MATTONI issue #7: Kevin Drumm

l'arma del delitto.

 
All’epoca possedevo un organo e mi piaceva suonarlo con un ampli Marshall, tenevo due o tre accordi per una mezzora, così tanto per divertirmi. Un giorno che lo suonavo c’era Jim O’Rourke da me e mi chiese se volevo registrare un disco così; naturalmente dissi di sì. Suonai due accordi per un’ora e poi stop. Poi un mucchio di gente iniziò a chiedermi di questa registrazione per organo che avevo fatto per Jim O’Rourke e che si supponeva fosse eccellente; tutti ascoltavano molto quel che Jim diceva all’epoca… Accadde tutto poco dopo che avevo preso il mio primo indirizzo e-mail e non riuscivo a credere a quanta gente mi stesse scrivendo su questa cosa… Uno mi disse che aveva sentito dire che si trattava di un nuovo capolavoro minimalista tipo Tony Conrad o Phill Niblock… E io: “Ma no, sono solo due accordi, nulla di interessante che abbia a che fare con ipertoni o che…” Un altro mi chiese di suonare l’organo nella sua band perché aveva sentito che avevo fatto questa grande registrazione ed ero una sorta di virtuoso dello strumento (ah ah ah…). Altri mi chiesero di pubblicarla senza neanche averla sentita… e per me non era stato che una specie di gioco.
(Kevin Drumm)

Questo è quanto il ritroso e geniale chitarrista chicagoano ha raccontato a Stefano I. Bianchi in un’intervista apparsa su Blow Up #124 a proposito del brano-fantasma più famoso della sua discografia. Registrato nel 1996 e intitolato, bisogna dire con assai scarso sforzo di fantasia, Organ (per l’appunto), è stato poi reinciso e incluso – separato in due tranches distinte, Organ e Organ Returns – all’interno del disco in assoluto più scostante e respingente a cui l’uomo abbia mai messo mano: l’enigmatico, semiautistico e noiosissimo Comedy (2000, probabilmente un j’accuse verso la scena elettrominimalista di quegli anni, purtroppo realizzato in modo rudimentale e motivato da un senso dell’umorismo comprensibile probabilmente al solo autore). Della versione originale, fino ad oggi, erano a conoscenza i soli Drumm & O’Rourke e forse pochissimi altri, uh, “fortunati”.
La recente emissione del box quintuplo Necro Acoustic per la Pica Disk di Lasse Marhaug (non nuova a mastodontiche pubblicazioni archivistiche del genere, si vedano i quadrupli di Government Alpha e dello stesso Marhaug, e soprattutto il mostruoso Box Is Stupid degli Incapacitants – dieci CD – di cui probabilmente parleremo in futuro), dove la ‘vera’ Organ occupa per intero il quinto CD, offre finalmente l’occasione per ascoltare con le proprie orecchie una composizione di cui, probabilmente, troppo si è favoleggiato e troppo si è scritto. Perché la descrizione di Drumm corrisponde a verità: due accordi, due variazioni tonali che somigliano rispettivamente al roteare delle pale di un elicottero in avaria e a una scoreggia amplificata da un microfono guasto, il tutto portato avanti per cinquantacinque minuti senza alcuna variazione (a parte qualche scarichetta elettronica praticamente inudibile di tanto in tanto, e un paio di crepitii in più sul finale, giusto per gradire). Organ è questo. Come sfottò minimalista ha anche un suo perché, ma subirlo per tutti e cinquantacinque minuti è tutt’altro paio di maniche. Perché non esiste qualcosa di peggiore al mondo di un interminabile drone noioso; a quel punto, tanto varrebbe spegnere lo stereo e limitarsi a fissare il soffitto nel silenzio, le probabilità di uscire da sé sarebbero in qualsiasi caso maggiori. In compenso, il resto del materiale contenuto in Necro Acoustic è bellissimo e vale fino all’ultimo dei cinquantadue dollari che costa (questo il prezzo del cofanetto, ordinabile direttamente dal sito della Pica Disk), con punte di eccellenza riscontrabili nel primo CD (tutto a base di microfrequenze spappolatimpani fastidiosissime) e nei trentaquattro minuti di No Edit 2, terminale tour de force kevindrummesco alla vecchia tra sibili, strappi, graffi, abrasioni e più o meno qualsiasi altro non-suono si possa ricavare da una chitarra elettrica collegata a un amplificatore, con in mezzo arbitrariamente una serie di pause improvvise che aumentano il clima di tensione. Potevamo mettere quest’ultimo come MATTONE, ma la verità è che ne volevamo uno stupido.

