Il metal stiloso delle donne nude e dei gufi e dei teschi e quanto cazzo fa vomitare il tutto.

kmeir

Il nuovo (si fa per dire, è uscito il 25 marzo, per le tempistiche dei blog è il cretaceo) disco dei norvegesi Kvelertak non è un granché. Cioè è un disco anche carino e tirato con dei suoni carini e tirati (Kurt Ballou, figurarsi), ma in generale suona un po’ come il classico disco che dieci anni fa, mica venti o trenta voglio dire, sarebbe finito nei box di recensioni da una riga delle riviste metal di seconda categoria. Questa cosa io continuo a non riuscire a contestualizzarla: non è possibile che il talento e la personalità si siano estinte all’improvviso e senza lasciar tracce, così come mi sembra stupido che un gruppo di musica pesante non abbia come obiettivo quello di farci ascoltare musica che prima non s’era sentita, preferibilmente più violenta di tutto quel che abbiamo ascoltato. Kvelertak, per carità pure un buon gruppo, sarebbero sopravvissuti a malapena in un periodo di teste di serie, cagato più o meno sì e più o meno no in un campionato di serie B e relegato ad una cerchia di nostalgici infoiati con l’heavy metal e lo stoner.

Volendo farla semplice è anche possibile trovare un punto d’inizio a tutta la faccenda: a fine anni novanta il roster di Relapse inizia a smettere di essere concentrato sul metal estremo e l’etichetta inizia a mettere sotto contratto qualche gruppo di confine, pescando un po’ dalla new school dell’arcòr e un po’ da certi residuati bellici del noise americano stile Unsane e Neurosis. Quel che sembrava poter essere un gruppo culto dell’etichetta nei primi tempi erano tali Mastodon: un paio di membri transitati nei Today is the Day di In the Eyes of God si trasferiscono ad Atlanta e mettono insieme un gruppo nuovo, bellissimi il primo mini Lifesblood e l’album Remission, forse anche più bello il seguente Leviathan, e da lì in poi i Mastodon diventano un genere musicale: aggro-metal sudista con fughe strumentali anni ottanta e batterie stortissime/spessissime. Ascoltare i Mastodon nel 2004 era ancora ascoltare musica estrema e (per certi versi) mai ascoltata prima, o forse era già revival ma di una personalità così intensa da non porre dubbi sul fatto che fosse roba vera. Il successo, i dischi successivi e i gruppi affermatisi sulla loro scia (Baroness, Torche e affini) dimostrano a sufficienza che non bastano un po’ dimostrano che non bastano due dischi fighi e un po’ di personalità a fare un movimento musicale.

Dieci anni dopo, paradossalmente, quello dei Mastodon continua a venir considerato un esempio da seguire. Tra l’altro ormai per decodificare i gruppi non serve manco più ascoltare i dischi: basta il jpeg della copertina. John Baizley (grandissimo illustratore per carità) nel giro di una decina di album è diventato una specie di garante di questa mediocrità della forma e dell’assenza di sostanza, una specie di Pushead senza i polmoni. Aiuta senz’altro il fatto che il gruppo in cui suona è la quintessenza di questo svilirsi della musica intorno a dei concetti puri, ma appena ti trovi davanti una copertina con quei colori tenui e le donne nude e i fiori e i gufi sparsi in giro sai che dopo dieci minuti di musica s’inizia a sbadigliare. Stessa cosa alla prova dell’ascolto: Meir è senz’altro più a fuoco del disco precedente dei Kvelertak, e questo probabilmente è un male: se il disco di tre anni fa suonava come una promessa di cose a venire, questo è la dichiarazione d’intenti di qualcuno che ha deciso di starsene in panciolle per il resto della propria carriera. Urloni, chitarroni, qualche fuga strumentale e vaffanculo: si arriva a fine disco a malapena, si rimette il disco di malavoglia, si spegne dopo un paio di pezzi e s’inizia ad inveire contro gli scandinavi in generale (tra l’altro i Kvelertak vengono dalla stessa città di MoHa! e Ultralyd).

