la rubrica pop di Bastonate, che a questo giro si chiama REVANSCISMO e parla dell’ultimo disco degli Strokes

str

Tra i principali cancri della critica musicale contemporanea ci sono quelli del quieto vivere, quelli che pensano che i dischi siano l’unica cosa importante da analizzare per capire la musica. Quelli che dicono “sì, questo si è fatto finanziare il disco dalla Nestlè però la 4 e la 6 sono carinissime”, o brutture simili. Gli anni duemila sono segnati dal sostanziale trionfo di questo genere di parere critico ed acritico allo stesso tempo, secondo il quale un musicista si può permettere qualsiasi nefandezza etica, o quantomeno che siamo disposti a perdonare qualsiasi nefandezza etica in cambio di tre pezzi che sian buoni per un dj-set. Uno dei motivi principali per cui questa cosa succede credo sia che chi scrive oggi ha letto le cose sbagliate, o si è fatta troppi amici nel giro, che abbia deciso di partecipare al banchetto o che semplicemente non abbia mai pensato valesse la pena porsi questo genere di problemi. I paradossi legati a questo approccio sono due: il primo è che concentrarsi sulla qualità della musica non ci ha dato musica di qualità superiore, il secondo è che esiste una manciata di gruppi a cui non viene più dato ascolto (musicalmente) in quanto sputtanatisi in tempi remoti*. Scavando negli archivi mentali dagli anni duemila in poi è difficile trovare gruppi che incarnano questo paradosso peggio degli Strokes. Il paragrafo sotto contiene la mia recensione di Angles, la scrissi per Vitaminic ai tempi dell’uscita del disco.

Non dev’essere facile essere Julian Casablancas, anche se un musicista medio preferirebbe senz’altro essere lui piuttosto che, non so, Agostino Tilotta. Voi ricordate quanto e come gli Strokes cambiarono il mercato del rock con il loro disco d’esordio? Partirono con un EP su Rough Trade, scatenarono una guerra tra le major per accaparrarseli, uscirono con un bellissimo album di vintage-pop e vendettero un disastro di copie. La gente iniziò a gridare al ritorno del rock’n’roll in modo talmente violento e ripetitivo che ci ritrovammo in casa dischi di Vines e Jet prima di riuscire a renderci conto che qualcosa non andava. Gli Strokes andarono incontro ad una fine molto più indegna: la gente aspettava al varco il loro secondo disco per capire che via dovesse imboccare il mondo del rock, ma la band si ostinò –forse stupidamente- a fare l’unico disco che potesse concepire invece di tentare un altro ripescaggio a caso o non realizzare nulla, cadere in disgrazia ed alimentare una di quelle leggende del rock’n’roll tipo The La’s. Quello che è sicuro invece è che gli Strokes sono destinati ad una carriera stile Pearl Jam, vale a dire perdere con ogni nuovo disco un’altra fetta di fan della prima ora senza guadagnarne nessuno dei nuovi. È un atteggiamento rispettabile e parsimonioso. Cinque anni di break, anticipazioni sparse, la voglia di tornare in studio e tutte le chiacchiere hanno dato fondo alle modeste risorse di Casablancas e generato un disco nuovo chiamato Angles che poco prima dell’uscita era già bollato come un aborto paraculo di improbabile ascendenza anni ottanta (nel senso proprio di new romantic), opinione a caso che ha infettato i circoli di chi benpensa fino a generare un passo indietro della band, che parla già di tornare in studio in fretta per fare uscire un altro disco –mentre Angles ancor oggi è in streaming integrale sul loro sito. In tutto questo, presto o tardi anche i benpensanti (e la band) prima o poi dovranno ASCOLTARE il disco, rilevare che è tutt’altro che imbarazzante ed accettare con un briciolo di onestà e malinconia che nonostante un paio di peccati veniali (l’apertura p-funk di Macchu Picchu et similia) il disco c’è. Loro sono senza dubbio un gruppo finto, costruito, terribilmente alla moda, noioso nelle uscite pubbliche, senza basi, composto da musicisti mediocri, troppo attento agli aspetti extramusicali e senza così tanta botta dal vivo, ma nel 2011 hanno ancora i pezzi. Non tutti e non sempre, magari, ma non credo di essere così stronzo se dico che la maggior parte delle sensazioni NME da tre minuti dell’ultimo decennio una Taken for a Fool o una Gratisfaction non ce l’ha nemmeno nel disco d’esordio.

