La rubrica pop di bastonate che oggi urla MATANGI facendo il gesto delle pistole con le mani alzate

matangi

Non saprei dire esattamente quando ho iniziato a sentir dire -e poi a dire io stesso- quanto MIA era fondamentale alla comprensione dello spirito del (nostro) tempo. MIA, nella sua migliore versione, è un corrispondente cinghione di Lily Allen con l’electropunk e le congas al posto del pop e del pianoforte. Se il tuo modo di porti è abbastanza alieno puoi avere l’occasione di scavalcare il momento in cui tutti iniziano a darti dello sfigato. Avere un bel disco in uscita può aiutare, ma alle volte non basta; nel suo caso ne sono serviti due, ma quando Paper Planes ha iniziato a girare per film e spot e servizi di Studio Aperto (circa un annetto dopo l’uscita di Kala, sto sparandola ma credo siano tempi abbastanza corretti), il personaggio della giovane etno-abbestia che viene dal ghetto e spara minchiate a raffica senza soluzione di continuità è diventato una sorta di appuntamento fisso dei tabloid di musica/fashion in tutto il mondo. In queste fasi di stallo culturale non è mai ben chiaro se l’hype sul personaggio sia una sorta di tributo fuori tempo massimo al valore artistico del disco prima o se non sia piuttosto una lunga maratona di attese che montano in merito all’uscita di un nuovo lavoro. Nel caso di MIA, essendo così brava a rappresentare i nostri tempi, è semplicemente successo che il mondo stesse cercando qualcuno di cui parlare (qualcuno che POSSIBILMENTE non fosse uscito da Youtube o da qualche talent-show per gente bollita con la botta per il multimediale), ha trovato una tamil che viveva a Londra e l’ha adottata come una specie di figliol prodigo perenne a cui si perdona un po’ tutto come se fosse un peccato veniale. Prima di riuscire a dimostrare musicalmente qualcosa (oltre a saper fare un buon disco, una cosa di cui tutto sommato è stato capace persino Chris Martin), tuttavia, il fenomeno-MIA ha raggiunto quel punto di rottura dopo il quale, per una zona franca temporale che può durare anche molti anni, puoi permetterti di produrre segnali a caso e farli sembrare come tappe di un eccitante work in progress e/o una serie infinita di metafore la cui comprensione è negata ai più MA appannaggio di una serie di eletti coi piedi per terra e la puzza sotto il naso (probabilmente gli stessi che storcono il naso quando lo pronunci Mìa invece di Emaiéi e sanno scrivere correttamente il cognome senza cercarlo su google), un circolo ristretto di cui quasi tutti quelli che sono arrivati a leggere fin qui credono con tutta probabilità di fare parte. In realtà il gioco di specchi di MIA somiglia più da vicino a un certo qual protoberlusconismo o a quando gioco a indovinare l’animale con la nipotina della mia morosa. Ha quattro zampe? Sì. Vive in Africa? Sì. Ha il pelo? Sì. A questo punto provi a indovinare e dici “tigre”. La bimba ha pensato alla tigre ma dice comunque di no per non fare la figura di quella che l’ha fatta troppo facile. Dopo “tigre” e “ghepardo” le risposte alle tue domande perdono attinenza col reale, perchè è troppo presto per fare finire il gioco -e lei ora sta pensando al pollo. “Ha quattro zampe?” “no” “ma avevi detto di sì” “mi ero sbagliata a contarle”. Comprendere MIA nella fase artistica di /\/\/\Y/\ significa essere in grado di sapere quando una bambina smette di pensare a ghepardi leoni tigri e pantere e inizia a pensare ai polli. E il post-/\/\/\Y/\ in realtà ancora non ci è dato di conoscerlo, ma così a naso ci staran dentro solo i curiosi (beh, son tanti) e quelli  che ascoltarono Pull up the People in piena crisi dell’electroclash e finirono, va detto, col cervello scoperchiato. Ve lo ricordate /\/\/\Y/\? Conteneva una dozzina di pezzi, perlopiù messi assieme con perizia da panzer nel non-così-disperato tentativo di fare sembrare il nuovo album di MIA un album di MIA. Il punto massimo era il primo singolo uscito fuori, si chiamava Born Free ed era una cover stupidissima di Ghost Rider con MIA al posto di Alan Vega (la cosa, vi giuro, non aiuta) e una batteria accacì a spingere sotto. Piuttosto vi conviene avvezzare il remix scranno con Slip It In al posto di Ghost Rider che confezionò Pikkiomania ai tempi, fomentato da chi scrive. Il singolo era venduto assieme all’apposito video-shock girato da quel cioccolataio del figlio di Costa-Gavras, un Chris Cunningham dei poveri con la poetica dello stare male ad ogni costo in un contesto indie-figo (e il dopo-Born Free è andato ancora peggio, immagino ci arriveremo). Il resto faccio fatica a ricordarlo: era robetta alla MIA di MIA senza nessuno dei guizzi di genio/idiotsavanteria che diedero i natali a roba tipo Jimmy o Paper Planes. Vi siete mai trovati ad un party con Paper Planes e la gente (beh, voi stessi) che ballava facendo la mossa delle pistole? Anche io. Credo sia stato a una di quelle feste che mi è arrivata addosso la sensazione di averne avuto abbastanza: era già difficile ricontestualizzare quella cosa lì in posti generici, ma quello poteva essere ancora snobismo. Due anni dopo avevamo somatizzato /\/\/\Y/\ e ci eravamo beccato la MIA-attivista (Tamil, violenza sulle donne, bambini poveri, Wikileaks etcetera) appena sotto la MIA con i leggings dorati che faceva il segno delle pistole, senza che nessuno facesse una piega perché (immagino) il valore iconografico di qualsiasi incarnazione di Maya Arulpragasam a questo punto era già non-negoziabile. E poi l’abbiamo dovuta sommare alla MIA mezza matta che ventilava pubblicamente plagi della sua musica da parte di Lady Gaga (la gigantesca scritta WTF) e alla MIA madre di famiglia che viveva a Brentwood col figlio dell’amministratore delegato di Warner Bros. Non ci fossero state occasionali sfuriate pubbliche contro questo e quest’altro, sarebbe stata un’altra tristissima storia americana, ma anche in quel caso l’avremmo dovuta mettere in coppia con una musica che fino a Kala voleva essere (o forse no ma sembrava) una critica ferocissima a tutto questo mucchio di minchiate. Voglio dire, anche per un fan terminale sarebbe stato meglio avere un altro disco di scarti alla /\/\/\Y/\ piuttosto che due anni di MIA nei rotocalchi.