howlb

E i Kvelertak sono ancora fighi se consideriamo che in giro esiste roba che guarda ai Kvelertak con la bava alla bocca e riceve comunque quel tanto di esposizione. Prendiamo gli Howl, gruppo di Providence attivo da più di un lustro che ha cagato il secondo disco su Relapse manco un mese fa. L’album si chiama Bloodlines, la copertina è di Ryan Begley (un John Baizley dei poveri, donne + teschi + uccelli ma un po’ più psichedelico e horror e sangue) e la musica è una specie di rock’n’roll anabolizzato e caricato di growl che chiunque abbia ascoltato gli Entombed da Same Difference in poi può tranquillamente considerare un insulto personale. Quello che infastidisce è l’estetica generale del tutto e il modo in cui anche questa si inserisca così a peso morto, stile c’è posto per tutti i cagnacci di questa terra, in quest’estetica di classicismo heavy metal aggro-core alla Mastodon che tanto non c’è niente di meglio a cui guardare. Quello che infastidisce di più è che -sostanzialmente- è vero: o guardi ai Mastodon o a roba più vecchia e deprimente tipo Neurosis o Converge o DEP, o ti chiudi in cameretta a fare “il black metal”. Vaffanculo.

Leviatani e Locuste (due recensioni gratis al prezzo di una recensione gratis)

C’è un nuovo disco dei Mastodon. Non è niente di che, opinione intercambiabile in merito ai dischi dei Mastodon da Blood Mountain a esser buoni. Ma il gruppo è figo, piace a tutti e dal vivo spacca. E il batterista, non mi fare manco iniziare sul batterista dei Mastodon etcetera. Il problema che hanno i Mastodon è che come gruppo non traboccano proprio di pezzi, per così dire: si sono inventati una buona linea di condotta (tipo facciamo heavy metal normale però suonato come se suonare heavy metal normale avesse un senso, il che tutto sommato all’epoca era pure un concetto innovativo) e l’han portata avanti con tanta fierezza e tanto incazzo, buttando in mezzo tanti di quei riffoni che ancora quando metti Remission e al limite Leviathan i vicini vengono a bussare con una roncola in mano*. Va bene, insomma. Però non hanno i pezzi. Nel disco precedente, quello dove cantava Paperino, era un problema drammatico perché se NON hai i pezzi e uno di quelli che cantano ha quella voce lì sembra che lo stai facendo per il LOAL e/o per vedere quante sono disposte a prenderne su i tuoi fan. Questo disco qua corregge il tiro ma non guadagna in tiro. Non molto. Un po’. Per dire, lo stesso giorno esce un disco nuovo dei Machine Head. I Machine Head fanno tristezza da Through The Ashes of Empires, e hanno rincarato la dose con The Blackening (nessuno dei due fa proprio VOMITARE, diciamoci la verità, ma sentire i Machine Head ributtarsi su roba alla Burn My Eyes dopo aver fatto Supercharger e quello prima fu davvero una cosa che sgonfiava le palle). Oggi stanno provando a uscire dall’impasse senza che nessuno si aspetti più nulla da loro, eccezion fatta per quelli che li vedono dal vivo (sono ancora bestiali, Robb Flynn continua a urlare anche nelle pause tra una canzone e l’altra) e certi osservanti del metal che ancora pensano Roadrunner possa fare uscire dischi fighi. Paradossalmente, il nuovo disco dei Machine Head è una roba che li mette in fila. Davvero, non c’è piaggeria in questa cosa che dico –ammesso e non concesso che io sappia cosa dico quando dico “piaggeria”. Il nuovo dei Machine Head è una sborrata, un DISCONE. Avete presente i dischi fighi dei Machine Head? Guardano a cosa butta nel mercato in quel momento e ne danno una loro versione abbastanza ragionevole. Ora quindi han deciso di fare un disco un po’ mastodoniano mischiato a cose thrash metal slayeriane osservanti e ovviamente al modo in cui scrive Robb Flynn, che tutto sommato non è così differente da quel che era in Burn My Eyes e The More Things Change. Quello che rende Unto The Locust** un disco della madonna, in ogni caso, è il mondo che gli sta attorno: magari nel 2005 potevamo essere ancora schizzinosi e fare le pulci all’ideologia, oggi bisogna aggrapparsi a qualsiasi cosa PESTONA venga buttata sul mercato. E in più i gruppi con i pezzi sono sempre meno. Quindi dicevo appunto VAFFANCULO, il nuovo Machine Head è un disco PESTONE e c’ha I PEZZI. Il nuovo Mastodon, per dire, no. (al momento sto pensando tipo che non c’è niente di più suicida per un blog peso che dire che i Machine Head fanno il culo ai Mastodon).

