoy e scolastica cover dei Death di Leprosy sul finale; un passatempo da dopolavoro giusto un pelo più divertente rispetto a collezionare pipe o sottobicchieri da birra, per Laureano un altro lavoretto si spera ben retribuito. (4.7)

GORTUARY – Awakening Pestilent Beings (Sevared)
L’esordio Manic Thoughts of Perverse Mutilation (2008) era un piccolo capolavoro di brutal death marcissimo e autenticamente ferale, suonato come se non ci fosse un domani (tutti i brani terminavano di botto con coda di qualche secondo in cui potevi sentire gli amplificatori fischiare) e registrato con un feeling live che ti si spalmava addosso tutto il sudore direttamente dalla sala prove. Awakening Pestilent Beings è diverso: pur continuando a legnare come una mandria di sbirri in tenuta antisommossa, la band è molto più ‘controllata’ e pare voler in parte mordere il freno, e i pezzi – indubbiamente più ragionati rispetto al furente attacco frontale del debutto – guadagnano in lucidità di scrittura quel che perdono in spontaneità. Comunque non si capisce la scelta di piazzare la strumentale Interlude, cinque minuti di virtuosismi alla Joe Satriani con chitarre pulitissime e arzigogoli spagnoleggianti in sottofondo, tra due pezzi intitolati rispettivamente Compulsive Ocular Torture e Necrotizing Infection. (6.8)

PICHFORKIANA DEATH METAL: Defeated Sanity, Humangled, Inherit Disease, Mortification, Severe Torture

DEFEATED SANITY – Chapters of Repugnance (Willowtip)
Brutal death tecnico velocissimo da un gruppo che di tedesco ha solo il passaporto; modelli dichiarati i Suffocation di Breeding the Spawn e i primi tre album dei Disgorge americani (nei quali peraltro ha brevemente militato il vocalist A.J. Magana), il tutto shakerato e rivomitato con un coefficiente di violenza perfino superiore alla somma delle parti. Peccato per la batteria registrata tipo “mastello”, unico difetto di un gioiellino di disco. Curiosità: il batterista si chiama Lille Gruber (ah ah, uh uh). (8.0)

HUMANGLED – Fractal (Abyss)
Death groove metal crasso e fetente alla vecchia, con punte di ignoranza nella letale uno-due Brutalize the Pedophile / Liquidfire (il cui invasivo e mongoloide chorus si stampa in testa e non se ne va più); loro hanno una storia lunghissima alle spalle, tra cambi di moniker e repentine virate ora verso il grind, ora cyber death metal (il mini Foetalize, peraltro graziato da una cover geniale), ora death gore purulento. Il mixaggio è ad opera di Dan Swanö e anche solo per questo Fractal merita quantomeno l’ascolto. (6.7)

INHERIT DISEASE – Visceral Transcendence (Unique Leader)
Brutal ipertecnico con concept cyber-futuristico alla base, ben esplicato dalla suggestiva copertina in bilico tra Matrix e La Guerra dei Mondi di Spielberg; i gargarismi vocali del voluminoso singer Obie Flett somigliano sempre più al rumore di uno scarico del cesso intasato, il che può rappresentare un punto a favore come un handicap (dipende dai gusti, a me prende bene). Più difficile restare indifferenti di fronte al mostruoso lavoro di batteria del tritacarne umano Daniel Osborn (titolare anche della one-man band Misanthropic Carnage). Non per tutti i gusti ma estremamente interessante. (8.0)

MORTIFICATION – Twenty Years in the Underground (Nuclear Blast)
I più famosi baciapile australiani celebrano il ventennale con una doppia raccolta assemblata, probabilmente, solo e soltanto per il LOAL: cinque reincisioni di vecchi e nuovi classici e il resto estrapolato da bootleg registrati col walkman da qualche disperato tra il 1990 e il 1993. Ci sono anche quattro pezzi acustici (…) da un unplugged in Norvegia. Basta la parola. (0.8)

