È morto Ryan Dunn. Stuntman di Jackass, inizia in sordina (soprattutto cadute dallo skateboard in coppia con Bam Margera) per poi prendere il volo nel primo film della serie, dove si infila un’automobilina su per il culo e la tiene dentro il tempo necessario per farsi fare una radiografia, il tutto senza un lamento. L’aria da redneck particolarmente buzzurro ma con stile si evolve nel corso degli anni fino a diventare una via di mezzo tra il surfista sensibile e l’orsetto gentile; la capacità di subire fino all’ultima delle angherie mantenendo praticamente sempre lo stesso aplomb come se si trovasse lì per caso contribuiva a renderlo il personaggio più umano e meno cartoonesco di tutti. Per una sorta di tragica ironia perde la vita in un incidente stradale; aveva da poco compiuto 34 anni. Se la memoria non falla è il primo morto legato all’unica serie che abbia avuto un senso seguire.
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Phil Vane 1964-2011
Per circa un decennio gli Extreme Noise Terror sono andati avanti a registrare e ri-registrare costantemente gli stessi pezzi, quasi fossero stati condannati da qualche divinità beffarda a riscrivere in eterno la storia del crust: tre Peel sessions, un album (il fondamentale A Holocaust in Your Head) e una serie di EP e split relativamente breve considerati gli standard del genere, in tutto non più di una quindicina di canzoni reincise di volta in volta. Ma sono di quelle canzoni che la maggior parte dei gruppi passati, presenti e futuri può soltanto sperare di riuscire a scrivere un giorno, e che la maggior parte dei gruppi passati, presenti e futuri non riuscirà a scrivere mai. Tentare di spiegare l’importanza di pezzi quali Raping the Earth, Conned Through Life, Bullshit Propaganda, Human Error, Use Your Mind (la più grande canzone anti-straight edge di sempre) o Punk: Fact or Faction? (per citare soltanto qualche titolo a caso) significa entrare fin nelle viscere del suono e dell’etica crust, di cui gli Extreme Noise Terror sono stati la colonna portante. Squatters, militanti, ideologi, animalisti, anticapitalisti, alcolizzati, tossici, riuscivano a essere tutto questo senza fartela minimamente pesare o infilarti la loro morale fin su per il culo; i loro pezzi riuscivano a far riflettere con poche e calibrate frasi che sapevano essere sentenze senza mai scadere nello sloganistico spinto. Dai Discharge avevano mutuato l’asciuttezza e l’estrema concisione stilistica portandola a un livello superiore per efficacia e contenuti. E guai a dire che ascoltavi i dischi soltanto per la musica: Take time to think about the lyrics, but don’t blindly accept them to be right… Form your own opinions… Find your own answers… I.E.: THINK!, questo stava scritto nella busta interna delle Peel Sessions del ’90 e riassume perfettamente il loro pensiero al riguardo.
Quando nel 1995 la Earache pubblica Retro-Bution è come se avesse lanciato una bomba a mano dentro ai cervelli delle teste metal più ricettive: ancora i classici di sempre ri-registrati e riarrangiati, ma in una veste inedita tra l’industrial metal e il grind contaminato mai sentita prima e mai più tentata poi. Uno shock totale, uno dei dischi più alieni e imprendibili anche all’interno di un catalogo che aveva scelto l’eccezione e l’alterità come regola di vita. Per pochi mesi tra il ’96 e il ’97 un bizzarro scambio di vocalist coi Napalm Death: entra ‘Barney’, esce Phil Vane, poi le cose tornano come erano prima. Damage 381 è il risultato, primo album di materiale al 100% inedito da… beh, praticamente da sempre. Non è male, ma Retro-Bution resta irraggiungibile; è sempre grindcore mezzo metal con divagazioni cibernetiche malvagie e qualche colpetto da sborone che magari si poteva anche risparmiare (la title-track, dove ‘381’ sta per i bpm raggiunti dal forsennato batterista durante il pezzo), su tutto una produzione che più pulita non si potrebbe (opera della superstar Colin Richardson). Non va come dovrebbe andare: si aspettavano il botto, non succede un cazzo. Nel 2001 esce su Candlelight Being and Nothing, un indigeribile beverone brutal death ‘tecnologico’ talmente brutto che quasi non ci si crede; della vecchia formazione era rimasto il solo Dean Jones. È l’ultimo disco degli Extreme Noise Terror che ho sentito, poi ho preferito ignorarli e tenermi i ricordi.