 

Excepter – Presidence

La musica di Excepter è una delle proposte più spinose della scena di rumore di Brooklyn, non offrenti appiglio facile per quelle che tentano di sintonizzare nella loro lunghezza d’onda nebulosa. I loro inceppamenti longform e improvvisati non sono sradicati in alberino-punk o psych-non schioccano come quelli dei loro dadi del nero dei vicini e collettività animale.

Gugolando* ‘excepter presidence’ esce come primo risultato una recensione inglese tutta ispirata, ed inserendola in Babelfish ecco quanto ne esce fuori. Il motivo vero è che The Scrivere questo Thee Sco, viaggio-acido fattone d’altri tempi, canna fumata a tarda notte alla fine solitaria di Via dei Sabelli, o più semplicemente ambient free-form che ricorda, che so, la musica che potrebbe essere diffusa dagli altoparlanti aspettando un concerto degli Animal Collective, è davvero difficile se si vuole evitare di utilizzare riferimenti di per sé insignificanti.

Non saprei descrivere a dovere la carriera degli Excepter: naturalmente come tutti i senza-vita e i nosferati di questo mondo conoscevo a

I simpatici Excepter

memoria Throne, del 2005, ben prima che gli Excepter esplodessero come vero e proprio fenomeno popolare -anzi POPolare come scriverebbero le riviste di muzika vere- con Sunbomber e poi, soprattutto, con Alternation; ma wikipediando ‘excepter’ in lingua inglese scopro orora con orore che da quel disco di facili motivetti estivi mi sono perso ben nove pubblicazioni lorde, che diventano mi sembra ben tre LP netti più un sacco di altre cose in mezzo. Ma ora, fermiamoci un attimo e ragioniamo: come si può parlare degli Excepter senza conoscerne le limited cassette releases? Sfuggono il senso del tutto, il quadro generale, il significato, la visione storica di un processo che porta una band di drogati a realizzare oggi un doppio cd di UUUOOOAI UOOOOEA, cioè suoni sali-e-scendi o anche pezzi (mattoni) di 20 minuti e più che dopo intro en passant di seicento secondi di rumore statico cambiano improvvisamente e diventano rumore non statico. Insomma, ammetto che tutto ciò che scriverò a proposito di Presidence non è circostanziato da una reale e approfondita conoscenza della nuova scena minimal-wave americana. E se condivido con voi il disprezzo profondo della norma e dei pezzi troppo facili e però, d’altra parte, non voglio finire nel facile albertosordismo del ‘so’ tutte ciofeche, so’ mejo ‘e canzoni, aridatece i guitar solo’, è davvero arduo parlare di un album del genere come se in qualche modo se ne dovesse consigliare o sconsigliare l’acquisto (so che non siamo a questo, nessuno ha più bisogno di nessuno per ascoltare nulla, in genere l’idea è più o meno: scaricateli tutti e poi Dio deciderà).

Ma proviamo a farla facile: Presidence è un set di due cd molto diversi tra loro. Se il disco è scaricato, diciamo che si avverte una certa differenza tra i pezzi 1-8 e quelli successivi, tutti molto lunghi tranne l’ultimo (si va dai 10 minuti della suggestivamente intitolata The Anti-Noah alle mezzore di Og e Presidence) e alquanto diversi tra loro. A volerla prendere con disincanto, si tratta in sostanza di cazzeggio per synth e drum-machine ed EEeEecOOOoodivOOCIIiii ed altri suonini inquietanti prodotti da non so quali aggeggi; a prenderla con serietà, si potrebbe dire che, se si vogliono evitare i riferimenti oscuri cui accennavo prima tipo che so, la No Neck Blues Band in collaborazione con Embryo, o The Sunburned Hand of the Man (che sì, lo so che queste sono vere e proprie rockstar per noi esseri anomali: ma a volte tocca venire a patti con la consapevolezza che c’è un mondo là fuori) , il massimo del popolare che mi viene in mente per descrivere questi suoni sono i Tangerine Dream del periodo pre-popolare. Quindi, un cazzo: è tutta una questione dello scegliere pregiudizialmente da che parte stare.