Il punto fondamentale, nell’analizzare gli/the Strokes, è che questa sensazione che abbiano rotto il cazzo e insistano non si sa su quali basi a fare uscire saltuariamente un nuovo disco** si è diffusa così tanto oltre la qualità dei dischi del gruppo da rendere in qualche modo la musica di dischi come First Impressions of Earth o Angles un atto politico di per sé. La principale colpa degli Strokes è quella di non essere stati i Nirvana: il loro primo disco ha mosso così tanto le acque da creare un genere musicale a sé (fatto perlopiù di gruppi garage senza basi e senza talento) e la gente si è accorta solo un anno dopo che tutto sommato si trattava di un normalissimo (buonissimo) disco pop molto citazionista e molto fatto di canzoni. Lo riascolti oggi e ti irrita per il fatto di averlo ascoltato troppo in giro nel 2001/2002. Per i dischi successivi hanno continuato a citare e fare canzoni, non buoni quanto il primo e non brutti quanto la quasi-totalità dei dischi di qualsiasi altro gruppo con l’articolo nato sull’onda del botto di Is This It. Li hanno stroncati tutti senza pietà, stroncando implicitamente non tanto la musica degli Strokes quanto il loro aver affidato le speranze di una improbabile “rinascita” del rock’n’roll (decretato morto sulla base del fatto che era passato di moda) a un gruppo abbastanza buono da stare in piedi con le proprie gambe ma non abbastanza da tenere in piedi da solo tutto il discorso critico ad esso legato; ma sfido chiunque a sostenere che in qualche modo Casablancas e soci siano stati incoerenti o abbiano disconosciuto in qualche modo la loro musica.  Il risultato è che da dopo Room On Fire ogni nuovo disco degli Strokes con le sue canzoncine vintage leggere e tutto sommato ben scritte è la dichiarazione orgogliosa di un nucleo di artisti che rivendicano il loro diritto a fare le cose nonostante il mondo abbia voltato loro le spalle. E anche l’implicita ammissione che un gruppo possa rimanere di successo anche se chiunque abbia una reputazione ne scrive sostanzialmente male. E da un’altra parte pone tutta un’altra serie di problemi etici legati alla valutazione critica di certi gruppi. Lo stesso scegliere se il gruppo sia stato eccessivamente coccolato ai tempi del primo disco o eccessivamente stroncato dal secondo disco in poi è un discorso più interessante di qualsiasi han fatto i soldi perché eran costruiti e avevano i soldi. Voglio dire, li stroncò pure la Maugeri*** nei suoi pipponi su Virgin Radio…
Sarà comunque un piacere, per tutti coloro che non si sono mai posti questo genere di problemi e continuano a sostenere la linea del costruiti e dell’hanno rotto il cazzo, sapere che dopo quattro dischi anche gli Strokes, con l’ultimo Comedown Machine****, sono arrivati al giusto e sensato appuntamento col destino, cioè il primo autentico disco orribile della loro storia. Un pasticcio di pezzi di generica ispirazione “wave” (per quanto easy listening) nati morti e senza quel briciolo di scintilla che ha più o meno sempre caratterizzato la scrittura di Casablancas, per molti versi il grande assente dell’album. Le linee vocali si avviluppano in modi per nulla avvincenti nella maggior parte dei pezzi con uno sgradevole retrogusto di storia morta e sepolta, tipo una Ibiza decaduta con vecchi ex-dj al bancone del bar che si raccontano storie di figa non interessanti e comunque avvenute vent’anni prima. Rimangono alcuni sporadici barlumi di classe pop tipo la vagamente neonindiana Chances, ma il resto è un guazzabuglio imbarazzante anche solo rispetto ad Angles. Quel che è peggio, non è la parte di ispirazione (diciamo) anni ottanta del disco a deludere di più, quanto piuttosto le rare incursioni di chitarrine plin plin alla Strokes di pezzi insipidi come All The Time, dei quali davvero nessuno si sarebbe lamentato se fossero rimasti nella penna del gruppo.

Ma anche a questo giro c’è qualcosa. Dietro l’orribile patina da disco mal-scritto e per molti versi sbagliato di Comedown Machine si riesce ad avvertire (già dal primo ascolto) un cuore grande così che batte, una sensazione esaltante da all-in che un gruppo del loro status (voglio dire, potrebbero fare un disco di poppettino lo-fi con pezzi rubati in giro e portare a casa la pelle almeno su Radio Deejay) avrebbe potuto tranquillamente lasciar fuori dalle composizioni. E invece niente. Anche a questo giro, nel suo non salire sul carro di nessuno, nel suo mettersi in gioco, nel suo stesso franare rovinosamente, il nuovo disco degli Strokes suona come uno dei più politici della contemporaneità. O quantomeno rivelatori di una nostra responsabilità come ascoltatori che continuiamo a non assumerci facendo finta di niente, o (peggio) di essere professionali e mandarli in pasto ai cani evitando, noi sì, di metterci in gioco.