Phil Vane è stato uno dei due cantanti degli ENT (l’altro era/è il sopracitato Jones) dal 1985 al 1996, dal 1997 al 1999 e, imparo ora, dal 2006 al 2011. È morto nel sonno lo scorso 17 febbraio ma la notizia è stata divulgata soltanto in questi giorni.
procrastinare
L’Agendina dei Concerti di questa settimana sarà online domani. Stasera c’è la seconda serata del Souljob Festival. Altro non so. Boh. Sanremo.
Don Van Vliet 1941-2010
(foto presa da Qui)
Una vignetta in particolare all’interno di un fumetto veramente inquietante su Splatter (o era Mostri, ora proprio non ricordo) mi aveva colpito più delle altre: incollato a un muro c’era un manifesto che raffigurava una perfetta riproduzione dello scatto di copertina di Ice Cream for Crow. Non potevo sapere chi fosse il personaggio nel ritratto, avevo nove anni; ma intanto quell’immagine mi era rimasta impressa nella memoria, e da allora non se n’è più andata. Io di fotografia non capisco un cazzo, non riuscirei a distinguere Helmut Newton da una polaroid, ma ancora oggi quando penso a qualcosa di enigmatico, desolante, indecifrabile e profondamente triste il ricordo torna inesorabilmente a quella foto.
Una cosa di cui vado fiero è non essermi MAI riferito a Don Van Vliet, nelle conversazioni o altro, chiamandolo Capitan Cuordibue. Mi ha sempre fatto imbestialire questa orripilante storpiatura tutta italo, non saprei nemmeno spiegare come mai; ognuno ha le sue idiosincrasie.
R.I.P.
La ‘speranza’ di cui parlate è una trappola, è una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni. La speranza è quella di quelli che ti dicono che Dio… ‘state buoni, state zitti, pregate, che avrete il vostro riscatto, la vostra ricompensa nell’aldilà, perciò adesso state buoni, ci sarà l’aldilà’. Così dice quello: ‘state buoni, tornate a casa. Sì, siete dei precari, ma tanto tra due o tre mesi vi ri-assumiamo ancora, vi daremo il posto, eccetera; sì, sì, state buoni’, vanno a casa e stanno tutti buoni. ‘Abbiate speranza’: MAI avere la speranza. La speranza è una trappola. È una cosa infame, inventata da chi comanda.
(Mario Monicelli, marzo 2010)
Nel giro di appena 24 ore dalla notizia della morte di Leslie Nielsen (e ad ancora meno da quella di Irvin Kershner) apprendiamo che Mario Monicelli si è ucciso lanciandosi dal quinto piano dell’ospedale San Giovanni di Roma. Aveva 95 anni e credevamo che ci avrebbe seppellito a tutti quanti.
L’agendina dei concerti Emilia Romagna – 11-17 ottobre
Nascondete pistole, coltelli, lamette da barba, corde e cavi resistenti di ogni genere, sigillate le prese di corrente e cercate di tenervi lontani dai fornelli: Matt Elliott è in città. E siccome l’uscita del nuovo album – di nuovo a nome Third Eye Foundation dopo un letargo della trip-hoppeggiante ragione sociale durato una decina d’anni (probabile Tanto se ribeccamo nell’immediato futuro se mi girano) – è rimandata al mese prossimo, è più che probabile che questa sortita sia finalizzata ad annichilirci definitivamente con un’ultima letale passata delle sue ‘Songs’; si comincia domani sera in Romagna per una data di cui non so assolutamente nulla a parte che il concerto si terrà a Santarcangelo, il consiglio che posso dare è di contattare l’organizzazione nella speranza di racimolare ulteriori informazioni. Quel che invece è certo è che mercoledì 13 suonerà al Clandestino a Faenza, gratis a partire dalle 22 (giovedì invece sapete dove l’han messo? Al Forum di Assago. Probabilmente per il LOAL) .