Ad essere filosofici, la questione sarebbe forse: ‘perché ascolti questo genere di musica, o perché ascoltano musica affatto?’ (la domanda è stata formulata in inglese e poi tradotta con Babelfish, assumendo così un tono sperimentale). Rispondere non è facile: si può davvero ascoltare un disco come questo? Ossia, aspetti meccanicistici a parte, è possibile trovare piacere nel gelido sperimentalismo minimale degli Excepter auto-spogliatisi di quelle parvenze di orecchiabilità delle loro precedenti uscite di metà decennio? Io, che pure di musica del genere ne ho ascoltata davvero tanta prima della pensione (ora apprezzo i Baustelle e tardi dischi di Tom Petty), penso – so – che può essere davvero bello, in una tarda notte di un giorno feriale, ritrovarsi con la sola compagnia di sparuti freaks & ghouls (ghosts & goblins) in un locale misconosciuto, gelido o caldissimo, e abbandonarsi al viaggio mentale e sonoro di un paio di ragazzi americani che improvvisano col synth a migliaia di anni luce da casa; e questa cosa so che la sanno tutti quelli che si sono trovati, che so, a un live notturnissimo dei Peeesseye o dei Black Dice. Dice quindi questa recensione inconcludente, che il nodo della questione sia se ascoltare un disco privandolo di tutto questo, o rimanendo all’oscuro di tutto questo, abbia un senso. Chi può amare Presidence già lo sa, ben prima di ascoltarlo: Das Zerstoren, Zum Geboren, direi con i New Blockaders (non so minimamente cosa significhi), o forse meglio, con Caetano Veloso, Um disco para entendidos.

Ashared Apil Ekur

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* Tentativo sperimentale n. 1 (in linea col disco degli Excepter) di produrre un neologismo che sia al tempo stesso più letale e fastidioso del progetto musicale di Violante Placido che il diavolo se la porti via / dopo una lunga e sofferta malattia (dice il famoso sonetto)

Kid606 @ Cassero (Bologna, 12/2/2010)

C’è stato un momento in cui Kid606 ha rischiato davvero di diventare il nuovo reuccio dell’elettronica “da ascolto” per i salotti buoni di gente che non sa nemmeno cosa sia il sudore; era il 2000 e sembrano passati secoli, e il nostro – allora poco più che un ragazzino – veniva ufficialmente lanciato nello stardom di chi se ne intende di musica courtesy of la longa manus di quegli scoreggioni di The Wire, che totalmente a buffo lo eleggono capofila de la nuova scena di San Francisco. Nomi messi lì a caso – Lesser e Matmos tra gli altri. In quel paio di semestri il Kid era ovunque, suonava con chiunque e pubblicava dischi a getto continuo, fino a saturare lui stesso, da solo, quel micro-mercato che era riuscito a creare dal niente; con la sua etichetta Tigerbeat6 licenzia venticinque dischi in poco più di due anni, suoi o di artisti che suonano esattamente come lui. Quegli stessi dischi li ritrovavi due mesi dopo nelle vaschette degli usati a prezzi da elemosina. Nel 2003 quando esce uno dei suoi lavori migliori (Kill Sound Before Sound Kills You, vedi alla voce autocoscienza) il Kid è già merce avariata, passè, come un abito di Armani di due collezioni fa; la scena si è dissolta come un peto di David Toop, velocemente e senza conseguenze. Resistono solo i Matmos, che in compenso diventano sempre più grandi e stimati e intoccabili, e la loro fama è meritata. Lui no; coltiva il suo orticello (nella forma di un’inesausta messe di uscite sempre uguali su Tigerbeat6), resta nel suo, pare fottersene delle luci della ribalta che hanno smesso di brillare e con grande coerenza continua a fare quel che ha sempre fatto, dischi su dischi su dischi di elettronichina giocattolosa coi ritmi spezzati acuminati imprevedibili, traiettorie schizoidi che sembrano disegnate col laser dentro una schermata di Jeff Minter, drum machine che cambiano setup 357 volte nello stesso brano, su tutto quell’angoscioso furore allucinatorio che da sempre governa la visione del ragazzo che ormai è diventato uomo. Nel 2006, dopo l’ennesimo schizzetto su dischetto (il pazzerellone Pretty Girls Make Raves), perdo le sue tracce; ho in casa tutti i suoi CD e buona parte del catalogo Tigerbeat6 e quasi tutti li ho comprati usati per pochi spiccioli.

i ferri del mestiere.