*che è una cosa che non capita quasi più, praticamente ormai è pura nostalgia anni novanta. Ah, le musicassette. Ah, il festivalbar. Ah, i vicini che ti vogliono menare.

**l’abbiam detto in tempi non sospetti, nel 2011 arrivano le locuste e puliscono il melo.

Navigarella (l’arte del dissociarti mentre clicchi il tasto PUBLISH)

(in cui nel disperato tentativo di avere più voglia di aggiornare la rubrica, Franci decide di togliere i titolini ed incanalare il tutto in un unico flusso)

  • Il Conte ha detto la sua su quella storia dei norvegesi uccisi dal tipo. Naturalmente è un parere non richiesto, antisemita e tutto sommato piuttosto folle –come quasi tutti i suoi pareri. Altrettanto naturalmente la cosa non ha impedito alla gente di buttarcisi a pesce, dissociarsi mentre cliccano sul tasto Publish, e quant’altro. Ormai è diventato tutto come la partita di calcetto il martedì sera.
  • Su questa storia ci si è buttato a pesce anche Assante, non ho ben capito come mai. In pratica linka un pezzo sui Mayhem (in inglese) “alla luce di quello che è accaduto a Oslo”. Qualcuno gli fa presente che a premere il grilletto è stato un fondamentalista cattolico. Lui scrive un SECONDO post nel quale rilinka la storia dei Mayhem in italiano, sapendo che probabilmente l’assassino non ha nulla a che fare con il black metal a nessun titolo, “perchè potrebbe servire, per chi vuole far uso della propria intelligenza, a comprendere meglio la società norvegese, nella quale il nazi-cristiano è cresciuto.” D’altra parte, per quanto ne so io e senza cercare su google, potrebbe benissimo essere che l’unico altro omicidio commesso in tutta la storia della Norvegia sia quello di Euronymous. Continua a leggere

Baroness – “Blue Record”

Baroness - "Blue Record"

Solita storia: gavetta più o meno lunga, primo disco importante centrato in pieno, grandi aspettative per il secondo. Aspettative che, è bene ribadire da subito, sono state mantenute anche se alcune precisazioni vanno fatte. Alla base di tutto c’è una specie di “Mastodon meets doom meets anni’70”, una sorta di post-hardcore/doom con retrogusto progressivo, ma questa volta le divagazioni sul tema (le solite: rallentamenti, botte psichedeliche, passaggi acustici etc.etc.) sono veramente tante e anche riuscite, il disco è in effetti estremamente vario. Cali di tensione evidenti non ce ne sono, anche. Tuttavia, questo ‘Blue Record’ sembra confinare i Baroness nella stessa dimensione che ha il Portogallo nel calcio. In sostanza, grandissimi manovratori, tecnica calcistica sopraffina (vedi Cristiano Ronaldo), ma alla fine mancano i finalizzatori che fanno vincere i mondiali. Per carità, formazione rispettabilissima ed è un piacere vederla giocare, magari in semifinale ci arriva, ma una finale devono ancora giocarla. E così possiamo dire che questo disco è decisamente buono, perfino continuo, e qualche volta affonda anche bene. Ma mancano i veri colpi da ko che possono trasformare un ottimo album in un capolavoro. Più che godibile, beninteso, e senz’altro si tratta di un disco di valore, peccato manchino quelle sfumature che potevano far gridare al miracolo.