Comunque vada, giovedì 14 si torna a desiderare il dono dell’ubiquità: all’XM24 1400 Points de Suture e Night Terrors (dalle 22, quattro euro), al TPO la prima data dei riformati e più pisellanti che mai One Dimensional Man performing the album You Kill Me (dalle 22, dovrebbero stare sui dieci euro), i Calibro35 alle Scuderie (so soltanto che inizia alle 21.30, capace che chiedono anche qualcosa) e perfino il redivivo RAUM riapre i cancelli per ospitare nel suo sciccoso salotto tre live da paura, ovvero Lasse Marhaug, Lorenzo Senni e quel cazzone di Mattin (non azzardatevi ad applaudire al termine del suo set, a meno che non vogliate essere coperti di insulti dal diretto interessato). Se avete una vista portentosa le info al riguardo stanno sul cibernetico sito del locale, altrimenti potete pure cavarvi gli occhi come è successo a me. Per i più spirituali in bolletta sparata c’è anche Lindo Ferretti alla chiesa di Sant’Agostino a Imola, gratis, dalle 21.
Venerdì il reducismo assume nuovi e inquietanti significati al Covo con i Levinhurst, ovvero il gruppo di Lol Tolhurst e consorte più Michael Dempsey, ovvero lo sfigato che ha suonato il basso in Three Imaginary Boys (e pure portasfiga: finirà poi negli Associates, nei Lotus Eaters e perfino nei Roxy Music di Avalon, tutti gruppi che si scioglieranno poco dopo il suo arrivo); inizio ore 22, per conoscere il prezzo bisognerà interrogare gli aruspici. Magari si riesce pure a fare la doppia: appena finito il concerto di corsa al Decadence, suona Simone Spiritual Front Salvatori. Quindici euro e dresscode obbligatorio, e se va fatta bene si rimedia pure una sega nella dark room. Altrimenti, tutti al Naima assieme a Dente Di Fata a sentire gli Iron Butterfly (venti euro: onesto), o a Reggio Emilia al Teatro Valli per Diamanda Galas (20.30, biglietti da diciassette a trenta euro).
Sabato ancora al Covo con Bologna Violenta (dalle 22, per il prezzo si dovranno decifrare le interiora di animali), altrimenti ci sono i Dillinger al Vidia (coi cafonissimi Cancer Bats di supporto, inizio ore 21.30, biglietti ventidue euro), Paul Di’Anno a Scandiano (dalle 22, l’ingresso dovrebbe stare a sette pidocchiosi euro… siateci!), oppure una bella gragnuolata di zozzo d-beat alla vecchia al Nuovo Lazzaretto con Deathraid + Kontatto (dalle 22, cinque euro).
Domenica ancora Matt Elliott, questa volta al Mattatoio a Carpi. Per chi sopravvive, ci risentiamo settimana prossima.
Bruno S. – 1932-2010
L’11 agosto un attacco di cuore ha posto fine alla tribolata esistenza di Bruno Schleinstein, meglio conosciuto come Bruno S.