*(ne conto un terzo, ed è che se scrivi un pezzo tipo l’ultimo disco dei Baustelle è bellissimo ma i testi sono odiosi offensivi e ideologicamente sospetti arriva qualcuno e ti dà pubblicamente del nazista, ma ammetto che sarebbe più un modo di togliermi dei sassolini dalle scarpe)

**detta anche Sindrome di Noel e Liam Gallagher

***piuttosto figo tra l’altro (as usual) il suo modo di pronunciare il nome del gruppo, tipo SCHWOWCKS.

**** il disco è in streaming su Pitchfork Advance.

Tanto se ribeccamo: MY BLOODY VALENTINE

cercando "kevin shields" su google immagini viene fuori (anche) questo

cercando “kevin shields” su google immagini viene fuori (anche) questo

agh agh.. agh..
fuori tempo massimo…
guarda guarda facciamo pi Pirlo..
guarda cosa fa, ahvìa.. ha lalucidhia dheh.. lucidhia dheh, di vedere Rossi in mezzo all’area
poi, poi.. poi ci vuol la qualità anche… 

(Salvatore Bagni)


e insomma ventidue anni dopo ecco anche Kevin Shields rifilarci a tradimento il suo Chinese Democracy. Un film già visto, dalle prime avvisaglie nei tardi anni novanta (con identico corredo di puttanate ad effetto: nello stesso periodo in cui cominciavano a circolare voci di un disco jungle dei My Bloody Valentine di imminente uscita – estate 1997 – Axl Rose dichiarava di avere pronti 400 riff ma nessun pezzo completo) alla prima minaccia di una resurrezione coatta all’indomani di Lost in translation, che facilita il compito sull’onda lunga dell’emozione provocata dal riascoltare gli stessi pezzi in un contesto diverso e scoprire che anche a corredo di un filmetto continuano a fare il loro sporco dovere, aprire il cuore e farlo a brandelli eccetera, poi la faccenda dei remaster vagheggiati per anni che però non uscivano mai e continuavano a non uscire, altro numero che è puro William Bailey, all’immancabile tornata di karaoke festivalieri per compiacere danarosi turisti della musica e della vita, fino ad arrivare a oggi che dopo qualche giorno di tam tam mediatico per sovreccitare chi ancora crede in questa cosa il disco è finalmente fuori su Amazon e nei migliori rapidshare del pianeta e farsene un’opinione diventa un dovere morale. Io quel disco non l’ho ascoltato, e a distanza di circa 48 ore dalla messa online ancora non sento il minimo desiderio di farlo. Tutta la frenesia dell’attesa, le aspettative eccetera, zero proprio. Sarò egoista ma preferisco conservare inalterato il ricordo delle cose migliori combinate da Kevin Shields negli ultimi ventidue anni, che con i My Bloody Valentine c’entrano zero: la partnership con J Mascis, che è molto più di un incontro al vertice tra grandi spiriti e che ha generato due tra le migliori declinazioni di sempre di rumore applicato alla melodia (o in qualunque altro modo la vogliate chiamare; comunque, non renderà giustizia), roba da far sborrare nelle mutande Phil Spector e rendere pleonastico qualunque altro disco di chitarre collegate a un amplificatore registrato da allora in poi. Il remix dei Mogwai, cose così. Al limite rispolverare i dischi vecchi (certo Loveless più di Isn’t Anything, e magari è soltanto una perversione personale, Sunny Sundae Smile più di Loveless). Poi magari è un capolavoro; il punto è che non mi frega un cazzo di scoprirlo.

ANDATEVENE AFFANCULO.

Scherzo. C’è un listone in preparazione ma non abbiamo messo in piedi la cosa in tempo per questa settimana, ci prendiamo una pausa di riflessione e vaffanculo. Ma se ci arriva un bonifico di 400 euro entro le 14, promettiamo un LISTONE PAURA entro le 21 diviso più o meno equamente tra me e il redattore Ashared Apil-Ekur. Nel frattempo, per temporeggiare, volevo mettere una lista delle dieci migliori canzoni contenute in Reign In Blood e avevo scritto il testo, lungo più o meno quanto il testo che ho scritto fin qui, e poi ho trovato una foto che ha cambiato la mia vita per sempre e insomma, anche se è successo venti minuti fa posso dirlo per certo e metterci una firma. La fonte è questa.

“l’orrore. l’orrore.”