Avanti veloce fino a un venerdì sera di febbraio 2010: plana a Bologna il ragazzo di cui un tempo fregava qualcosa a qualcuno. Era il 2000 e sembrano passati secoli, perché nel 2000 una data così avrebbe fatto il pienone; questa sera invece in pista si sta larghi, sarà perché è inverno, sarà perché ha nevicato da poco, sarà perché c’è Audion al Kindergarten. Non ho idea di come il Kid abbia trascorso le giornate negli ultimi quattro anni, ma vederlo a pochi palmi da me stasera mi fa un effetto strano e non del tutto piacevole; avevo lasciato un ragazzetto smilzo e beffardo, nervosamente ammiccante dalle pagine patinate delle riviste che contano, e ritrovo un panzone unto mezzo pelato che dimostra quasi vent’anni più dei trenta che ha. Ingenuamente pensavo che la fama perduta non lo avesse minimamente toccato, in fondo ha continuato a fare la sua cosa nella buona come nella cattiva sorte, ma su disco non si poteva vedere quanto avesse accusato il colpo, ora sì: quello che ci si para davanti è un vecchio dalla mostruosa faccia da neonato, un bambino intrappolato nel corpo di un ispanico obeso sformato da scorpacciate di junk food. Un bambino sperduto che si caga sotto dalla paura. Il Kid versione 2010 porta sulle spalle tutta l’immensa drammaticità dell’has been, da solo incarna l’epica della disfatta, la dignità tragica del sopravvissuto. La console è un tripudio di aggeggi ingarbugliati, valvole e fili che si intrecciano come in un delirio corpo-macchina cronenberghiano, una wasteland di cavi e spine e prolunghe che pare uscita da un vecchio film cyberpunk, punteggiata da tre bicchieri colmi di altrettanti diversi cocktail che il Kid miscelerà succhiando avidamente dalla cannuccia come un bimbo che rischia contemporaneamente la congestione e il soffocamento ingollando una Fanta ghiacciata; accanto a un laptop su cui impiegherà svariati lunghissimi minuti nel tentare di rimuovere la plastichina che sta sopra il touch-pad c’è un microfono, del quale si servirà per lanciare di tanto in tanto assordanti urla effettate. Guardandolo bene durante uno dei suoi mix alcolici mi accorgo che indossa un paio di guantini dell’Uomo-ragno con le dita tagliate. La musica che crea (e che fuoriesce dalle casse a volumi da esperimento nazista sul sistema nervoso) è la stessa di sempre: breakbeat molesta, urticante, fastidiosa e beota, suoni plasticosi da cartuccia del Gameboy lasciata macerare al sole, traiettorie diagonali da flipper guasto. Mettete un campionatore in mano a un orangutang, probabilmente il risultato sarà lo stesso. La pista, già di per sé non esattamente guarnita, si svuota lentamente ma inesorabilmente; quei pochi che cercano di ballare, dopo i primi minuti, non nascondono una certa insofferenza. Il Kid continua a ciucciare dalla cannuccia, batte le manine, ogni tanto gira una manopola, dice cose incomprensibili al microfono ipersaturato. Il livello dei bassi è insostenibile, la saturazione farebbe sclerare un sordo; mi scappa la diarrea e temo di non essere il solo. Arrivano i buttafuori a chiedergli di regolare i bassi; lui obbedisce, per dieci secondi, poi li rimette al doppio di prima. Passano quaranta minuti. I buttafuori tornano alla carica; il Kid chiede al microfono: “Volete che diminuisca il livello dei bassi? Alzate le mani se volete che diminuisca il livello dei bassi“, ma nessuno capisce un cazzo, anche perché vista la distorsione più che un discorso pare un pezzo di Masonna, e nessuno alza le mani. Poi, l’imprevisto: il Kid rovina addosso al laptop, forse rovescia uno dei suoi drink su una presa di corrente, non si capisce, fatto sta che il bailamme sonoro viene troncato di colpo. Il silenzio che ne deriva è strano, troppo brutale e immediato per considerarlo un sollievo. Dopo minuti che sembrano eterni la musica riprende a sgorgare, ma non è più quella di prima: parte infatti un abominevole pezzaccio nu-rave che fa cagare il cazzo, poi un altro, poi un altro ancora. Un orso gentilissimo mi spiega che gli si è rotto il monitor, e che quindi ora il Kid “fa quel che può”. Quel che può si risolve nel mixare malamente gli mp3 che ha sul computer, in massima parte merda irredimibile alla Simian Mobile Disco tra cui all’improvviso spunta, incredibilmente, Pull Over di Speedy J, unico diamante in mezzo a un oceano di merda. Poi, dopo un lasso di tempo imprecisato, riprende in mano il microfono, saluta e ringrazia. Incrocio il suo sguardo mentre sono in fila al guardaroba e lui torna dal bar con l’ennesimo bicchiere in mano. Gli faccio il segno delle cornine metal; lui ricambia il gesto con un sorrisetto tristissimo, fissandomi per una frazione di secondo con quei suoi occhioni da bambino scalzo della Bolivia in cerca di adozione. Dal 2000 aspettavo di vederlo all’opera e ora so com’è un live di Kid606. Forse era meglio se rimanevo con la curiosità.