Figlio indesiderato di una prostituta, che lo massacra di botte fino a renderlo temporaneamente sordo in tenerissima età, Bruno trascorre l’infanzia, l’adolescenza e parte della vita adulta tra orfanotrofi (prima), manicomi (poi) e galere (durante), un percorso di vita che avrebbe suscitato l’invidia di Edward Bunker e lo sdegno di Franco Basaglia, al termine del quale si ritrova a guidare il muletto in una fabbrica di pezzi di ricambio metallici per sbarcare il lunario; alla sera e nei fine settimana gira per bar suonando e cantando le sue canzoni – in larga parte autobiografiche – con l’ausilio di fisarmonica, xilofono e una serie infinita di strumenti autocostruiti in puro Moondog style (ma senza i deliri cosmologici). Ultraquarantenne viene scoperto da Werner Herzog, che in quel periodo era in pieno trip lavorare con personaggi ‘estremi’ (voglio dire, ancora più del solito: nel giro di un paio d’anni aveva girato, nell’ordine, un documentario sulla vita di una sordocieca e uno su un istituto per bambini gravemente handicappati, il primo film con Klaus Kinski con annessa minaccia di morte nel caso quest’ultimo decidesse di abbandonare il set, e per finire un’intervista al campione mondiale di salto con gli sci); figurarsi il sollucchero all’ipotesi di poter lavorare con un matto vero. Lo scrittura immediatamente come protagonista nel terminale L’Enigma di Kaspar Hauser. Il film viene inserito in concorso al festival di Cannes 1974; vincendo le iniziali ritrosie da parte di Herzog, Bruno parteciperà alla premiazione (Kaspar Hauser otterrà il Grand Prix Speciale della Giuria) e al conseguente circo mediatico di interviste, servizi fotografici eccetera, facendo nè più nè meno la fine di John Merrick nella seconda parte di The Elephant Man: un giocattolo anche un po’ repellente da mostrare ai ricconi incuriositi. Curiosamente, è anche la stessa sorte che tocca al personaggio da lui interpretato nel film, un cortocircuito che annulla definitivamente ogni residuo di barriera tra messa in scena e realtà: Bruno S. è Kaspar Hauser, e viceversa.
Il sodalizio con Herzog prosegue nell’ancora più radicale, negativista e spietato La Ballata di Stroszek, scritto dal regista in quattro giorni, pare, per compensare Bruno della mancata partecipazione alla rendition cinematografica di Woyzeck, allora in fase embrionale (il ruolo poi andrà a Klaus Kinski); ancora una volta Bruno interpreta sostanzialmente sè stesso, un emarginato in lotta costante contro la società da cui cerca di difendersi ogni giorno, in una guerra che si riconosce impari fin dal primo momento. Stroszek è il ruolo che proietta la figura di Bruno S., e quindi la sua vita, nell’olimpo dei massimi credenti bastonati dalla sorte in ogni tempo e in ogni luogo, dei Robert Neville, degli R.P. MacMurphy, degli Umberto D., e in generale di tutti quelli che riescono a trovare la forza, giorno dopo giorno, di rappresentare sempre e nient’altro che il proprio Io disperato.
Il problema è che Herzog, non appena si rende conto di avere esaurito le motivazioni dietro un progetto, e dunque sente il bisogno di correre dietro a qualcos’altro – possibilmente ancora più folle e scriteriato, ha un modo decisamente sgradevole di chiudere i rapporti: all’improvviso e in maniera irrevocabile, senza alcuna spiegazione. Convinto (chissà, magari pure a ragione; comunque non lo sapremo mai) che la partnership con Bruno avesse terminato la sua spinta propulsiva, il volitivo bavarese molla gli ormeggi e abbandona il matto miracolato al suo destino senza pensarci due volte. Da par suo, Bruno viene lentamente dimenticato da tutti (dai cinefili e dagli addetti ai lavori quantomeno) e torna – bisogna dire con la dignità intatta – al suo inesausto errare tra bar e baretti a suonare le sue fragili canzoni piene di orrore. Col tempo si fa anche una certa fama come pittore nel campo dell’outsider art.
È in qualche maniera un cerchio che si chiude l’ultima apparizione in video di Bruno S.: un documentario, proprio come agli inizi (Herzog infatti lo scoprì grazie al fantomatico Bruno der Schwarze, pellicola di tale Lutz Eisholz su una banda di musicisti di strada capitanata – per l’appunto – da Bruno ‘Il Nero’). Bruno S. – Estrangement Is Death racconta la vita dell’uomo dopo che le luci della ribalta hanno smesso di brillare, senza patetismi ma anche senza alcuno sconto; vedere il degrado in cui Bruno conduce la sua esistenza è un rospo difficile da mandare giù in qualunque modo la si voglia mettere.