La morte grippa, di musica non è bello parlare e altre cose del genere

nigga presi bene dalla vita

A sentirlo così, pare giusto infilarlo a forza nel mucchio dei nigga veramente incazzati  e con qualcosa più che il pregiudizio di un bianco merdoso qualsiasi a stanarlo fuori dal merdaio circostante. Fatto sta che davanti a obiettivi definibili meno che miseri (Mi Ami, Litfiba, Rolling Stone rivista, Sanremo) si sente il dovere e il bisogno di guadagnarsi il cumulo di droghe ed elettroshock mensili per, tipo, tre post in tre anni, e spargere violentemente i semi dell’odio. Da cui il fatto che, messa da parte la speranza di NON sostenere la campagna abbonamenti del Mucchio (né di Rumore, Blow Up o alcuna altra roba del genere), urge riconoscere che si è finiti sul pezzo  anche da queste parti. Il prossimo passo alla riconoscibilità totale del volemose bene nel volemose male sta forse nella forgiatura di una statua a grandezza naturale di – cazzoneso – Zach Hill, o uno qualsiasi del genere.
(E no, non c’è nessun insidejokes perché non siamo amici, non frequento i tuoi giri e non ti capisco quando parli)

Detto questo, visto che anche  gente tipo Roly Porter e Jamie Teasdale ha saggiamente (stocazzo) deciso di andare ognuno per la propria strada – strada che vede per l’uno massicce dosi di oscurità, droni industrialoidi, minacce psichico-tecnologiche varie e per l’altro la lingua fuori su culi luccicanti e pop e tremendamente d’ambiente – la strada, dicevamo, che è qualcosa di inferiore alla sottrazione delle parti che componevano Vex’d, ecco, per questo una volta in più è doveroso star dietro a sobillatori d’odio e rumore che abbiano voglia di far cagnara con modi musica e livore.
Il nome è Death Grips, la miscela è acida tipo hip hop sputato fuori a raschiare ugola e rancore. I testi sono primizie tipo “In the time before time eyes ‘bove which horns/Curve like psychotropic scythes/And smell of torn flesh bled dry/By hell swarms of pestis flies/Vomiting forth flames lit by/An older than ancient force /That slays this life with no remorse” o “Tie the chord kick the chair and your dead” e ancora “Cuz all I really need is some cool shit to mob /Like driving down the street to the beat of a blow job /I own that shit /On some throw back shit /You already know that shit /You even know ‘bout how I know the man /Who grows that, bitch ” , che manco un incrocio tra Sepultura e Michael Gira prima maniera renderebbero appieno. Sotto ci sono robe a tratti semplicemente grezze e momenti fantasmatici con strascichi di quelli che chiamano Steve Albini alla produzione e cose così. A farla da maggiore, comunque, a prescindere dai campionamenti, il rumore, l’overload e l’elettronica varia (compresa qualche parentesi di dancehall meccanica e catacombale splendida), è il senso di un disagio veramente concreto. Di  quei dischi insomma che ti fanno sentire ancora più di merda quando stai di merda; di quelli che consigli a pochi, fiducioso che se lo consumeranno digrignando i denti. Con in postilla l’augurio di un remix stile Kevin Martin dei momenti migliori, scansando e fottendosene della partecipazione di Zach Hill – sempre lui – alla faccenda.  E con un calcio in faccia per successo, magari, a Tyler the Creator e sodali. I tipi comunque, nel dubbio se ne sbattono e ti regalano anche chicche tipo questa. Oltre al disco stesso, certo.

Poi, cagate a parte, viene da ripensare all’asse Def Jux/Anticon dieci anni fa, a come pareva fosse la salvezza del rap, di una certa idea militante di comunità e stronzate così.  Oggi, su quelle orbite, spuntano fuori anche IconAclass (robe post-Dalek, belle ma easy) che non mantengono nemmeno un’oncia di quanto vorremmo promettessero.

Dunque, stretta di mano su stretta di mano, è sinceramente preferibile ri-chiamare in causa accoltellamenti fraterni stile b/metal e dintorni, piuttosto che, ancora una volta, doversi sorbire impunemente schiere di tabulae rasae ambulanti, con due gambe, twitter e qualche collezione di dischi.
Fuor di metafora: le corse a condividere e condividere e condividere il nuovo FBYC a furia di like, plaudendo alla rincorsa sociale di stocazzo senza ancora averlo ascoltato, il disco: SentireAscoltare che butta fuori nomi e cognomi sull’autoreferenzialità della scena (e tra l’altro giuro ho l’impressione che prima vi fosse la foto dei tizi semi-desnudi con le loro facce disegnate sui genitali) e/o rincara la dose egotistica di casa Teatro degli Orrori: Elio Germano in combutta con Teho Teardo:  Mark Stewart pre-ritorno The Pop Group a far sboccare con Bobby Gillespie: Bugo che via twitter la conta a scribi e sodali: Bastonate che diventa paradigma per gentiluomini e via di questo passo.

Segnali precisi dal profondo: è tempo di tornare all’ostilità, pura e semplice e totale. Senza occhiolini, strette di mano, comunanze farlocche, pompini vicendevoli e null’altro. Sempre in nome dell’ODIOpuro (non sociale, non sentimentale, non politico) in quanto modello conoscitivo e mai contro un nemico specifico che non sia il tutto.
Colonna sonora: l’ossessività e reiterazione e palude cerebrale incluse nel pacchetto Death Grips.
Tanto per il resto frega un cazzo, tra un po’ esce il nuovo Disquieted By, arriva la botta Johnny Mox, è fuori Bologna Violenta, Wallace ha sfornato pure l’ultimo Miss Massive Snowflake e io  torno felice.
Benché l’odio e il disprezzo sincero per la comunità rimangano, certo.