SEVERE TORTURE – Slaughtered (Season of Mist)
Quinto centro (su cinque) per i macellai olandesi. Non cambia la formula – brutal death drittissimo con il santino dei Cannibal Corpse in bella vista – in compenso si lavora ai fianchi un songwriting sempre più ferale, complice una produzione cristallina come mai prima d’ora, in grado di rendere ancora più temibili composizioni già in partenza devastanti; a completare il quadro la solita piacevole alternanza nelle liriche tra sbrodolate di sangue & interiora e simpatiche invettive anticristiane che al confronto Glen Benton è un mansueto sacrestano. Loro sono una macchina da guerra. (7.8)

PITCHFORKIANA – SPECIALE DEATH METAL (2): Aeon, Grave, Order of Ennead, Thulcandra, Trauma

AEON – Path of Fire (Metal Blade)
I dischi precedenti erano qualcosa sul genere versione europea dei Deicide con testi che al confronto Glen Benton è un chierichetto laureato ad Harvard. Qui provano ad ampliare leggermente lo spettro delle influenze andando a pescare dalla scena polacca dell’asse ultimi VaderDecapitated dei primi tre dischi, riuscendo a rileggere il tutto in modo efficace, coerente e personale. I testi sono deliziosi come sempre, e c’è pure un intermezzo atmosferico alla Nile dal titolo più stupido sentito negli ultimi mesi: Total Kristus Inversus.Grande album. 7.7

GRAVE – Burial Ground (Regain)
I vecchi dischi non è nemmeno il caso di ritirarli fuori come termine di paragone. Da quando i Grave si sono riformati escono con un nuovo album ogni due anni esattamente identico al precedente, logo e copertina puntuta da inferno dantesco compresi. Qualche sussulto di vita nel precedente Dominion VIII (decisamente un buon disco) ci aveva fatto ben sperare per il futuro, ma con Burial Ground si torna al solito piattume zanzaroso con testi da mongoloide, scritto e registrato modello ‘buona la prima’ e confezionato in fretta e furia nella speranza di turlupinare qualche reduce. Il fatto che loro siano stati tra i fondatori dell’intera corrente death svedese non costituisce un alibi per l’esistenza di prodotti del genere, ma – semmai – un’aggravante. 4.2

ORDER OF ENNEAD – An Examination of Being (Earache)
Progetto voluto da Steve Asheim in un momento in cui i Deicide erano in pausa forzata (forse Glen Benton era finito al gabbio, non si è mai saputo, comunque non poteva espatriare); dopo il debutto omonimo di due anni fa, An Examination of Being è il loro secondo disco. Quanto proposto è un death metal a forti tinte black con tempi di batteria da maratoneta sotto anfetamine (come è lecito aspettarsi dal personaggio), testi introspettivi portatori e generatori di paranoie assurde, assoli melodici da guitar hero giapponese e screaming vocals al vetriolo atipiche e malsane. Molto inquietante e non privo di un certo fascino perverso da culto minore. 7.3

THULCANDRA – Fallen Angel’s Dominion (Napalm)
Divertissement di Steffen Kummerer degli Obscura nato appositamente per plagiare i Dissection (ma dentro c’è anche qualcosa dei Necrophobic svedesi e dei dimenticati Eucharist), con tanto di intro identica a At the Fathomless Depths, gran dispiego di riff e accordature “alla Thorns” (il vero nume tutelare a cui tutti hanno rubato tutto), cover di The Somberlain finale e copertina di Kristian Wåhlin che per l’occasione torna a firmarsi con l’antico nom de plume Necrolord: il disco ideale per i nostalgici più disperati (ma solo quelli di bocca particolarmente buona) ora che l’ammazzafroci si è fatto saltare le cervella. Noi torniamo ad ascoltare gli originali. 5.2

TRAUMA – Archetype of Chaos (Witching Hour)
Ritorno della leggenda polacca con un altro tassello, l’ennesimo, di un percorso inattaccabile per coerenza, ispirazione e rigore, che sembra davvero non conoscere cedimenti. Death metal spaccaossa e svitacollo dal primo all’ultimo secondo (eccetto l’intro tastierata di prammatica), brutale e intenso, suonato con una foga e un trasporto che commuovono, tecnico senza mai eccepire, al passo coi tempi senza per questo dimenticare la vecchia scuola. Una benedizione. 8.0