Cercando notizie sulla sua morte mi sono imbattuto in questo articolo; il sito è in tedesco e non ci ho capito un cazzo, ma nell’ultima foto Bruno indossa una t-shirt di J Mascis & The Fog. Mi venga un colpo se so il perchè, ma secondo me questo significa qualcosa.
R.I.P.
foto copyright Ansa
Un malore improvviso ha portato via una delle facce da gangster più perturbanti della storia del cinema passato, presente e futuro. Corso Salani era la versione italiana di Robert Davi, solo (ancora) più emaciato, scavato e divorato dalla vita, nonchè decisamente più versatile rispetto al canagliesco, unilaterale doppelgänger oltre l’oceano; con quei crateri a punteggiargli le guance e le tempie poteva essere il più spietato dei boss mafiosi come un eroinomane all’ultimo stadio che ha appena effettuato uno scippo a regola d’arte e ora vuole solo spararsi in vena il frutto delle proprie fatiche. Ogni minimo particolare del suo volto giacomettiano raccontava delle infinite sfumature di chi vive costantemente ai margini della legalità, un delinquente fatto e finito, comunque sempre ambiguo e pure in qualche modo perversamente inquietante. Eppure, come attore, ha quasi sempre fatto altro. Titanica la sua interpretazione ne Il muro di gomma di Marco Risi, con cui rinnova il sodalizio nel successivo Nel continente nero; in entrambi i casi incarna personaggi positivi. Un veloce passaggio nel giallo da paperback nel bellissimo e dimenticato La fine è nota (l’unico bel film di Cristina Comencini), una comparsata nell’insipido Cuori al verde di Giuseppe Piccioni poi più nulla a livello mainstream, mentre prosegue con passione e rigore inalterati l’attività di documentarista e sceneggiatore attento, puntuale, sensibile, al tempo stesso discreto e schietto. Ricompare protagonista nel notturno Il vento, di sera (2004), rottoinculo devastato dalla morte accidentale del compagno, costretto a vagare senza requie in una Bologna deserta e lunare. Poi la consueta transumanza in progetti più o meno oscuri, più o meno centrati (da Louis Nero a “Un caso di coscienza“, dal bruttissimo Piano, Solo all’italo-rumeno Mar Nero), fino alla morte che lo sorprende la sera del 16 giugno mentre passeggia sul lungomare di Ostia.
R.I.P.
Dennis Hopper (1936 – 2010)
Un cancro alla prostata si è mangiato questa mattina l’uomo che, dopo William Burroughs, più di ogni altro è passato attraverso tanta di quella droga da mandare al Creatore legioni di elefanti rimanendo (relativamente) lucido. Grandissimo attore quale che fosse il film in cui era coinvolto, diseguale come regista, capace al tempo stesso di capolavori assoluti (The Hot Spot, probabilmente il noir americano più sottovalutato di sempre), deliri allucinanti da mandare a casa piangendo il Roger Corman del periodo “acido” (Fuga da Hollywood) e sciocchezzuole da offesa alla dignità umana (Una bionda sotto scorta). Negli ultimi anni aveva continuato a passeggiare con kinskiana nonchalance tra la B più bieca (10th & Wolf, con un cast tra l’incredibile e l’improbabile che pare assemblato tirando i dadi), special guests caricaturali (La terra dei morti viventi) e il vecchio cinema d’Autore (il pazzesco Palermo Shooting, dove tra l’altro ha riallacciato i contatti con il vecchio amico Wim Wenders), finendo anche invischiato – probabilmente per ragioni puramente alimentari – in qualche telefilm del cazzo di ultima generazione. Celeberrima la sua battuta, ai tempi del secondo mandato di George W. Bush: “Ho votato per lui, ma non ditelo troppo in giro. Non è un buon momento per essere americani, questo“. Una litrata di whisky pregiato e un paio di piste di colombiana lunghe quanto un braccio sono il modo migliore, forse l’unico, per celebrare questo grandissimo UOMO.