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 31 ottobre-6 novembre 2011

 

Dice bene Kekko: la notte del 31 ottobre non è sempre stata Halloween. Per me, il 31 ottobre è soprattutto il giorno in cui è nato uno degli esseri umani che più mi hanno migliorato la vita. John Candy. Oggi avrebbe compiuto 61 anni.
Ma è anche Halloween, certo. Dunque: Halloween party devastante all’XM24 con body performance, concerti, esposizioni, proiezioni e gran dj set tekno, il tutto dalle 22 a oltranza; oppure HELL che torna sul luogo del delitto; o i Calibro35 con annesso festone anni 90 al Bronson (anche se forse contestualmente sarebbe stato meglio un bel 70 revival con tanto di posaceneri di plasticaccia grossi come mattoni con su il logo dell’acqua Pejo e il bar che serve soltanto Chinamartini, whisky J&B e minerale Fiuggi, il tutto in bottiglioni di vetro); o i Messer Chups al Velvet (bella storia…). Comunque meglio non ridursi peggio di un cencio sull’autostrada, che poi martedì c’è l’unica data italiana dei Krum Bums; al Voodoo Club di Comacchio, aprono Be-Ones e Atti Osceni, dalle 22, sette sporchi euracci più tessera ARCI. Altrimenti, per i busoni Egokid al Teatrino degli Illusi (all’interno di Gender Bender Festival), per i raffinati Yann Tiersen al Vox. Mercoledì MeryXM riposa; sarà un mercoledì di merda, comunque per i rockettari stilosi segnalo The Experimental Tropic Blues Band al Sidro di Savignano. Giovedì in compenso è LA serata: Sightings al Bronson (dalle 21.30, dieci euro), ovvero nuove declinazioni dello sfondarsi i timpani, prima e dopo Bastonate djset analogico e mentale. N O I S E . E venerdì si replica con tripletta paura: Guitar Wolf al Millennium (prezzo e orari ad oggi ignoti, sarà di sera e a volume alto, chi non viene è un povero fesso!!!), Snakes of Christ festival all’XM24 con Dead Elephant e altri amici che gli amplificatori li fanno soffrì, last but not least i Necks all’AreaSismica a Forlì (dalle 22.30). Sabato Kode9 + altra gente al Bronson, non sarà l’illbient preso male alla vecchia di una volta ma che cazzo, ci va parecchio vicino; oppure Steel Fest 2011 all’Estragon, una colata di metallo che invece il concetto stesso di alla vecchia lo ridefinisce per davvero, a sommare le età dei componenti dei gruppi si arriverà a sfondare il tetto del milione di secoli… vietato l’ingresso a chi ha meno di 75 anni. Sabato e domenica c’è pure la fiera del disco…



L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 10-16 ottobre 2011

 

 

Lunedì e la settimana potrebbe già finire stasera: dalle 22.30 all’XM24 sfileranno nell’ordine la leggenda semovente Rikk Agnew con band al seguito a riproporre tutti i classici immortali delle band in cui ha militato diciassette secondi per poi andarsene affanculo sbattendo la porta (particolare non da poco: quelle band si chiamano Social Distortion, Adolescents, Christian Death e D.I.), gli spinellanti canadesi Barn Burner (heavy metal come lo suonerebbe Roky Erickson) e gli allegroni transalpini Celeste (ecco un gruppo che ama molto il genere umano). Non è una di quelle barzellette con un francese, un tedesco e un italiano ma il concerto più fulminante degli ultimi millenni, oltretutto a meno di una manciata di spiccioli (ingresso quattro euro); chi non viene è un povero fesso! Domani un cazzo di niente, ma se volete si può organizzare un torneo di scoregge con il mio microfono da quattro euro ad amplificare, fate sapere. Mercoledì ricomincia MeryXM dopo l’anteprima di due settimane fa: aperitivo, presentazione libro, cena e dalle 22.30 Egle Sommacal dimostrerà come John Fahey sia stato e sempre sarà il più grande chitarrista ad aver mai calcato il suolo terrestre; se invece è del casino che volete, magari introdotto da svarioni lessicali che in confronto il Burroughs de La Macchina Morbida stava a posto col cervello, ecco per voi MoHa! + Zona MC al Grottarossa di Rimini (clicca Qui per il flyer). Giovedì almeno per ora non pervenuto. Venerdì si piange con i Get Up Kids al Bronson a ricordarci come sia trascorsa in fretta la gioventù e quanto cazzo sia stata penosa e triste; se invece avete avuto un’adolescenza felice non esiste un motivo al mondo per cui dobbiate conoscere Something to Write Home About e probabilmente sarete al Covo insieme alla bella gente a sentire Alan McGee che mette i dischi (dovevano esserci pure i British Sea Power ma hanno annullato). O magari all’Atlantide per gli Acephalix (ulteriori informazioni appena le imparo). Sabato per chi non è a Roma a farsi manganellare dagli sbirri la scelta sarà tra gli Onyx al Tpo (dalle 23, quindici euro), i Meteors al Fillmore (dalle 21.30, tredici euro che non potrebbero venire spesi meglio se volete sapere la mia) o gli Uriah Heep al Rock Planet (dalle 23, venticinque euro); insomma, largo ai giovani… e domenica pure, con i Faster Pussycat al Kindergarten (dalle 20, prezzo misterioso). È il 2011.