Hair Police @ XM24 (Bologna, 11/11/2009)

2502398749_cdaea2dd50(foto presa da qui.)

 

È la musica brutta: roba largamente improvvisata, apparentemente suonata a cazzo di cane, con un sacco di sfrigolii gracchi e fischi fastidiosi, i volumi altissimi, tante tante manopole pulsantiere e pedaliere per tirarci fuori effetti dissonanti, dischi in tirature ultralimitate (spesso in CD-R con confezioni strane o, ancora meglio, in cassetta, che fa tanto dissociato semiautistico rimasto mentalmente nello scorso secolo) con un corredo grafico pazzerello e zuzzurellone che è un tripudio di disegni matti, schizzi e schizzetti che vorrebbero sembrare un misto tra le opere di un bambino dell’asilo particolarmente duro di comprendonio e le visioni malate di qualche serial killer psichicamente prostrato. Altre peculiarità per entrare a pieno titolo a far parte dell’elite comprendono suonare in almeno tredici gruppi diversi (tutti con moniker astruso, strambo e mattacchione), gestire (o collaborare con) una fanzine di carta piena di scarabocchi, tenere una distro di materiale urticante e aver suonato almeno una volta al No Fun fest. È roba che nella maggior parte dei casi diverte più i musicisti che gli ascoltatori, comunque impossibile da ascoltare tra le mura di casa senza sentirsi un perfetto imbecille, ma che dal vivo a volte ha un suo perché. Gli Hair Police soddisfano tutti i requisiti fondamentali per rivestire un ruolo di prim’ordine all’interno della scena: hanno un nome estroso, fanno tanto chiasso e il chitarrista è perfino entrato nei Wolf Eyes. Una ricerca a vuoto per il locale dove doveva suonare Z’EV (avevano cambiato il posto o io ero più rincoglionito del necessario) e l’XM che incredibilmente inizia la serata in orario mi fanno perdere le esibizioni dei gruppi spalla; quando entro gli Hair Police si stanno sistemando davanti agli strumenti. Il colpo d’occhio è promettente: Mike (il cantante/chitarrista nonché nuovo Wolf Eyes), uno gnomo con una notevolissima panza da birra, sta accordando lo strumento a due centimetri dall’amplificatore già settato a un volume inaudito causando una serie di sibili e stridii da esperimento nazista sul sistema nervoso, il tizio ai synth si lega al collo una pedaliera e il batterista sfoggia una camicetta attillata e un paio di Ray-Ban a goccia da fare invidia ai Nigel Pepper Cock. Iniziano con una jam piuttosto noiosa in cui ognuno sembra andare per conto proprio, molto lenta e decisamente inconcludente, con Mike che ogni tanto strilla cose al microfono con uno screaming arcigno che qualche mentecatto potrebbe definire metal (anzi, black metal che così fa più effetto, fa più weird). Poi scatta qualcosa: dopo una mini-sfuriata grind che lascia il tempo esattamente come l’ha trovato parte un monolite lentissimo con il batterista che per dieci minuti picchia sul rullante tipo POM. POM. POM. POM. POM., la pedaliera appesa al collo del tizio allampanato che lavora alla grande e Mike che spreme dalla chitarra suoni veramente malsani. Il concerto va avanti così, con l’alternanza scheggia velocissima-stillicidio straziante e bradipesco che rimane invariata, l’unica differenza è che a volte invece di fare POM. POM. POM. il ritmo è POM. PO-POM. POM., ma l’insieme funziona, è ipnotico, schiettamente marcio e genuinamente disturbante; finito il concerto mi sono effettivamente sentito sporco, indecente, sbagliato fino alle viscere. Certo i volumi da sordità immediata avranno contribuito non poco ad accrescere l’effetto di straniamento, ma per una volta la musica brutta è stata veramente brutta anche nei fatti e non soltano nelle parole del fanzinaro decerebrato americano di turno o di qualche scaltro cool hunter degli incapaci.