O forse no: la parte musicale dell’ultimo periodo è quasi peggio che tutto il resto. Si limita peraltro ad un paio di canzoni uscite in contemporanea: il primo è un inedito intitolato Bad Girls, uscito con l’ennesimo video di Romain Gavras ad accompagnare la cosa (di lì a poco Gavras firmerà l’inqualificabile clip di No Church in the Wild e tanti saluti a tutti); una roba che più MIA non si potrebbe e senza un briciolo della botta che rendeva irresistibili cose tipo Bamboo Banga. Poca roba. Il secondo pezzo è molto peggio: si chiama Give Me All Your Lovin’ ed è un pezzo di Madonna scritto da Martin Solveig. In linea con la media delle produzioni dell’uomo, fa sostanzialmente accapponare la pelle. MIA, di suo, non aiuta un cazzo: entra in scena vestita da cheerleader canticchiando L.U.V. MADONNA, rappa per venti secondi nel ruolo di apposito etno-rappusa e si agita sorridente e maliziosa come se fosse a casa sua. Per dire, al confronto nel pezzo viene fuori l’altra ospite Nicki Minaj, una che ha avuto quest’aura un po’ da leccaculo dal giorno uno. Madonna sembra esteticamente la copia di Blake Lively, è tutto orribile, è tutto sbagliato. la gente in giro si scatenò con improbabili peana stile Gaga torna a succhiare il cazzo di Giuda, soprattutto in seno alla cerchia di chi ne capisce di musica; sembra comunque chiaro che si tratta di una roba di livello infimo anche considerati gli standard della Ciccone –il disco che contiene il singolo si chiama MDNA ed è robaccia.

Dicono che quando Madonna ti prende a collaborare vuol dire che è finita. Oddio, in realtà lo dico solo io, ma sono d’accordo con me stesso. Parlando di inversione della moralità nel pop contemporaneo Madonna è il passo uno: ai vecchi tempi un produttore d’avanguardia imponeva il proprio suono e continuava a fare la sua cosa a testa bassa, incrociando di straforo qualche generatore automatico di quattrini tipo film, spot pubblicitari o locali di tendenza; oggi collaborare con Madonna è diventato un obiettivo più che una marchetta, una specie di celebrazione dell’eterno ritorno che a conti fatti ha ucciso artisticamente quasi chiunque abbia provato a remar contro. Questa cosa al cinema è sempre stata abbastanza evidente, ma nei dischi si dà per scontato il contrario (ma magari William Orbit e Timbaland sono ancora sulla cresta dell’onda e io sono in malafede).  MIA sembra già ad un altro livello. Le danze sgraziate da poppettara DIY sembrano le stesse del video di Paper Planes, come se l’avessero piazzata a calci davanti a uno schermone verde urlandole DAI, FAI QUALCOSA DI NORMALE mentre qualcuno lavorava da dietro per capire come infilarla in un contesto qualsiasi e qualcun altro consultava il Necronomicon per togliere di dosso a Madonna i venti anni in eccesso. Sorpresa: tutto funziona a meraviglia, nel senso che tutto sembra medio e fine a se stesso, qualunque cosa sia quel che succede. La musica diventa un artificio spontaneo (cit.).

 

Da qui in poi MIA più o meno scompare. Bad Girls sembrava l’assaggio per il disco nuovo, ma il disco nuovo ha cannato tre o quattro date di uscita già annunciate. Si chiamerà Matangi ed è stato registrato da diversa gente in diverse parti del mondo. La prima anticipazione (seconda se vogliamo contare Bad Girls) è un pezzo intitolato Bring the Noize, come quella dei Bon Jovi che illustra cose di MIA di cui già sapevamo: fosse il livello medio del nuovo disco, croppato di tutte le minchiate, potremmo conviverci (persino il video è non-girato da Romain Gavras). Rimane il fatto che siamo una quindicina di passi indietro anche solo a Born Free: fosse (com’è del tutto probabile) la cosa più buona contenuta dentro Matangi possiamo pure prenderci il disturbo di non ascoltarlo nemmeno e vaffanculo.

 

(nota: questo pezzo contiene numerose cose che avevo scritto in passato, purgate dalla scomparsa di un paio di siti)