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 26 settembre-2 ottobre 2011

- Che si fa sabato? - Non chiederlo a me, io non so nemmeno dove mi trovo...

 
Se settimana scorsa non c’era niente, questa settimana c’è pure troppo; inizio in sordina stasera all’Elastico con il narcolettico bedroom-pop delle hikikomori multietniche My Bubba & Mi (dalle 20.30), e domani al Locomotiv con la new sensation neozelandese Brooke Fraser (dalle 21, quindici euro più tessera AICS e vi conviene applaudire con convinzione altrimenti suo padre, ex-All Blacks, viene lì e vi sbriciola gli ossicini) oppure al Rock Planet per i Millencolin a ricordarci qual era la musica che ci stava sul cazzo negli anni novanta (dalle 20.30, di spalla altri svedesi ugualmente allegroni, venti euro). Il fatto che ricomincino le serate MeryXM da solo basta per tirare avanti fino a mercoledì: dalle 19 aperitivo, incontro con dibattito powered by campiaperti, cena e concerto carioca style, il problema sarà scegliere: ci sono anche i Talibam! al Clandestino a Faenza (gratis, dalle 22.30), ovvero la versione musicale e ipercondensata di una serie di deficit neurocognitivi devastanti (io li ho visti un paio di volte e ne porto ancora addosso i segni). Comunque vada poi tutti al Kindergarten a strafarsi di keta in dosi da ammazzare tutta la popolazione equina del Texas, che l’accompagnamento musicale è quello giusto: Deniz Kurtel, roba che farebbe salire un plotone di scimmie sulla schiena anche ai sassi e che farebbe diventare lesbico ogni essere vivente (dalle 23.30, dodici euro più tessera Arci, cinque se prima eravate al Comunale per Yann Tiersen). Giovedì rispolverate la divisa di ordinanza, T-shirt sbrindellata dei Negazione o di qualche gruppo crust svedese impresentabile, anfibi di tre o quattro numeri più grandi ovviamente mai lavati, giubbotto con toppe degli Amebix a occupare ogni millimetro quadrato, volendo una cassetta dei Totalitär su per il culo: scatta la passerella, all’XM24 arrivano i Deathcage (più due gruppi spalla, inizio ore 20.30 puntuali, quattro euro), poi doccia veloce e via al Cassero per Alexander Robotnick (dieci euro più tessera Arcigay, sul programma dice che lui attacca a suonare alle 3). Venerdì il negro rock’n’roll Barrence Whitfield al Locomotiv (dalle 22.30, dieci euro più tessera AICS), oppure gli Hayseed Dixie al Covo (dalle 22, ??? euro): in teoria il giorno e la notte, in pratica one nation under a groove che farebbe saltare pure i morti al cimitero. Sabato il delirio più totale: il trans danzerino Jessica 6 al Locomotiv (dalle 22.30, dieci euro più tessera AICS), i Business (più altri crani rasati) al Crash! (dalle 21, dodici euro), i Sunn O))) e la loro distesa di amplificatori al Fillmore a Cortemaggiore (dalle 21, venti euro), i CIV in data unica al Rock Planet (dalle 21, e qui si piange… non so il prezzo), e per le tasche meno pingui La N allo Spazio Indue (dalle 21.30, gratis con tessera Arci) e/o festivalino postgrindingmetalcore all’Ekidna a Carpi (per info vedi flyer Qui). Non bastasse, domenica Weekend Nachos + Cancer Clan all’Atlantide (dalle 22) e/o Jooklo Finnish Trio a Crespellano (tutte le info sul flyer qui sotto), e ci sta pure che in tutto ‘sto bailamme mi sia dimenticato qualcosa.