Monarch @ Scalo San Donato (Bologna, 4/11/2009)

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Vedere i Monarch dal vivo per lunghi anni è stato per me poco meno di un pio desiderio, qualcosa di molto vicino a una fantasia irrealizzabile, tipo vincere al Superenalotto, diventare Re del Mondo o svegliarsi una mattina con il cazzo più grosso. Fantasia formatasi intorno alla fine del 2005, quando rimasi letteralmente folgorato dal primo album del collettivo di Bayonne, un mostro di un’ora e mezzo per tre fluviali insostenibili maceranti composizioni di terminale funeral-sludge-doom con innesti ambient e noise rimescolati in una produzione tra le più fangose e putride fosse mai dato sentire, qualcosa di – letteralmente – mai udito fino ad allora, e finalmente divenuta realtà quattro anni più tardi grazie a un temerario mini-tour europeo che ha graziato l’Italia di ben tre date (le altre erano ad Arcore e Torino); nel frattempo ci sono stati uno scioglimento e una reunion, tre split EP (rispettivamente con Elysium, Moss e Grey Daturas), altrettanti album (sempre in tirature risibili, spesso in vinile colorato, comunque con due pezzi per botta e copertine manicomiali), un EP di cover dei Discharge (…) e perfino un best of (Dead Men Tell No Tales, del 2007, il titolo è preso dal pezzo che apriva il disco di debutto). Basso profilo (il loro demenziale sito ufficiale non esiste più da anni), umiltà e fede incondizionata all’etica underground, i Monarch sono tra i segreti meglio custoditi della scena doom mondiale. La sala dove vengono fatti suonare è adeguata alla loro musica, uno scantinato buio e umidissimo nelle viscere dello scalo merci di via Larga; per l’occasione è stato imbastito un mini-festival con un cartellone che è una gioia per chiunque ami farsi sfasciare i timpani con criterio. L’inizio a orari antelucani mi impedisce di godere delle performance di Jagannah e Iron Molar (comunque già visti e sentiti in più occasioni: spaccano il culo e probabilmente ne parleremo presto); ad accogliermi trovo invece l’impressionante muro del suono eretto dai Malasangre, ormai da un decennio tra le realtà italiane più consolidate in ambito stoner-doom. Dalla psichedelia viaggiosa e spinellante dell’esordio A Bad Trip To… (autentico tesoro nascosto di cui sarebbe auspicabile una ristampa quanto prima) la loro proposta musicale si è lentamente evoluta verso un doom acido, altamente depressivo e saturo di basse frequenze, con attitudine black metal, vocals salmodianti e occasionali inserti di samples, una roba ideologicamente molto vicina a quell’inclassificabile UFO che fu From the 13th Sun, il disco dei Candlemass che i Candlemass stessi vorrebbero non fosse mai esistito. Loro citano Nightstick, Skepticism, Burzum e Clandestine Blaze tra le principali influenze, e c’è da crederci. La qualità del suono questa sera gioca però a loro sfavore, i volumi elevatissimi e un’amplificazione che è quel che è rendono i timbri eccessivamente sgradevoli e la permanenza in sala un autentico tour de force; dopo parecchi minuti di tempie pulsanti e gengive tremanti alzo mio malgrado bandiera bianca e risalgo al piano terra dove sento tutto benissimo con il pavimento che vibra sotto i piedi.
Il set dei Monarch è breve ma circostanziato e pienamente appagante: un solo brano, finora inedito, di quarantacinque minuti, che nasce dal nulla e cresce inesorabilmente in intensità e volume montando lentamente tra funerei drones e stentorei colpi di batteria, con la cantante Emilie che, ripiegata su sé stessa, si prende tutto il tempo necessario per far lievitare la tensione fino ad esplodere in una serie di urla belluine opportunamente effettate, comunque sommerse dall’opprimente cappa sonora che tutto avvolge e tutto inghiotte. Una progressione ipnotica, stordente e malvagia che riporta alla mente il minimalismo più ferreo quanto le meraviglie del (finora) unico album dei Teeth of Lions Rule the Divine, un’incursione nei luoghi più inospitali della mente che entra nel sangue e lascia spossati, debilitati, inerti al suo termine.
Chiudono gli Akronia con il loro arcigno industrial-ambient marziale, tetro e negativista, un reiterato assalto al sistema nervoso punteggiato da inquietanti vocals femminili che accrescono l’unicità e la peculiarità dell’atto, la sonorizzazione ideale per incubi notturni invasivi e difficili da dimenticare.

Times New Viking @ Covo, Bologna (7/10/2009)

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Era da un po’ che non mi facevo un concerto infrasettimanale al Covo, non ricordo quando è stata l’ultima volta, di solito la programmazione è limitata alle sole serate di venerdì e sabato (dove i live sono quasi una scusa, un antipasto alla selezione musicale che seguirà) e appena entro capisco come mai: il locale è praticamente deserto, giusto un pugno di irriducibili e qualche frangetta spaesata, probabilmente a disagio senza la calca del weekend. I Times New Viking in Italia hanno attecchito poco; nonostante una copertina e qualche articolo sui fogli che contano, e un moderato chiacchiericcio telematico sulla minuscola scena shitgaze di cui sarebbero incontrastati alfieri (praticamente un incrocio tra garage, noise e rock psichedelico, il tutto registrato a bassissima fedeltà), i loro dischi rimangono una faccenda per pochi. Forse a ragione, dal momento che il trio di Columbus, Ohio non è più riuscito, almeno a parere di chi scrive, a replicare la bellezza e l’efficacia dell’esordio Dig Yourself (2005), disco che, pur non aggiungendo alcunchè di nuovo e men che meno di “rivoluzionario” al genere e alla scuola di pensiero da cui prende le mosse, costituisce senza dubbio ascolto piacevolissimo e coinvolgente, capace di evocare lancinanti nostalgie per chiunque fosse uso rovinarsi irreparabilmente i timpani con il noise più storto e la lo-fi più marcia in anni in cui eravamo tutti più giovani e più felici. Ed è esattamente con questo spirito che saluto l’ingresso dei Times New Viking sul palco: da loro mi aspetto niente meno che un attentato ai padiglioni auricolari, una sconsiderata overdose di decibel da far sanguinare il naso, digrignare le gengive e spedire la calotta cranica e tutto il suo contenuto dritta dritta su Saturno. Verrò accontentato, anche se non nel modo che speravo: i volumi sono assordanti e l’intensità delle onde sonore è tale da mettere a durissima prova la sopportazione delle mie orecchie comunque destinate a un futuro nel segno dell’Amplifon, ma la cosa finisce qui. Il gruppo ha deciso scientemente di non avvalersi di tutta l’effettistica che ha usato in studio (per “non complicarsi la vita” e “non avere troppa roba da portare in giro in tour“, mi diranno loro stessi più tardi), rinunciando quindi a ogni tipo di distorsione che – e la cosa emerge in maniera perfino brutale – era quel che rendeva la loro musica degna di essere ascoltata; quel che resta sono sciapissime canzonette garage pop che qualsiasi idiota con la chitarra al collo e il baffetto sbarazzino saprebbe tirare fuori in cinque minuti, e il fatto che suonino a volumi altissimi non basta a renderle interessanti. Quando tra una canzone e l’altra vado al cesso e mi accorgo che quel che stanno facendo sul palco si sente molto meglio a tre stanze di distanza ho la conferma definitiva che a ‘sto giro alzare il volume non ha significato nulla: è solo più fastidioso. Fortuna che al banchetto del merchandising hanno una stilosissima maglietta con su scritto FUCK YOUR BLOG in rosa a caratteri cubitali, e la cantante Beth Murphy è molto gentile e molto paziente e continua a sorridermi anche quando le dico che il concerto non mi è piaciuto perché non c’erano le distorsioni. La memoria torna spontaneamente al 2004, concerto degli Hunches (era tra l’altro lo stesso giorno: 7 ottobre), Covo ugualmente semivuoto, tuttora una delle dimostrazioni più radicali di melodia applicata al rumore puro a cui abbiamo mai assistito. Altra storia.

Il download illegale della settimana – Namanax

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Namanax era la denominazione tramite la quale Bill Yurkiewicz (membro fondatore degli eccezionali Exit 13 nonché padrone di Relapse records) dava sfogo al suo amore per il white noise più estremo e incompromissorio; l’esordio Multi-Phase Electrodynamics (una sola traccia di 35 minuti) e il successivo Cascading Waves of Electronic Turbulence (due tracce rispettivamente di 11 e 47 minuti), entrambi registrati live in studio, pur simpatici e realizzati con evidente passione, erano poco più che accorate riproposizioni dello stesso identico canovaccio tanto caro a realtà quali Incapacitants, C.C.C.C. o il primo Merzbow, quello più esasperatamente monolitico e fieramente monocorde fino alla noia nera. È con l’ingresso in formazione di Kipp Johnson (synth) e – soprattutto – James Plotkin (chitarra ed effetti) che le cose si fanno estremamente più interessanti: Audiotronic, pubblicato nel luglio 1997 da Release Entertainment (divisione “sperimentale” di Relapse che – ohimè – da qualche anno pare sia stata messa in stand-by), è un disco che ridefinisce fin dalle fondamenta il concetto stesso di “massimalismo”. Assolutamente impressionante per potenza del suono e gran dispiego di basse frequenze, roba da far scappare via piangendo i Sunn 0))) (e pubblicata, è bene evidenziarlo, almeno un tre-quattro anni prima che questi ultimi scoprissero l’acqua calda iniziando a plagiare gli Earth), il programma propone una continua e ininterrotta colata di drones capaci di rimescolare le viscere anche se ascoltati a volume minimo, un tripudio di vibrazioni da far tremare i peli sullo stomaco al più scafato degli ingegneri del suono. Un saggio di tecniche di registrazione (producono gli stessi Yurkiewicz e Plotkin, due vecchie volpi del mixer), ma anche un lavoro di straordinario rigore formale ed estetico: raramente un disco di drone music è altrettanto ben congegnato e altrettanto sinceramente emozionante.
L’ultima emissione a nome Namanax è il più che discreto Monstrous dell’anno successivo, curioso concept album ispirato ai personaggi dei film dell’orrore del passato (con tanto di Frankenstein impazzito in copertina) dove il marchio abbandona quasi totalmente l’assalto drone a favore di samples, sfrigolii e scariche elettrostatiche al limite delle microwaves; da allora più nulla, anche se regolarmente circolano voci riguardo a un fantomatico comeback, e da marzo 2007 esiste pure una pagina myspace del gruppo. Con la medesima lineup dei Namanax sono usciti anche due trascurabili album sotto la denominazione Solarus: Empty Nature (1997) e Crystallized (1998) propongono un dub liquido e onirico, molto “laswelliano” nella forma ma non nei contenuti (che invece ricordano, ai limiti del plagio, gli Scorn di Colossus), indubbiamente gradevole come sottofondo per una allegra serata tra tossici, ma poco altro.