 

Tanto se ribeccamo: MINISTRY

L’ultimo bel disco dei Ministry è AnimositisominA. Era il 2003, Jourgensen aveva appena smesso col cucchiaino, il disco pare una rilettura demente di Psalm 69 con più chitarre e le narici ancora imbiancate di fecola, ignoranza a badilate e scenari cyberpunk di cartapesta da Z-movie allucinato. Splendido (per sei ascolti).  Da lì in poi l’abbruttimento, Barker lascia e i Ministry con solo Alien al comando diventano un tristo baraccone cowboy-trucido in technicolor alla Rob Zombie degli incapaci ma senza i soldi, i dischi imbarazzanti tirate di metallaccio futuribile di ultim’ordine che Digimortal diventa rispettabile, con testi contro Bush che al confronto i System Of A Down sono filosofi greci. L’agonia va avanti per tre album, il cui contenuto può essere facilmente riassunto in: gli americani sono stupidi e George W. non è un buon presidente (sulla musica meglio far finta di non averne ascoltata manco una nota, pena crisi depressive devastanti, il bisogno insopprimibile di una lobotomia e la voglia di fare un bel falò di tutta la discografia di Jourgensen fino appunto al 2003 – e ce n’è di roba da ardere). Nel 2007 finalmente una buona notizia: The Last Sucker sarebbe stato l’ultimo album dei Ministry: Ho altre cose da fare. Ho appena messo su un’etichetta, voglio mettere sotto contratto alcune band e starci dietro, costruire veramente qualcosa, come ho fatto a suo tempo con la Wax Trax! (chissà cosa ne pensano Jim Nash e Dannie Flesher al riguardo…). Credo che sia arrivato il momento; è meglio smettere quando ancora sei al top piuttosto che tirare avanti per altri trent’anni e finire a fare dischi di merda come gli Aerosmith o i Rolling Stones. (da un’intervista a Billboard del 2007)
Già. Intanto, per non farsi e non farci mancare niente, arrivano nell’ordine: il remix album di Rio Grande Blood, la raccolta di cover Cover Up, il remix album di The Last Sucker,  il live Adios… Puta Madres (anche in DVD), il remix album di Houses of the Molé, il greatest hits remixato Every Day Is Halloween, e Undercover, in pratica Every Day Is Halloween rivenduto con titolo e copertina diversi e scaletta incasinata. In tutti i casi roba che fa schifo al cazzo anche come fermacarte, frisbee o sottobicchiere, anche senza voler farsi del male ripescando le vecchie cose: è merda comunque, a prescindere da chi sia l’autore e quali siano i trascorsi. Meno male che Jourgensen è decisissimo nella sua posizione: Preferisco stare dietro alla console anziché dietro al microfono. Inoltre mi piace l’idea che George Bush e i Ministry se ne vadano al tramonto, mano nella mano, contemporaneamente. Certo.
Ora George Bush si è levato dal cazzo e alla Casa Bianca c’è un negro. In compenso i Ministry hanno suonato al Wacken ad agosto e un nuovo album, l’ennesimo, uscirà forse a natale; il titolo, che probabilmente sarà anche la recensione, è Relapse. Paul Barker resta fuori dal gruppo, i tempi di The Land of Rape and Honey lontani come galassie perdute in un romanzo di Philip Dick, ma di quando stava fuori di cervello. Jourgensen una delle più grandi facce da culo della storia del rock.

Dischi stupidi: Is This Hyperreal?