Il download illegale della settimana – Gummo OST

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Gummo (1997) è uno di quei film che ridefiniscono fin dalle fondamenta il concetto di “a bella posa”, tanto programmaticamente sgradevole da suscitare tenerezza: provinciali cattivi, menomati e mentalmente bacati che vanno in giro a fare cose turche, fastidiose e comunque prive del benchè minimo significato. Non c’è trama. A un certo punto spunta fuori anche qualche gatto morto (vero). Prendete ottantasette minuti e buttateli al vento: l’effetto è quello. Il regista (si fa per dire) di questa roba è l’allora poco più che ventenne Harmony Korine, skater problematico, degno sodale alla corte di Larry Clark (sue le sceneggiature di gran parte dei misfatti del vecchio pervertito), videomaker a tempo perso nonché, ehm, idolo di Asia Argento quando ancora se la faceva con Kirk Hammett (e andava in giro a spiattellarlo ai quattro venti). Che il ragazzo fosse un po’ disadattato, realmente e al di là dei ributtanti script “controversi” sfornati su richiesta per il pessimo Clark, lo si capisce dalla colonna sonora che ha imbastito per questo suo primo exploit dietro la macchina da presa. Korine è convinto, forse a ragione, che tutti i ragazzini della suburra americana siano minorati mentali e in quanto tali si sfondino di dischi metal e video degli Abruptum dalla mattina alla sera; poco male, se tanto serve a mettere insieme una delle compilation più improponibili di sempre della storia del cinema passato, presente e futuro. Brani di Sleep, Eyehategod, Spazz, Brujeria, Bethlehem, Nifelheim, Mystifier, i temibilissimi Namanax di Bill Yurkiewicz e James Plotkin (capaci di condensare in un unico album, il magistrale Audiotronic, tutto quel che i Sunn cercano affannosamente di raggiungere da che esistono), Absu, Bathory e perfino Burzum (prima, e ad oggi unica apparizione del Conte in una qualsivoglia soundtrack), oltre a un malatissimo e fastidiosissimo intro a base di voce filtrata (probabilmente di uno degli spastici protagonisti del film) che declama terrificanti frasette nonsense in una sorta di lascivo e perverso yodeling da far ghiacciare il sangue nelle vene. Va a finire che la colonna sonora è di parecchie tacche superiore al film stesso. Di più: è ancora oggi la colonna sonora più eccitante che potessimo anche solo provare a immaginare. Pubblicata in CD nel 1998 e immediatamente finita fuori catalogo (se ne trova qualche esosissima copia usata su ebay di tanto in tanto), ha come unico difetto l’omissione di brani di Brighter Death Now, Buddy Holly e Roy Orbison, oltre che di un secondo pezzo di Burzum – la ragione probabile è che già così si sforavano abbondantemente i 78 minuti (durata massima consentita dal formato). Korine dimostrerà di saperci fare con il successivo Julien Donkey Boy (1999), girato aderendo alle regole del Dogma, ancora decisamente programmatico e gratuito ma allo stesso tempo non privo di un certo spettrale magnetismo (c’è anche Werner Herzog nella parte di un dispotico padre di famiglia – l’avreste mai detto? – completamente andato di cervello), oltre che intriso di sincero dolore e partecipe senso dell’umana pietà.