Alec Empire sembra un cialtrone decerebrato, e gli si vuol bene anche per questo. In realtà la sua visione ha marchiato a fuoco gli anni novanta (e tutto quel che ne è derivato) come pochissimo altro; più prolifico di Scerbanenco, diecimila pesudonimi, sempre in moto, sempre pronto a collaborare con questo e quello, occhi e orecchie spalancati come voragini e ricettivi come paraboliche verso il mondo intorno, una curiosità inesauribile, pari soltanto al narcisismo tossico e a una volontà di ridefinire i confini della musica elettronica di qualsiasi tipo, forma e foggia (dalla techno alla musica concreta, dal rumore bianco all’ambient), l’uomo nato Alexander Wilke ha saputo essere produttore, imprenditore, DJ, squatter, ideologo, icona punk e uomo-copertina (per i dissociati), ha creato con il solo ausilio di macchine old skool e schede audio estrapolate da videogiochi scassati un genere (la breakcore o digital hardcore che dir si voglia) su cui legioni di nullità stanno ancora costruendo carriere, soprattutto, ha saputo fermare lo spirito del tempo in un’incarnazione tra le più vitali, irreplicabili e fieramente ignoranti di sempre. Gli Atari Teenage Riot (oltre a Empire un negro schizzato e una tipa che sembrava un travestito brutto) erano tutto questo: Berlino, la caduta del Muro, i rave. Puro spirito punk all’ennesima potenza declinato in salsa gabber, ribellismo a cazzo di cane in dosi da far cagare addosso Zack de la Rocha, testi sullo sloganistico spinto che al confronto i Discharge erano filosofi greci, riff campionati alla vecchia da dischi metal e non (dai Pantera ai Dinosaur Jr, tutto comunque sgamabile anche da un sordo), gran bailamme di 808 e 909 prese a pugni, un apparato iconografico che sapeva unire le fulminanti visioni cyberpunk dei Ministry degli anni belli a un modernariato pauperistico figlio di Tetsuo quanto di Jeff Minter quanto di Mimmo Rotella se fosse stato giovane ed eroinomane negli anni ottanta: se nel 1995 avevi tredici anni e una gran voglia di ascoltare musica che facesse incazzare gli insegnanti, questa era una vera e propria benedizione. L’apice lo raggiungono nel 1997 con No Remorse (I Wanna Die) assieme agli Slayer per la colonna sonora di Spawn (probabilmente il più brutto film su un supereroe mai realizzato; la colonna sonora non è molto meglio, ma il pezzo degli ATR spacca), nel frattempo era entrata in pianta stabile la giappo-ariano-texana Nic Endo, urla effettate, casino digitale e bella presenza; due anni più tardi 60 Second Wipe Out, stessa sbobba ma stavolta piace anche ai metallari, loro suonano al Dynamo e il video di Too Dead for Me gira nelle trasmissioni metal. Il merzbowiano Live At Brixton Academy 1999 (un solo pezzo di venticinque minuti di rumore fastidiosissimo) l’ultimo atto: pochi giorni prima dell’11 settembre Carl Crack muore, forse suicida. Il gruppo si scioglie, Alec Empire continua a fare uscire cose. Nel 2002 Intelligence & Sacrifice folgora simultaneamente sulla via di Damasco quel che è rimasto della stampa musicale italiana; il mega-marchettone collettivo non sortisce gli effetti sperati, l’interesse gradualmente scema e per i dischi successivi Empire torna a venire snobbato alla grande. Nel 2010 la reunion degli Atari Teenage Riot, oggi il nuovo CD. Al posto di Carl Crack c’è un altro negro, Hanin Elias non è della partita, dice che non ce la fa più a cantare; Alec Empire ha ancora il mascellone volitivo e sembra ancora la versione giovane di Lux Interior, e Nic Endo è sempre una gran figa – con o senza ideogrammi in faccia. Is This Hyperreal?, meraviglioso l’omaggio ai Wipers nel titolo, manco a dirlo è la stessa sbobba di sempre, riff metal rubati, slogan urlati e tutto il resto, e il fatto che esca a ridosso dei casini a Londra è una pura casualità; il valore aggiunto per noialtri vecchiacci è l’effetto-nostalgia, il ricordarci dolorosamente di un tempo in cui eravamo giovani e idealistici e animati da Giuste Cause a caso (Fuck the commercials! Burn down the system!!!, come recitava un biglietto da visita degli ATR del 1992, e crederci davvero). Però il disco è proprio brutto.

L’agendina dei concerti Bologna e dintorni – 18-24 luglio 2011

e noi pure.

 
Stasera e domani per chi ne ha da spendere c’è da fare la spola tra Filippo Re e Bolognetti: hip hop francese da una parte e blues tirolese (con reading di Giovanni Succi in apertura) dall’altra oggi, e Dirk Hamilton contro Ex-Otago (che, e non ci stancheremo mai di ripeterlo, un tempo che mai come ora sembra ere geologiche fa erano un gruppo da devozione totale) per domani, il tutto gratis e ad orari che al confronto le galline vanno a letto tardi. Mercoledì dubbio amletico divorante: delirio 8-bit metal a Faenza + coda con gli Yacht (o come cazzo si scrive) gratis al Museo delle Ceramiche (tutti i dettagli nel flyer più sotto), oppure delirio street punk/grind al Nuovo Lazzaretto con Lobotomia per la prima volta in Italia e Total Chaos (dalle 22, portate l’ossigeno e i sali minerali)? Intanto mi metto avanti e inizio già da ora a cucire toppe degli Amebix sul mio giubbotto di ecopelle sbrindellato. Giovedì ancora ping-pong Bolognetti-Filippo Re: il nuovo fenomeno pitchfork-pilotato Washed Out da una parte, i giovani di belle speranze Yo Yo Mundi dall’altra. Venerdì l’overdose: Death By Stereo al Blogos (dalle 20, quindici euro), Avi Buffalo al bagno Hana-Bi a Marina di Ravenna, il guitar-hero lesbico Kaki King a Filippo Re, e pure le CocoRosie a Ferrara per i più temerari. Sabato è il giorno degli eroi: Sepultura al Rock Planet, Joanna Newsom e Josh Pearson a Ferrara e Lou Reed a Sogliano al Rubicone. Basta la parola.
Da venerdì a domenica al Centro Polivalente United Sport scatta We Love Vintage; ogni giorno dalle 15 a mezzanotte (domenica dalle 11 a mezzanotte) mostre, mercatino vintage e concerti a nastro, il tutto a cinque pidocchiosi euro compresa una consumazione. Siateci.